lunedì 15 agosto 2016

Linee di confine: cosa sono, come si tracciano e quali le conseguenze politiche

Intervista a Davide Allegri


Davide Allegri è geografo-storico all’Università degli Studi di Trento, ha collaborato con il Progetto Confini della Provincia Autonoma di Trento per la ridefinizione della linea confinaria fra il nostro territorio, il Veneto, la Lombardia, e la Provincia di Bolzano. Con lui parliamo di confini e frontiere come concetti, di come si tracciano queste linee sulla terra e sulle carte geografiche, e quali siano le conseguenze politiche di queste scelte.



In quanto geografo, sei nelle migliori condizioni per rispondere a una domanda fondamentale che verrà affrontata il 20 agosto: cosa sono i Confini e le Frontiere?

Una bella domanda, a cui è difficile dare una risposta univoca. Entrambe appartengono alla storia dell’umanità dalla sua origine: la Frontiera è un elemento ideale di scambio, di incontro, di permeabilità fra due società, due culture, due gruppi distinti. Il Confine, invece, ha più a che fare con il lato politico amministrativo, e con lo Stato nazionale. Però questi due concetti hanno anche assunto caratterizzazioni diverse: la Frontiera nell’immaginario americano, ad esempio, dà l’idea di uno spazio in espansione, dell’occupazione di nuove terre e di “scoperta” di nuovi luoghi. Un altro significato, più etimologico, della Frontiera richiama il Fronte: un dispositivo militare, di contrapposizione violenta e di scontro frontale. Tuttavia, il significato più comunemente attribuito al Confine e alla Frontiera è che, il primo è una linea che divide, mentre il secondo è una porzione di terreno meno definita e più sfumata, più adatta all’incontro e alla mescolanza.


Visto che il Festival si svolge in area alpina, e visti i tuoi interessi sulle aree montane, ti chiederei una storia del Confine e della Frontiera nelle Alpi.

Questa storia è soprattutto una storia delle pratiche politico-amministrative. Queste pratiche cambiano durante tutta la modernità, con rotture più chiare attorno al 1700 e al 1800. La prima impostazione, che dura fino alla prima metà del 1700, è basata, da un lato, su una concezione delle Alpi più legata alla Frontiera e alla permeabilità che non al tracciare linee nette. Dall’altro lato, la terra non è divisa in parti ognuna assegnata a un privato, ma è collettivamente posseduta dai feudatari e curata dai contadini, con diritti comuni di pascolo, bosco e alpeggio. Dal 1700 in poi si arriva, per opera degli stati moderni, o nazionali o imperiali come l’Austria, a una linearizzazione del confine: tracciare una linea che separa il “territorio” comune dalle proprietà private. Questa linearizzazione, che voleva porre rimedio alle rivalità diffuse e continue fra nobili locali tipiche del Medioevo, non produce completamente la pacificazione sperata: alcuni conflitti confinari si sono trascinati fino ad oggi.


Ci puoi fare qualche esempio di come le Alpi erano gestite prima che venissero tracciati i confini statali?

Innanzi tutto, come enti fondamentali del periodo medievale c’erano i Comuni, o le Comuni o Comunità, a seconda di come si chiamassero all’epoca. Questi enti sono più attenti di altri alla dinamica territoriale: il territorio in geografia è lo spazio che contiene una comunità umana, e la relazione particolare che si instaura tra una determinata comunità umana e lo spazio che questa pratica abitualmente. In questo senso, tutte le civiltà umane hanno sempre tracciato linee e diviso spazi. Questo è un periodo molto violento di scontro fra comunità, in quanto ognuna aveva problemi nel vivere dei prodotti del proprio territorio e cercava, per sopravvivere, di espandere questo territorio. Esempi di questi scontri sono ad esempio quelli che si verificarono sulla piana di Marcesina tra Vicenza e le comunità trentine di confine, o nella zona di Campogrosso in Vallarsa, o anche nei Lessini veronesi tra le comunità dei Quattro Vicariati e le realtà di confine veronesi. Spesso in questi casi venivano chiamati in causa i feudatari di rango superiore, in quanto possessori della terra e detentori del potere politico amministrativo. In questo, gli enti statali o protostatali, come la Serenissima o l’Impero d’Austria, restavano a guardare o, al massimo, stringevano accordi tattici con alcuni feudatari contro altri. Vicenza, ad esempio, aveva dei cosiddetti “beni livellari” che derivavano da lasciti feudali e su cui nemmeno Venezia aveva competenza: su queste porzioni di territorio, che erano poste a 80 chilometri dal centro cittadino, Vicenza aveva una sorta di “politica estera” autonoma. Questi conflitti sono sempre difficili da ricostruire, anche perché tutte le fonti erano orientate politicamente a favore o contro una specifica parte in conflitto. La situazione si stabilizza con la linearizzazione dei confini.


Tu poco fa hai detto che alcuni dei conflitti confinari si sono trascinati fino ad oggi: puoi farci qualche esempio di questi conflitti antichi ancora non risolti?

Per capire questo tipo di conflitti bisogna prima dire che è solo con il Settecento che si cominciano a disegnare mappe su base geometrica. Le carte geografiche e le mappe sono sempre sbagliate, anche quelle contemporanee: soffrono di errori perché la Terra è una sfera e, quindi, non si può rappresentare su un piano. Tuttavia, questa geometrizzazione della cartografia rende possibile tracciare linee su una mappa e riconoscere queste linee come confini invalicabili fra un’autorità e un’altra. Il problema che è alla radice dei conflitti che si sono trasmessi fino ad oggi, è legato a differenti standard e tecniche di rilevazione e di rappresentazione cartografica. Ad esempio, la Provincia di Trento utilizza, come base cartografica, il catasto asburgico costruito a cavallo della metà dell’Ottocento. Il resto d’Italia, invece, usa altre fonti geografiche: il Veneto e la Lombardia, ad esempio, usano il catasto napoleonico che è di circa cinquant’anni precedente. Dato che la metodologia per realizzare questi due catasti sono differenti, si sono prodotti, fra Provincia di Trento e le limitrofe Provincia di Bolzano, Regione Lombardia e Regione Veneto, circa duecento scostamenti. Alcuni sono “sovrapposizioni”: sia Veneto che Trentino, ad esempio, reclamano autorità su alcune porzioni di territorio. In altri casi, si producono “terre di nessuno” laddove né una Regione, né l’altra dimostrino di avere autorità su uno specifico territorio. Questi conflitti confinari, se il più delle volte sono fisiologici e pacifici, a volte producono conflitti giudiziari. Di questo si occupa il Progetto Confini.


Di cosa si occupa questo Progetto?

Fino ad oggi, queste dispute confinarie si risolvevano nelle aule di tribunale. Il problema di questo tipo di soluzioni di dispute è che gli avvocati hanno una buona conoscenza delle molteplici e a volte contradditorie decisioni giudiziarie antiche, ma quasi sempre le fonti cartografiche non vengono nemmeno prese in considerazione nonostante la carta abbia il merito di essere estremamente diretta e comunicativa. Il Progetto Confini vuole colmare questa lacuna attraverso una ricerca della cartografia storica relativa alle zone di conflitto, Oltre a ciò, si lavora ad una ricerca qualitativa che coinvolga tutti gli attori in campo (le Province e le Regioni, ma anche i comuni, le realtà produttive e i cittadini) e che consenta di far emergere la rappresentazione che essi fanno del confine. Le fonti cartografiche hanno il grande pregio di essere sintetiche, quindi di riportare una decisione su una linea di confine in maniera precisa e senza bisogno di ulteriori informazioni. Inoltre, se prodotte con tecniche adatte e sufficientemente precise, le carte confinarie storiche possono essere georiferite, cioè possono essere sovrapposte a fonti cartografiche contemporanee. Il lavoro che facciamo con le carte è recuperare linee di confine storiche, quindi magari addirittura fissate dalla Serenissima, da un lato, e dall’Impero, dall’altro tra la metà e la fine del Settecento. Le fonti scritte e le carte storiche non sono vangelo: la parola, a un certo punto, passa alla politica, quindi tutti i responsabili territoriali che, nel caso siano d’accordo con la soluzione proposta da noi, la ratificano.


Quanto è durato il progetto, e che bilancio si può fare della vostra attività?

Il progetto si è concluso quest’anno dopo quattro anni, e c’è una proposta di proroga su cui non c’è ancora stata una decisione finale. Nel complesso, il lavoro ha prodotto esiti positivi sia in termini di soluzioni date a problemi aperti, sia in termini di fonti acquisite: abbiamo trovato e catalogato circa quattromila carte storiche e fonti provenienti da archivi di mezza Europa. Il Trentino, area di frontiera per eccellenza ha subito una dispersione notevole dei propri materiali documentari nel corso dei secoli e le fonti sono sparse ovunque, da Vienna, a Parigi, a Monaco di Baviera, solo per citarne alcuni. Le due famiglie di carte su cui ci siamo concentrati sono state quelle prodotte nel periodo di Maria Teresa d’Austria durante il Secondo Congresso confinario di Rovereto nel 1750 fino al 1756, e la cui cartografia durerà fino alle guerre Napoleoniche. Il secondo gruppo di carte è proprio il catasto napoleonico del Trentino realizzato a partire dal 1810. Quest’ultimo catasto, purtroppo è più frammentario di quello austriaco ma siamo comunque riusciti a recuperare dati molto interessanti. Un altro elemento positivo di questo progetto è la valutazione scientifica positiva che è stata data anche da esperti esterni. In particolare, l’utilità scientifica di questa attività è stata mettere assieme approcci e discipline diverse: c’era un esperto GIS che si occupava della geolocalizzazione dei luoghi oggetti di conflitto (Marco Mastronunzio), un esperto storico – che ero io – che si occupava delle fonti e della cartografia storica, e poi era presente una geografa (Angela Alaimo)che, si occupava del lato più simbolico, antropologico e culturale del confine, quindi attraverso interviste alle persone che vivono e abitano in quei posti.


Ti chiederei cosa ne pensi del futuro dei confini? Oggi in Europa ci sono stati che ripropongono confini e filo spinato, forze regionaliste che vogliono più Europa e meno stati nazione e, infine, abbiamo un’Europa attraversata da flussi migratori epocali che fanno capire come i fenomeni globali abbiano sempre una manifestazione e un impatto locali. Come pensi che questa dinamica influirà in futuro?

Io penso che non si debba aver paura di confini o frontiere: l’esistenza di un confine è utile per gestire l’interazione fra differenti gruppi umani. Per esempio, molti dei diritti che conosciamo nascono come diritti istituiti dallo stato nazione, quindi all’internodi specifici confini, i propri. In questo senso, i nostri diritti diventano privilegi nel momento in cui diventano esclusivi di fronte a persone senza possibilità e senza speranze. Come ha mostrato il nostro progetto, sta alla politica il dovere di gestire i confini in modo moralmente corretto. Questo vuol dire che, se c’è la volontà, i confini possono essere gestiti come spazi di frontiera porosi, piuttosto che come linee di demarcazione fisse e inviolabili, come muri. Spesso si dice che non sono i fucili a uccidere le persone, ma sono le persone a farlo, e lo stesso vale per i confini: i confini non uccidono di per se stessi, lo fanno quando vengono fortificati e presidiati militarmente. Il sogno dell’Europa unita non era quello dei vantaggi della moneta unica o dei profitti derivanti dall’unione bancaria, ma che venisse creato uno spazio culturale comune con un’ambizione superiore a quello di diventare un super stato nazione. In questo, il segnale mandato dalla Gran Bretagna nell’uscire può essere un segnale importante in senso paradossalmente positivo, nel senso che ci permette di interrogarci sulle poste in gioco e sulle dinamiche di lungo periodo. Questa capacità, però, manca in larga parte di coloro che devono governare questi confini, mentre era più presente in chi l’Europa l’ha sognata e pensata. L’Italia in particolare dovrebbe porsi come Frontiera d’Europa perché lo siamo e lo siamo sempre stati.





Ludovico Rella

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