venerdì 31 agosto 2012

IL GIRO DELLA FARFALLA: INTERVISTA A ALESSANDRO DE BERTOLINI



Nel tuo ultimo libro “Il giro della Farfalla” (Curcu & Genovese) parli di un tuo viaggio in bicicletta per il Trentino, come sei arrivato a raccontare questo?
Recuperando la tesi di laurea del 1898 di Cesare Battisti, in cui lui definisce il Trentino una farfalla per via dei suoi confini geografici sulla mappa, abbiamo definito il giro del Trentino “il giro delle farfalla”. Abbiamo cercato di ripercorrerlo con la bicicletta seguendo il confine. Non passo passo, perché i confini attraversano le catene montuose, ma ripercorrendo le strade che a destra e sinistra seguono il perimetro del Trentino. Sconfinando in Alto Alto Adige, in Veneto, in Lombardia la dove il percorso lo richiedeva. E’ un’attraversata di terre di confine, perché con l’obiettivo di seguire il profilo geografico della nostra provincia abbiamo continuato ad andare qua e la nelle zone limitrofe. Racconto un viaggio per le strade asfaltate, meno frequentate, attraverso i grandi passi alpini. Passi poco battuti perchè con le nuove bretelle del fondovalle le strade sono sempre più veloci, sempre più in basso e i valichi alpini sono sempre più abbandonati. Qualche passo, come quello dello Stelvio, conserva ancora la sua importanza, altri sono sempre meno battuti proprio perché il traffico scorre a fondovalle.
Perché hai scelto la bicicletta come mezzo per questo viaggio?
Vado in montagna da sempre. La bicicletta è il modo che preferisco per girare le valli trentine e non solo. E’ un modo per andare in montagna, non è tanto la bici di per se, ma la voglia di stare all’aria aperta e a contatto con la natura. La bicicletta rispetto all’automobile ti permette di viaggiare molto lentamente e di vedere quello che hai attorno, di gustarlo, di capire cosa ti passa sotto i pedali e di farti incuriosire. A muovere tutto è la curiosità, una delle virtù più diffuse e sottovalutate dell’uomo. Ce l’abbiamo un po’ tutti, ci pensiamo poco, ma è il motore che ti spinge a fare le cose, a passare da un orizzonte all’altro, a cercare cose nuove. Rispetto al camminare l’andare in bici  è un po’ meno lento e ti permette di percorrere più chilometri. In una giornata puoi cambiare valle, provincia, paese. In bici puoi fare 200, 250 chilometri molto lentamente, ma non così piano come  a piedi.
Infatti sono bastati 9 giorni per fare il giro del Trentino?
Abbiamo impiegato 9 giorni per compiere l’anello del trentino poi a ogni tappa abbiamo fatto un giro con partenza e rientro dal punto di sosta verso l’interno o sconfinando nelle zone limitrofe, itinerari ad anello. Una formula di 9 giorni più nove in cui sono stati percorsi 2.000 chilometri, 50 mila metri di dislivello e 50 passi alpini.
Hai curato per la Fondazione museo storico di Trento una mostra sulla storia della bicicletta “ Il cavallo d’argento”.
Ci siamo occupati della storia del ciclismo in Trentino, che ha molto a  che fare con la storia dell’associazionismo, dell’irredentismo, è uno sport legato a doppio nodo alla stria del Trentino e ha a che fare con lo spirito di autonomia. Io l’ho seguita perché mi occupo all’interno della Fondazione dei progetti di divulgazione storica. Il fatto che io vada in bicicletta, però, è del tutto casuale, è una coincidenza. Mi sono molto divertito a lavorarci perché è un argomento che mi appassiona anche al di fuori del lavoro, ma le due cose non hanno un collegamento.
Nell’incontro LA GIOIA DELL’ANDAR LENTI, venerdì 31 agosto, alle 21.00 al Tendone di Riva di Vallarsa, all’interno del festival Tra le Rocce e il cielo si parlerà del viaggiare piano. Perché vale la pena viaggiare lentamente rispetto a fare un altro tipo di viaggio?
Sono convinto che il territorio abbia una serie di suggestioni da offrire, una serie di informazioni da svelare, che non sempre possono essere comprese in modo immediato e se il tempo è poco. Ogni provincia, ogni valle, ogni paese ha una storia da raccontare. I segni di questa storia, ricalcano in realtà il portato culturale delle comunità che vi hanno abitato. Questi segni sono più o meno visibili a seconda delle informazioni che il territorio da e dal tipo di lettura che se ne vuole fare.
E’ evidente che quando io passo per Trento e vedo il Doss Trento posso fermarmi a pensare che quello è uno dei tre dossi che ha dato il nome alla città e che sul dosso c’è il mausoleo a Cesare Battisti. Posso fermarmi qui, oppure posso pensare chi era Cesare Battisti, a quale è stato il suo ruolo in Trentino e via di questo passo. Questo discorso si può fare per la piazza del Duomo a Milano o per il lago di Speccheri in Vallarsa, nel momento in cui mi ci avvicino e rifletto sul fatto che non è un bacino naturale. Posso limitarmi ad osservarlo o andare in profondità chiedendomi quando è stato costruito, da chi, perché, con quali capitali, con quale impatto sul territorio e con quali stravolgimenti anche sul paesaggio mentale della gente. In questo modo il territorio può essere letto a più livelli e tanto più lentamente cisi muove sopra al territorio, tanto più è facile trovare il tempo per andare in profondità nei vari livelli di informazioni che un territorio ha.
 “Il giro della Farfalla” come in “L’attraversata delle Alpi in bicicletta” (il libro scritto in precedenza) abbiamo inserito delle informazioni in maniera molto breve, senza grandi pretese raccogliendo proprio quelle curiosità che il territorio ci ha offerto, che sono tantissime e spaziano da una disciplina all’altra dalla storia, alla letteratura, all’arte.
I tuoi libri sono quindi un invito al viaggiar più lentamente e con più attenzione?
Sì, lo spirito è quello.
Dopo i tuoi viaggi Islanda, Croazia, Slovenia, Normandia, sui Pirenei, sulle Alpi, in Scozia, in Irlanda, nella Patagonia argentina e in Cile, solo per citare alcune delle tue più recenti mete, ti aspettiamo a Tra le Rocce e il cielo in Vallarsa…in bicicletta naturalmente!
Stefania Costa
costa_stefania@yahoo.it

IL CANTO POPOLARE ALPINO FRA PASSATO E PRESENTE: INTERVISTA A RENATO MORELLI


Tu sei principalmente un musicologo e antropologo musicale: cosa può raccontarci di un popolo la sua musica?
Io mi sono occupato di antropologia visiva fin dagli anni ’70 quando con l’Università di Trento abbiamo avviato un progetto per documentare la cultura trentina, e fin da allora mi sono posto il problema, come musicologo, di contestualizzare le musiche tradizionali, cercando di riprendere in video le situazioni cerimoniali in cui la musica veniva eseguita. Quando io ho iniziato questo tipo di ricerche esisteva solo la pellicola, molto cara, e solo avviando una collaborazione con la RAI ho potuto avere fondi a sufficienza per poter procurarmi la pellicola. Attualmente i costi sono diminuiti notevolmente grazie alle nuove tecnologie e ora mi è possibile autoprodurre i documentari, come ad esempio il lavoro che presenterò a Tra le rocce e il cielo, “Tre giorni a Premana - Voci alte”.
Bisogna prima di tutto fare una premessa: quando si parla di canto popolare alpino si tende sempre a pensare ai cori sul tipo di quello della SAT, che per prima cosa sono un fenomeno relativamente recente essendo del 1926, e poi sono una modalità interpretativa dei canti popolari che hanno provocato una standardizzazione molto imponente degli stessi. In realtà il tipo di canto alpino della SAT è di origine popolare, ma i pezzi vengono musicati secondo le strutture e la formalizzazione della musica colta, spesso da autori di musica colta come Benedetti Michelangeli e altri. È stata una operazione senza dubbio meritoria, è stata chiamata il “conservatorio delle Alpi”. Il problema è che poi questo è stato universalmente considerato come il vero canto popolare alpino, e questo non è assolutamente vero. Ad esempio nella musica popolare precedente a questa standardizzazione non c’è alcuna differenziazione tra forte e piano (esiste solo il forte), e l’uso delle filarmoniche non esiste assolutamente, per cui la domanda principale che ci si deve porre è: come cantavano prima di questa standardizzazione?
Ormai sono rimaste pochissime isole dove rimangono intatte queste tradizioni antichissime. Una di queste isole è l’Altopiano di Asiago, che ho ripreso in un documentario precedente, e un’altra è proprio Premana, un paesetto in fondo alla Val Sassina dove si è conservata in modo sorprendente una tradizione di canti straordinari che non erano ancora mai stati documentati. Nel mio film ho cercato di documentare questi canti contestualizzandoli in alcune delle principali occasioni in cui vengono eseguiti. Ho scelto tre dei giorni più rappresentativi per questo tipo di canti, che sono i Tre Re, il Corpus Domini e il giorno della festa tradizionale del periodo dell’alpeggio, facendo le riprese nell’arco di un anno solare, con una troupe di fonici molto bravi, che sono riusciti a catturare perfettamente questo canto.
A Premana è sopravvissuto questo stile di canto che chiamano “tir” che è composto da una tessitura di voci alte al limite del grido, che è un canto che non si può definire polifonia, nel senso che non ci sono parti assegnate, ma è più una competizione canora. In paese sono quasi tutti artigiani del ferro e ogni famiglia rappresenta quindi una di queste botteghe di artigiani che, come sai, sono sempre in lotta fra loro e nel canto si travasa questa mentalità competitiva, pur in un contesto di grande solidarietà. Queste competizioni vengono tenute durante dei pasti collettivi rituali, tenuti negli alpeggi sopra Premana, che non sono come le nostre malghe, ma assomigliano più a paesi in miniatura (ce ne sono 12 in tutto nella zona), dove la gente inizia a cantare dopo aver mangiato, verso le due del pomeriggio, e va avanti fino alle 4 di notte. Sono canti che se li si sente si pensa “beh, adesso dureranno non più di mezz’ora poi saranno tutti senza voce” e invece più passa il tempo più le voci diventano alte e forti.
E questa tradizione risale a quando?
Questa tradizione è esistita in tutto l’arco alpino prima della standardizzazione degli anni ’20 del 900 e risale certamente al medioevo, ma non si può dire con precisione a quale secolo. È una tradizione orale, che come tale non ha un punto di inizio documentato precisamente.
Un’altra tradizione canora che ha resistito alla standardizzazione era quella di Mezzano di Primiero, dove anche in questo caso cantavano a squarciagola, forse anche più che a Premana. Si trattava di un rosario cantato in latino, anche questo organizzato in forma di competizione tra due cori di boscaioli, che si rispondevano da un versante vallivo all’altro. Quindi lascio immaginare quanto fossero forti delle voci che si dovevano sentire distintamente da un versante ad un altro di una valle. Purtroppo, essendo una tradizione legata ai boscaioli, lavoro ormai completamente scomparso in zona, è sparita con gli ultimi anziani della valle attorno agli anni ’80-’90 e che fortunatamente sono riuscito a documentare poco prima che si estinguesse.
Tra l’altro posso anticiparti che il progetto di collaborazione con i “Cantori di Vermei” che sarà presente al Festival riproporrà questo repertorio di canti tradizionali usando cantori trentini. Ho messo insieme un coro di cantori appassionati di canti antichi delle Alpi e gli ho insegnato tra le altre cose questo rosario dei boscaioli e il repertorio di Asiago.
Parliamo dell’altro progetto che presenterai al Festival, gli Ziganoff: perché hai scelto la musica klezmer?
Questo è un progetto che non centra nulla con quello di cui abbiamo parlato finora, ma è legato alla mia esperienza di musicista. Io avevo già suonato con un gruppo che faceva musica klezmer, legato però esclusivamente al Trentino e da due anni a questa parte ho fondato questo nuovo gruppo, gli Ziganoff Jazzmer Band. Cosa significa jazz-mer? È un genere a metà tra il jazz e il klezmer. Il klezmer è la musica popolare ebraica della diaspora askenazita, quindi del centro Europa, principalmente Germania e Polonia per arrivare fino in Russia, Ungheria e Romania. Si tratta di un distillato di tutte le tradizioni musicali dell’est europeo filtrato attraverso la sensibilità ebraica, ed è una musica strettamente imparentata con la musica zingara. Una delle poche professioni che potevano fare gli ebrei era quella del musicista, dove erano sempre in diretta concorrenza con gli zingari e quindi si è creata una sorta di simbiosi tra queste due correnti musicali. È una musica che è a cavallo di tre imperi, quello austro- ungarico, quello zarista e quello ottomano e che bene o male si è conservata fino ai giorni nostri, nonostante la tragedia della shoah.
Questo gruppo nato da poco prende il nome da un musicista, Mishka Ziganoff che era per me un personaggio straordinario: nato a Odessa alla fine dell’800, è stato un virtuoso di fisarmonica, secondo alcune fonti ebreo, secondo altre fonti zingaro. Sappiamo che fu di religione cristiana e di lingua Yiddish, che è la lingua degli ebrei askenaziti, che di base è tedesco, con prestiti russi, ungheresi e rumeni scritta con l’alfabeto ebraico. Questo Ziganoff è un miscuglio di etnie e culture fantastico che negli anni del primo ‘900 scappa dai pogrom zaristi e lo ritroviamo negli Stati Uniti nelle prime formazioni di jazz e nel ’19 incide un pezzo che ha lo stesso incipit di “Bella Ciao” anche se è un canto russo. Riscoprire questo personaggio mi ha dato l’opportunità di ritornare alle mie origini jazz che avevo accantonato da tempo a causa di altri impegni.
Il jazz è sempre stata considerata musica nera e poco si sa della componente e degli influssi ebraici. In realtà molti musicisti klezmer li ritroviamo nelle prime formazioni jazz, magari dopo aver cambiato cognome, e non si sa se sono ebrei o meno. Ad esempio pochi sanno che George Gershwin è in realtà un ebreo russo e che il suo vero nome era Jacob Gershowitz e come molti altri ha americanizzato il proprio nome. Il mio progetto musicale si propone di rimettere in comunicazione il klezmer e il jazz seguendo la via tzigane tracciata da Django Reinhardt, zingaro manuche che inventò uno stile di musica che, pur avendo solo due dita in una mano risulta ancora difficilmente eseguibile da un chitarrista con dieci dita. Con questo gruppo in pratica “klezmerizziamo” il jazz e “manuchizziamo” il klezmer.
I musicisti di questo gruppo sono tutti fantastici a partire dal chitarrista manuche, difficilissimo da trovare, e ancor più difficile che sappia fare klezmer, che è Manuel Randi, veramente strepitoso. Poi c’è Fiorenzo Zeni, vecchia conoscenza, sassofonista eccezionale e ci sono i giovani che sono tutti bravissimi come Christian Stanchina, Rossana Caldini violoncellista fantastica di Rovereto, poi al basso tuba Hannes Petermair anche lui molto bravo. Insomma è un gran gruppo e un progetto molto intrigante da presentare in Vallarsa.
E oltre a queste due iniziative presenterai qualcos’altro al Festival?
Sì, terrò anche un seminario di balli tradizionali trentini. Io suonerò la fisarmonica e Vincenzo Barba, il mio caro amico, insegnerà i passi. Nella mia ricerca musicologica mi sono spesso occupato anche di balli e ho accettato volentieri di organizzare questa iniziativa.
E progetti per il futuro?
Il 18 di settembre debutterò con un altro progetto, chiamato “TTT” che significa Trentino, Tirolo, Transilvania, che è un quartetto musicale composto da me e altri tre musicisti di cui se sommi la loro età ottieni la mia. Sono tutti giovanissimi, una è mia figlia, uno è un contrabbassista coetaneo di mia figlia e un flautista di Bolzano anche lui molto giovane e bravo, a cui spero di trasmettere al meglio le mie conoscenze e la mia esperienza. Debutteremo a Roncegno dove noi suoneremo e ci saranno dei ballerini non professionisti che eseguiranno balli trentini, tirolesi, ungheresi e anche klezmer, quindi non ci si annoierà di certo!
Poi a fine settembre sarò in Georgia, nel Caucaso, dove sono stato già in viaggio di nozze e dove c’è la tradizione di canto più importante al mondo, secondo me, che di recente è stata inclusa tra le tutele dell’UNESCO e dove terrò un convegno presentando il mio lavoro su Premana.
Per quanto riguarda i documentari vorrei fare un film sul circo, è un progetto che ho in testa da molto tempo e per il quale ho già fatto tutte le riprese e ho raccolto delle testimonianze straordinarie, devo solo trovare il tempo di montarlo. Mia moglie, poi, ha fatto un lavoro straordinario ricostruendo le linee genealogiche di 200 famiglie italiane che lavoravano nel circo quando ancora era alle origini. Purtroppo al momento non riesco proprio a trovare il tempo per realizzarlo!
Bene, grazie mille per il tuo tempo e ci vediamo presto in Vallarsa!
Ci vediamo in Vallarsa, a presto!

Riccardo Rella
riccardo_rella@yahoo.it

giovedì 30 agosto 2012

IDENTITA' E CONVIVENZA, UN DIALOGO CON FREDO VALLA, AUTORE DI "IL VENTO FA IL SUO GIRO"





Lei è nato in una zona abitata dalla minoranza etnica di lingua occitana. Cosa significa fare parte di una comunità linguistica così piccola?
La comunità occitana a livello europeo non è piccola, anzi è la comunità etnico- linguistica minoritaria più grande di tutte, con 10 milioni di parlanti. È piccola nella realtà italiana, in cui vi sono solo 180000 parlanti. Al momento della riscoperta della langue d’oc durante gli anni ’50 e ’60 del ‘900, per noi giovani di queste valli ha significato aprirsi al mondo, uscire dal locale per guardare il generale. Ha voluto dire appropriarsi di strumenti per comprendere meglio le dinamiche del mondo, i rapporti fra popoli, che al momento erano rapporti coloniali. Al tempo si discuteva molto di politica, quindi queste cose erano all’ordine del giorno. Oggi se ne parla molto meno e quando si parla di minoranze etnico- linguistiche si tende a parlare solo di tradizioni, di pastori e di greggi e pecore, che sono molto rispettabili ma non danno il polso della situazione.
Io penso che i popoli, le lingue abbiano un percorso, muoiono o rinascono come ad esempio l’ebraico in tempi recenti. Più spesso scompaiono: oggi non c’è più nessuno che parla la lingua dei sumeri o degli ittiti. Non è detto che le lingue debbano sopravvivere se i parlanti non vi si riconoscono, se non riescono ad esprimervi tutti i loro pensieri. Per quanto mi riguarda io farò di tutto perché l’occitano non scompaia, ma non so come andrà a finire. La sopravvivenza di una lingua non dipende dallo stato italiano o dalla politica mondiale, quanto dalla volontà dei parlanti di tale lingua avranno voglia e desiderio di conservare e promuovere la propria lingua. Non si dovrà trattare di una difesa fine a sé stessa, altrimenti non sarà altro che passatismo.
Una lingua deve servire a esprimere tutto l’arco di concetti possibili che la vita richiede: se l’occitano dovesse servire solo a parlare di pascoli e pecore, in quel momento sarà già una lingua morta, mentre se dovesse servire a scrivere una lettera d’amore, per parlare di filosofia, di fisica quantistica o di nuove tecnologie allora in quel momento si saprà che sopravvivrà di certo. Se una lingua dovesse diventare un modo per veicolare una difesa del passato, seppur rispettabile, a me farebbe pena. Io credo che una lingua serva o non serva. Certo, non intendo dire che possa servire come l’inglese o una lingua di interscambio mondiale, ma che possa esprimere tutti i concetti possibili, riuscendo a descrivere in un modo peculiare il mondo in cui viviamo.
Spesso il mondo delle minoranze è un mondo asfittico. Non sto parlando delle minoranze forti come possono essere i sud- tirolesi, ma di quei gruppi che si dedicano a catalogare i nomi tradizionali di tutti gli strumenti utilizzati nel passato nei vari mestieri e poi magari non sanno parlare la loro stessa lingua quando devono affrontare discussioni politiche o altro. Spesso si assiste anche a situazioni in cui sedicenti militanti e promotori del particolarismo linguistico si trovano a parlare la lingua dominante ai loro stessi figli. A quel punto la tutela della lingua diventa una battaglia persa in partenza.

Il suo film “Il vento fa il suo giro” affronta queste tematiche. Com’è nata l’idea di realizzare questo film?
“Il vento fa il suo giro” nasce da una storia vera, realmente accaduta qui a Ostana, e nasce dalla mia frequenza alla scuola di cinema di Ermanno Olmi “Ipotesi cinema” con sede a Bassano del Grappa. In questa scuola ho incontrato una serie di persone, tra cui Giorgio Diritti che mi propose di trarre un film da questa vicenda. Io avevo scritto un soggetto che poi è stato discusso in gruppo alla scuola e da cui è stato poi prodotto il film dopo una serie infinita di traversie, sia all’interno della scuola che nella ricerca di una produzione. Il copione è stato respinto molte volte perché i potenziali produttori si chiedevano chi potesse essere interessato ad un film dove si parlava dialetto e dove si parlava di capre e solo la grande determinazione del regista Giorgio Diritti ha permesso che il film alla fine sia stato prodotto.

Ne valeva la pena, visto che è un ottimo film, che non fa sconti a quelle che sono le problematiche della convivenza in un ambiente “chiuso” come la piccola comunità mostrata…
Il fatto che il film non faccia sconti è stato un altro dei problemi della produzione. Quando cercavamo piccoli fondi dalle comunità ci sentivamo rispondere “avete fatto un film che mette in cattiva luce la montagna”. Noi non volevamo fare un’agiografia della montagna, volevamo raccontare una storia. È stato come quando ho realizzato il mio film sulla Grande Guerra, per cui ho ricevuto una serie di critiche perché non avevo messo nella giusta luce le virtù eroiche dell’esercito italiano.
Noi eravamo interessanti unicamente al raccontare una storia che avesse una valenza paradigmatica e il fatto che il film sia stato fatto in occitano è stata una conseguenza diretta delle difficoltà di produzione incontrate: visto che nessuno lo voleva abbiamo deciso di farlo come volevamo noi.
Nel film nessun in realtà è buono così come nessuno in realtà è cattivo. Credo che il risultato sia una sorta di fotografia di come funzionano i rapporti sociali sia in una comunità piccola come quella di Ostana, sia in una realtà più grande come ad esempio il quartiere San Salvario a Torino, un quartiere con molti immigrati, in cui si formano dinamiche simili. È una visione che sovverte la concezione arcadica della montagna, popolata solo da uomini di buoni sentimenti. La montagna non è un luogo popolato da “buoni” perché il cielo è azzurro, l’aria buona e le montagne sono innevate, ma è un luogo come un altro, popolato da uomini e donne con tutti i loro problemi e le dinamiche sociali che ne conseguono. Forse il successo del film è dipeso anche dal fatto che abbiamo mostrato una problematica diffusa inserendola in una micro- comunità.
Forse il risultato è andato oltre le nostre intenzioni originali e anche personaggi che in fase di stesura della sceneggiatura erano più “cattivi”, come Emma ad esempio, la donna che si spacca le dita per accusare di violenza il francese, che una volta messi sullo schermo si sono molto “smussati” e umanizzati. In realtà anche Emma diventa un personaggio con una sua grandezza, disposta a soffrire sul proprio corpo per difendere un suo terreno. Di contro anche personaggi a prima vista postivi come il francese non escono completamente indenni. Certo, lui in fondo cerca la propria felicità, ma esclusivamente la propria, non coinvolgendo realmente la comunità del villaggio.

Il film si apre e si chiude con la frase del titolo “Il vento fa il suo giro”: qual è il significato di questa frase?
Il titolo è venuto da una serie di colloqui con un monaco per un intervista. Questa frase “Il vento fa il suo giro e tutte le cose prima o poi ritornano” è una frase si speranza, sulla ciclicità di tutte le cose. Come diceva mio nonno, i luoghi dove aveva abitato lui erano state “sette volte campo e sette volte prato”, per sottolineare come la gente fosse affluita e defluita dal paese. Certo, non tutte le cose seguono una ciclicità e una lingua che scompare è difficile che possa rinascere, salvo casi eccezionali come per la lingua ebraica.

Il titolo esprime anche una speranza per il ripopolamento delle terre occitane?
Certo! Se non avessimo speranze cosa faremmo? Non varrebbe nemmeno la pena di fare film… La speranza del cambiamento c’è, di invertire una rotta. Le zone occitane hanno visto un esodo che le alpi orientali, più ricche, non hanno mai conosciuto. Le alpi occidentali hanno visto uno spopolamento che è paragonabile, se non superiore alle partenze dal sud Italia negli anni del grande esodo. Nel mio paese c’erano 1200 abitanti iscritti all’anagrafe nel 1921, oggi ne ha circa 30 e durante tutti gli anni ’90 erano solo 10.
Per quanto riguarda il ripopolamento non potrà avere le forme di un tempo perché si viveva in condizioni di sovrappopolamento, con un sovraccarico sul territorio che non poteva garantirne il sostentamento. C’è stato un momento in cui pensavamo in un ritorno dei figli degli emigrati e qualche episodio c’è stato, però sembra che la tendenza del piccolo ripopolamento che stiamo vivendo sia legato alle esperienze di vita di persone che si muovono dalla città verso la montagna per dare un senso differente alla loro vita in un luogo dove la natura sia ancora natura. Questo tipo di popolamento della montagna è molto precario, perché bastano alcune difficoltà in più del preventivato, un lutto in famiglia o altro, per far cambiare idea a questi nuovi abitanti. A volte sono scelte un po’ velleitarie, fatte da gente che pensa di potersi inventare contadino dall’oggi al domani quasi come se il contadino fosse un non mestiere…
Ci sono però alcuni esempi positivi, ad esempio ad Ostana ora alla mia famiglia, che era l’unica del paese con bambini piccoli, se ne sono aggiunte altre due provenienti dalla città nel giugno dell’anno scorso. Questo è molto importante perché sono i bambini piccoli che possono dare un futuro al popolamento di una zona.
Se poi si volesse riportare qualche attività produttiva in quota, prima si dovrebbe attenuare il diritto di proprietà e fare una ricomposizione fondiaria. Qui sarebbe ampiamente possibile e doveroso riavviare un’attività agricola, perché fino a quando la montagna sarà popolata solo da intellettuali come posso essere io o da albergatori non si va da nessuna parte. Servono delle attività produttive per riportare gente in montagna, attività “normali”, un artigiano, un meccanico, ma per fare questo, come ho detto, bisognerebbe andare ad una ricomposizione fondiaria. Si dovrebbe stabilire che se non si utilizza un campo lo si perde, almeno dopo un po’ di tempo, 20- 30 anni, perché altrimenti si finisce a riproporre in eterno le situazioni mostrate nel film. Se si volesse portare del bestiame in quota non lo si potrebbe far pascolare nei campi di proprietà di famiglie che ne conservano gelosamente la proprietà, anche se magari non lo falciano da 30 anni. Bisognerebbe rimescolare le carte della proprietà fondiaria, però non c’è la volontà politica.
Questo è uno dei grossi paradossi dell’Italia, dove la montagna sembra non interessare a nessuno pur occupando un’estensione territoriale uguale se non superiore alle zone di mare, se si pensa che gli Appennini scendono fino in Calabria e ampie zone della Sicilia sono montagnose. Forse è anche perché la gente di montagna non è in grado di fare lobby, massa critica, almeno in queste zone, a differenza magari dell’Alto Adige o del Trentino. Il movimento occitano ha avuto una sua fase politica forte, inizialmente, con alcuni eletti in provincia e anche un rappresentante a Strasburgo, ma l’arrivo della Lega Nord con i suoi proclami “di pancia” ha distrutto tutto. Noi non abbiamo niente a che vedere con la Lega e non condividiamo assolutamente i suoi progetti politici.

Per concludere, quali sono i progetti a cui sta lavorando attualmente?
Attualmente sto finendo un altro film con Giorgio Diritti, ambientato in Amazzonia e per una parte in Trentino a San Romedio, che tratta di una donna alla ricerca di sé, anche se al momento non posso dirle niente di più. Sto lavorando anche ad un altro progetto, sempre con Giorgio Diritti che è un grande amico oltre che un collega, in cui collaboro nel ruolo di soggettista e sceneggiatore, su cui non posso anticipare nulla.
Come regista documentarista invece sto filmando una “favola documentario” sul primo trasvolatore delle Alpi del 1910, Jorge Chaves, peruviano naturalizzato francese. Poi ho un progetto con Reinhold Messner che vedrò proprio in questi giorni a Brunico e poi una serie di regie per produzioni di Pupi Avati.
E poi ho anche una famiglia, due figli da mantenere, un prato da falciare…

Grazie mille per l’intervista e arrivederci al festival!
Grazie a voi e a presto.

Riccardo Rella

riccardo_rella@yahoo.it

FREDO VALLA PRESENTERA' IL SUO FILM "IL VENTO FA IL SUO GIRO" ALLE 17, INTRODOTTO DA RENATO MORELLI, ALL'HOTEL "GENZIANELLA" DI BRUNI DI VALLARSA. INGRESSO LIBERO.

mercoledì 29 agosto 2012

L'ANTICO MANOSCRITTO DEL CADORE: INTERVISTA A MAURO ODORIZZI, ORCHESTRA POPOLARE DELLE DOLOMITI


Mauro Odorizzi, Orchestra Popolare delle Dolomiti: da dove nasce questo progetto e di cosa si tratta?
L’Orchestra Popolare delle Dolomiti nasce nel dicembre 2011, ma l’esordio sul palcoscenico - dopo alcuni mesi di lavoro  - è avvenuto a Trento  il 9 luglio scorso nell’ambito di Itinerari folk. L’ensemble riunisce associazioni  e musicisti già attivi nell’area dolomitica nell’ambito della musica tradizionale:  veneti, trentini e sud-tirolesi che hanno condiviso l’idea di far rivivere queste musiche “dormienti”, antichi ballabili per violino e mandolino che per quasi un secolo sono rimasti custoditi dentro alcuni quaderni manoscritti  fortunosamente ritrovati  in Cadore.  Dal ritrovamento di questo tesoro culturale l’associazione Calicanto ha preso le mosse dapprima sul versante etnomusicologico lavorando ad una pubblicazione che documentasse questo materiale, in un secondo momento per rielaborare queste musiche e poterle reinterpretare in forma orchestrale .
La presentazione del volume con CD allegato  “Ballabili antichi per mandolino o violino, un repertorio dalle Dolomiti del primo 900”, curata dall’editore friulano Nota, specializzato nella pubblicazione di documenti sonori della tradizione e in ricerche storico-musicali, è avvenuta a fine giugno . Gli autori, Roberto Tombesi, Francesco Ganassin e Tommaso Luison offrono una lettura testuale, storica e musicologica dei manoscritti. Nel libro c’è la trascrizione integrale di uno di questi quaderni, contenente 115 melodie, e nel CD allegato sono riprodotte 39 di queste melodie. Molto diffuso è il valzer, ma si trovano numerose forme di danza e titolazioni veramente inconsuete: monferrina, varsovien, galop, gavotte, berlingozza, mazurca, etc..
La formazione dell’orchestra è avvenuta mettendo in rete gruppi che sul territorio lavorano da anni nel recupero e nella riproposizione della memoria musicale: I trentini Abies alba, Compagnia del Fil de Fer e Quartetto Neuma, i sudtirolesi Pasui, i vicentini BandaBrian, i bellunesi Altei, oltre naturalmente ai padovani  Calicanto, A. Tombesi ensemble e Mideando String Quintet.  A Francesco Ganassin, componente di Calicanto, è stato affidato il compito di scegliere i brani, realizzare gli arrangiamenti e dirigere l’ensemble.
L’anteprima dello spettacolo,  andata in scena a Trento, è stata accolta con inaspettato entusiasmo dal pubblico e ha convinto tutti della possibilità di far consolidare il progetto e far diventare l’orchestra una realtà stabile. L’idea di ridar voce a questi brani anonimi, ma che ci raccontano la storia delle orchestrine che suonavano nell’area delle Dolomiti circa ottant’anni fa, presenta un suo fascino anche estetico ed emotivo che merita di essere promosso. Il repertorio del concerto presenta poi anche dei brani cantati sempre legati alle tradizioni musicali delle Dolomiti.
Il fatto che abitiamo in zone anche piuttosto distanti una dall’altra rende certamente complessa l’organizzazione dell’orchestra. Finora le prove si sono svolte  in Trentino, prima a Spera e poi a Borgo Valsugana dove abbiamo ricevuto una splendida ospitalità dalla famiglia Galvan, titolare della fabbrica di armonium e organetti fondata nel 1901. Un luogo storico per la musica tradizionale.
Il lavoro che avete compiuto sui manoscritti che immagine ha restituito della cultura musicale alpina?
Il manoscritto è un autentico tesoro dal punto di vista musicale ed etnomusicologico, purtroppo nell’arco alpino c’è poco materiale di questa importanza, non solo quantitativa ma  qualitativa: i manoscritti ritrovati testimoniano  gli usi musicali delle valli del Cadore, in gran parte similari ad altre tradizioni delle aree alpine e prealpine centro-orientali, formando quasi una koinè culturale comune. Questo ci permette di valutare i legami con altre aree dolomitiche, com’è certamente quella sud-tirolese che presenta altre pecurialità. Per questo motivo stiamo cercando di avere stabilmente all’interno dell’orchestra la presenza di musicisti sud-tirolesi per poter integrare questo percorso, arricchendo il repertorio e l’analisi sugli stili e i linguaggi.
Quali esigenze ci sono perché un lavoro come il vostro di riscoperta delle tradizioni abbia “successo”?
La nostra decisione di concentrarci sulle Dolomiti, nata dall’esigenza di Calicanto di approfondire la ricerca dei repertori alpini, speriamo possa essere aiutata dal fatto che recentemente l’Unesco ha proclamato questo territorio di montagna patrimonio dell’Umanità. Confidiamo che si possa ragionare non solo di bellezza del paesaggio, ma anche di cultura e di storia sociale di questo territorio. In questo quadro il progetto dell’Orchestra Popolare delle Dolomiti è una risorsa importante che vorremmo mettere a disposizione delle istituzioni, se queste sapranno coglierne la rilevanza. L’auspicio è che questo articolato progetto che mette in rete realtà diverse e conoscenze (ricercatori, liutai, storici, musicisti, didatti, etc.) in una accattivante forma di spettacolo, possa trovare una adeguata valorizzazione e supporto a vari livelli.  Il Centro S. Chiara a Trento ha dato un grande contributo ospitando l’esordio dell’orchestra  in occasione della 25 edizione di Itinerari folk. Ma ora dovremo battere ad altre porte per diffondere e far conoscere il nostro lavoro. Questo per noi sarebbe il “successo”: trovare soggetti pubblici e privati che sappiano apprezzare questa idea e abbiano il coraggio di promuoverla.
Qual è il vostro organico?
Siamo organizzati in due sezioni di strumenti a corda, una di plettri con quattro mandolini, due chitarre e una mandola, e una di archi con quattro violini, un violoncello e un contrabbasso, poi abbiamo un’arpa, un organetto diatonico, una sezione di fiati con traverso, ottavino, flauti diritti in legno, schwegelpfeife, cornamuse, clarinetto e tromba,  percussioni popolari, armonica a bocca, cetra e un armonio a pedale, prodotto dalla ditta Galvan, il piccolo modello “scuola”, un tempo presente in molte aule scolastiche. Le parti vocali principali sono affidate a Claudia Ferronato, ma ci sono anche momenti corali.
Quanta parte delle musiche tradizionali che avete ritrovato sopravvive ancora oggi e quanta è andata perduta?
Sostanzialmente quest’opera è stata di recupero di  musiche quasi completamente dimenticate.  L’epoca delle orchestrine paesane è finita da un pezzo e così pure quella dei complessi mandolinistici. Il mutamento del contesto economico sociale ha prodotto una notevole perdita di memoria. Molti strumenti sono stati soppiantati da altri più versatili, basta pensare all’avvento della fisarmonica cromatica che ha soppiantato il vecchio organetto diatonico, la cosiddetta “reta”. Alcuni hanno perso completamente la loro attrattiva popolare come ad esempio il mandolino che un tempo era molto diffuso o la cetra. Altri ancora appartengono ad un passato ancora più lontano e penso alla cornamusa, anche se all’inizio degli anni sessanta è stato documentato l’uso di questo strumento nelle valli bergamasche.
Quindi quella koinè di cui parli riguardo al triveneto è un momento storico che ora non si riscontra più?
Le analogie nei repertori tradizionali del nord Italia sono molte, se pensiamo alla tipologia di ballabili, alla strumentazione utilizzata e allo stile esecutivo. Allo stesso tempo se viaggiamo attraverso le Alpi troviamo tantissime peculiarità locali, enclave musicali specialissime che hanno conservato repertori veramente arcaici: la musica violinistica della Val Resia, il carnevale di Bagolino e Ponte Caffaro, i balli da piffero delle quattro Province, i repertori da ballo delle valli Occitane o dello Zillerthal. La diffusione della musica scritta a cavallo tra ottocento e novecento, attraverso pubblicazioni come “Il Mandolino”, è poi responsabile della nascita di un repertorio comune di composizioni di intrattenimento (polche, mazurche, valzer, tanghi, etc.) che avvicinava gli appassionati di musica attraverso la distribuzione capillare di questo quindicinale
In quali eventi avete avuto modo di suonare?
L’anteprima come ho detto è stata il 9 luglio 2012 nella rassegna “Itinerari Folk” a Trento. Poi c’è stata la bella serata alla fabbrica Galvan di Borgo Valsugana il 30 luglio. E il 5 agosto abbiamo suonato a Baone, sui Colli Euganei, in provincia di Padova ad un neonato festival di musica popolare. Il prossimo appuntamento è il 2 settembre in Vallarsa, all’interno della manifestazione  “Tra le rocce e il cielo” e poi saremo a Rovigo l’8 settembre al festival “Ande Bali e Cante”.
Quale è stata la risposta del pubblico al vostro concerto?
Molto buona, direi galvanizzante per noi, e per certi versi inaspettata. Sia a Trento che a Borgo che a Baone abbiamo visto moltissima gente entusiasta e questo conferma che attraverso lo spettacolo passano anche delle emozioni.  Se questo voglia dire che c’è anche un maggiore  interesse, rispetto al passato, nella riscoperta delle proprie radici culturali questo non posso dirlo.  Per noi è importante che lo spettacolo funzioni bene,  trasmetta e comunichi qualcosa al pubblico. Speriamo che anche i giovani trovino interessante questo progetto e abbiamo la curiosità di vederlo. Nel resto d’Europa i giovani vanno a vedere molto numerosi i concerti di musica tradizionale, ricominciano a suonare strumenti particolari, frequentano i festival. In Italia questi fenomeni ci sono, basta pensare alla taranta salentina con le sue luci e le sue ombre,  ma non sono presenti dappertutto.
Quindi il problema è sia di costruzione di una cultura musicale che poi di una costruzione di una cultura e di una memoria?
Sicuramente i problemi rimandano a entrambe queste dimensioni.
Un esempio sul Trentino, che è la realtà che conosco meglio: c’è una rete formidabile di scuole musicali, e nessuna che proponga un corso di mandolino, di organetto diatonico e di altri strumenti, è possibile?  L’organetto in particolare che ha avuto un significato storico particolare, perché costruito in Trentino da vari laboratori come Galvan (Borgo), Giuliani (Mori), Branz Dallapè (Trento), Socin (Val di Non e Bolzano), etc. e addirittura esportato in giro per il mondo. 
Il ritrovamento del manoscritto Cadorino è avvenuto grazie a Manuela De Luca Valente, una studentessa dei corsi di etnomusicologia del Conservatorio di Padova, corsi che oggi sono stati cancellati a causa dei tagli all’istruzione.
In Piemonte nelle valli occitane il forte senso d’identità ha ad esempio portato al recupero di una prassi, diffusa anche tra i giovani, di suonare la ghironda e l’organetto. Così in Tirolo e Sudtirolo le scuole musicali hanno corsi di arpa tirolese, zither, organetto, hackbrett, etc.
Quali progetti avete per il futuro?
Lo spettacolo ovviamente è ancora in fase di rodaggio, ma ci stiamo preparando perché il 2013 possa regalarci qualche soddisfazione.  Speriamo che lo spettacolo possa girare il più possibile, compatibilmente col fatto che veniamo da zone diverse e distanti, e non siamo professionisti. Ci stiamo attrezzando con gli strumenti informativi che sono ormai indispensabili: una pagina facebook che già potete consultare, un website in costruzione, una documentazione audiovisiva che riguarda lo spettacolo che abbiamo fatto a Trento. Sul sito di Calicanto, inoltre, potete trovare le modalità per acquistare il libro a 15 euro.
Ludovico Rella
ludovico_rella@yahoo.it

ORCHESTRA POPOLARE DELLE DOLOMITI SI ESIBIRA' IN VALLARSA A TRA LE ROCCE E IL CIELO DOMENICA 2 GIUGNO ALLE 21 AL TEATRO COMUNALE DI S. ANNA. INGRESSO LIBERO.

lunedì 27 agosto 2012

L’ORCHESTRA POPOLARE DELLE DOLOMITI MUSICHE ANTICHE A TRA LE ROCCE E IL CIELO



Antiche danze popolari ormai perdute tornano alla vita grazie alla musica dell’Orchestra Popolare delle Dolomiti. L’ensemble orchestrale si esibirà nel concerto di chiusura delle quattro giornate di “Tra Rocce e il Cielo”, il Festival della montagna che si  svolge in Vallarsa (Tn) dal 30 agosto al 2 settembre 2012.
Valzer, monferrine, quadriglie, galop, villotte, varsovien, sottis, gavotte, un tesoro prezioso che proviene da un mondo scomparso, dalle Dolomiti del primo Novecento, saranno al centro del concerto dell’ORCHESTRA POPOLARE DELLE DOLOMITI, che si esibirà sul palco del Teatro comunale di S.Anna, in Vallarsa, il 2 settembre alle ore 21. L’ingresso è libero.

Una recente ricerca sul campo svolta nella zona del Cadore, in provincia di Belluno, nell’ambito dei corsi di etno-musicologia curati da Roberto Tombesi al Conservatorio di Padova, ha portato all'interessante ritrovamento di una serie di manoscritti di danze popolari. Quaderni scritti in bella calligrafia dai musicisti delle tante orchestrine che, fino a qualche decennio fa, popolavano la vita dei paesi delle valli dolomitiche tra Veneto, Trentino, Alto Adige e, più in generale, dell’area alpina e prealpina del nord Italia. Uno di questi documenti, in particolare, racchiude un corposo repertorio inedito (115 melodie), con denominazioni in alcuni casi curiose (concierditesta, berlingozza, pia, bettina, etc.), dove regna sovrano il principe delle danze, l’amato valzer, accanto a balli di origine molto più antica come le monferrine, la quadriglia, il galop, la villotta, il varsovien, la sottis, la gavotta.
È nata da questa ricerca la pubblicazione “Ballabili antichi per violino o mandolino – un repertorio dalle Dolomiti del primo '900” edita dalle edizioni Nota di Udine.
Una volta pubblicato il libro è nata l’idea di far rivivere questi documenti attraverso la costituzione di una piccola orchestra composta da musicisti, appartenenti a gruppi attivi nell’ambito della musica tradizionale (ma anche di formazione classica) attivi nell’area territoriale delle Dolomiti.
L’Orchestra popolare delle Dolomiti ha così coinvolto circa 25 musicisti provenienti da diversi Gruppi trentini, veneti e sudtirolesi:  Abies alba (Trentino), Altei (Belluno), Alessandro Tombesi ensemble (Veneto), Bandabrian (Veneto), Calicanto (Veneto), Compagnia del fil de fer (Trentino), Mideando string quintet (Veneto), Pasui (Alto Adige/Sudtirol), Quartetto Neuma (Trentino).
Ne è nato un ensemble unico che unisce mandolini, mandole, chitarre, una sezione di archi (violini, violoncelli e contrabbasso) e una di fiati (traverso, ottavino, schwegelpfeife, cornamuse, flauti dritti, ocarine) e poi  arpa e zither, organetto diatonico e armonium, percussioni tradizionali e domestiche e infine le voci.
La direzione dell’orchestra è affidata a Tommaso Luison e Francesco Ganassin, che ha curato gli arrangiamenti dei brani.


Il concerto sarà l’evento di chiusura del Festival e si svolgerà domenica 2 settembre alle 21, al termine della giornata dedicata alla storia. Al mattino, a Campogrosso, si potrà vedere una rievocazione storica con soldati in divisa della Grande Guerra.  Durante la festa degli Alpini, a Cumerlotti, verranno presentati mostre e libri della grande guerra e si parlerà dei sentieri della Sat e del Sentirero della pace. Nel pomeriggio a Foppiano l’associazione Pasubio 100 anni presenterà la prima linea austroungarica. Verrà proiettato il film “La montagna di Don Guetti” e  “Fino a quando” di Vittorio Curzel, la storia di una famiglia trentina attraverso immagini e ricordi della Grande Guerra, dalla Galizia al Pasubio, passando per il fronte occidentale. La proiezione sarà seguita dall’incontro con l’autore.
Gli antichi canti delle Alpi saranno proposti in un concerto dai polivocalismi arcaici de I Cantori da Vermei, diretti da Alberto Delpero (alle 18.30 all’Hotel Genzianella di Bruni).

Stefania Costa
costa_stefania@yahoo.it

sabato 25 agosto 2012

MONTAGNA COME FLUSSO, MONTAGNA COME LUOGO: RIPOPOLAMENTO ED ECOSOSTENIBILITA' SECONDO GIORGIO CONTI




Giorgio Conti, di che cosa si occupa, e come i suoi studi la portano ad avvicinarsi alla montagna?

Premetto che il mio curriculum di studi è in-disciplinato. I miei interessi culturali sono principalmente etico-filosofici, anche se ora insegno nel campo delle Scienze ambientali e del Governo dell’Ambiente, sono “indisciplinato” poiché le discipline “imbalsamano” il sapere.
Come sostiene Karl Popper: “Le discipline non esistono, esistono solo strumenti per risolvere problemi”. Prosegue affermando che: “Dai problemi nascono i valori”. Quindi non ci sono valori eterni.
Detto questo per me la montagna è al centro di una riflessione che riguarda tutto il territorio e l’ambiente nazionale, come viene gestito e quali progetti-strategie abbiamo. Per parlare dell'importanza del territorio non soltanto come luogo fisico, ma come ambiente dinamico dove si gioca il tema della sostenibilità integrata (economica, ambientale e socio-culturale), ho coniato un neologismo: paesaggi eco-culturali. Questo termine indica che c'è un'interazione dinamica fra tre ambienti fondamentali. Il primo è l'ecosistema: parafrasando Heidegger, ognuno di noi è gettato in un ambiente, che non ha inventato, ma che gli viene pre-disposto dalla Natura: l'ambiente ecosistemico. Il secondo ambiente è quello antropizzato, quindi gli insediamenti umani: gli ambienti popolati e modificati nel corso della storia dagli esseri umani. Questi due ambienti sono gli ambienti “materiali”.
C'è poi l'ambiente “immateriale”, di gran  lunga più importante, che è quello etico-socio-culturale. E' il più importante perché rispecchia l'idea relativa ai valori che si concretizzano nel paesaggio totale, da intendersi in senso fisiografico e fisiognomico. Prendiamo ad esempio Firenze, gli etruschi si erano insediati a Fiesole, dove il clima era migliore e non c'era il rischio delle esondazioni dell'Arno. Perché a un certo punto la popolazione si sposta da Fiesole a Firenze? Perché gli antichi romani avevano molto più interesse per i flussi che per i luoghi, infatti, per realizzare un impero hanno costruito centomila chilometri di strade, e quindi favorivano lo sviluppo urbano in pianura che garantiva velocità di spostamento.
Per rispondere alla domanda, da diversi anni le Terre alte sono al centro dei miei interessi, perché lo sviluppo montano tradizionale, a differenza di quello di pianura, privilegia il rapporto fra la montagna e il fondovalle, quindi un'interazione fra luoghi. In questa dinamica, la montagna non può e non deve diventare solo parco. Una montagna che diventa solo parco rischia l'abbandono, e i territori abbandonati producono gravi rischi, specie idrogeologici, così come é accaduto recentemente con i disastri in Veneto e nelle Cinque Terre.
Il problema più noto, riguardo alle criticità del governo del territorio in Italia, è la cementificazione: si valuta che l'Italia abbia perso negli ultimi anni un'estensione di territorio agricolo equivalente alla dimensione della regione Toscana. Il problema più complesso, anche se molto meno conosciuto perché non rientra nell'immaginario collettivo italiano, è l'abbandono del territorio montano con il conseguente avanzamento del bosco. E quando parlo di “bosco”, mi riferisco in realtà a una boscaglia, perché per formarsi una foresta strutturata ha bisogno di secoli. Qui ci si riferisce alla boscaglia “disorganizzata” che nel XX secolo è aumentata del 50%, sul 54% del territorio nazionale che è quello montano.

Nei suoi convegni parla di “società dei flussi” e “società dei luoghi”, ci vuole spiegare cosa intende?

Le relazioni tra luoghi e flussi sono fondamentali. Prendiamo il turismo. Oggi risulta la prima attività  produttiva delle economie avanzate occidentali, ma come fa a esserlo se è sostanzialmente tempo libero-tempo del non lavoro? Bisogna considerare che dal turismo “fordista”, cioè semplicemente le ferie estive, si è passati a un'altra concezione, che coinvolge tre tipi di flussi diversi: il flusso di merci, di persone, e infine il flusso di idee-informazioni che oggi è sostanzialmente rappresentato dal web.
Questo aumento vertiginoso dei flussi fa capire che stiamo seguendo una forma di società che richiama quella dell'Impero romano, anche se allora vi era uno stato di diritto diffuso su tutto il territorio che per i globalizzatori di oggi non è altrettanto rilevante.
Il turismo in tutto questo si inserisce riguardo alle problematiche dell'impronta ecologica, quel “segno” ecologico è l’impatto che si lascia nel compiere un'attività, nei consumi, negli  spostamenti, eccetera.
Una ricerca, promossa da Thompson (il primo tour operator del Regno Unito) e redatta dal WWF, ha mostrato che per andare a Cipro (una destinazione non tanto distante da Londra) un inglese ha un'impronta ecologica pari circa alla metà di quella di un intero anno. Quindi tutti noi viaggiando lasciamo un segno nell'ecosistema, soprattutto attraverso l'anidride carbonica che immettiamo nell'atmosfera muovendoci in aereo, auto o treno.
Questi sono gli scenari che suppongono in prospettiva il ritorno alla montagna, con le risorse rinnovabili che essa comporta, come i boschi e l'energia idroelettrica. L'energia derivante dall'acqua e dai boschi è pulita e rinnovabile ed è più “democratica” di altre fonti di energia, come il petrolio. Le altre fonti di energia hanno bisogno di grandi centrali di produzione dello Stato o di grandi gruppi privati. Le piccole centrali idroelettriche e la gestione dei boschi permettono una migliore distribuzione dell'energia. La montagna non egemonizzata dai parchi o dal turismo è un modello di riferimento.
Prendiamo i pastori transumanti: sono le persone più “ecosostenibili” in assoluto. Allevano le greggi portandole in montagna d'estate, dove c'è la maggior quantità di biomassa, e non possono consumare troppe risorse naturali perché sanno che l'anno dopo non troverebbero più nulla con cui nutrire i capi di bestiame. La stessa cosa vale quando vanno a svernare a valle. Hanno un'idea del mondo che è ciclica e non lineare, come quella che sta alla base della società dei flussi.
Il pastore transumante è il futuro, non il passato. Conosce la capacità dell'ecosistema di sopportare la presenza dell'uomo, in rapporto con la ciclicità delle stagioni, con i luoghi ma anche con i flussi, perché gli spostamenti ciclici possono essere lunghissimi. I pastori transumanti spagnoli, ad esempio, possono arrivare a fare un percorso lungo tutta la Spagna, di oltre seicento chilometri. La montagna non è un elemento nostalgico, io non vorrei tornare a un passato che, per quanto riguarda il pastore transumante, era un passato fatto di fatiche e isolamento. Io sostengo che si possa integrare questa attività con le nuove  tecnologie. Perché dobbiamo avere noi cittadini il SUV a quattro ruote motrici, che non ci serve? Il pastore dovrebbe avere il SUV con il GPS, per essere raggiunto quando sta male o ha un incidente e un servizio di elisoccorso per le emergenze. E’ in questo contesto che la rete assume un significato strategico in rapporto alla qualità della vita montana.

Quali possono essere le conseguenze, sulla montagna, di questa società dei flussi?

Prima di ogni cosa c'è l'iperturismo che rischia di distruggere la montagna. Ho avuto modo di seguire una tesi che si occupava di Cortina d’Ampezzo, che ha prodotto non solo una grande mole di indicatori ambientali ma anche economici e sociali, dimostrando l'insostenibilità di quel modello, e non solo dal lato ambientale. Un modello, soprattutto quello dello sci invernale, insostenibile sia sotto gli aspetti ambientali, sia per le componenti socio-economiche. Se la casa, per esemplificare, costa quattordicimila euro al metro quadro, perché il prezzo è “drogato” dal turismo, dei figli adulti che intendono costituire nuove famiglie, verosimilmente solo uno potrà rimanere a Cortina a vivere, gli altri dovranno trasferirsi. Inoltre Cortina soffre di quel fenomeno della riforestazione spontanea, che significa anche perdita di terreno agricolo e dissesto idrogeologico.
Siamo abituati a ritenere la montagna come “marginale” rispetto alla società nel suo complesso, ma la montagna nel medioevo e, in parte, fino alla rivoluzione industriale, era la zona “più ricca” d’Italia perché possedeva risorse strategiche. Con la rivoluzione industriale e l’era del petrolio, invece, è arrivata la tragedia dell’emigrazione, e dell’abbandono delle risorse rinnovabili montane.
Infine sono contrario, oltre a considerare la montagna come parco, anche alla montagna come rifugio: gli scritti molto interessanti di Leslie Stephen Woolf, padre della scrittrice Virginia Woolf, mostrano come già tempo fa ci fosse la consapevolezza di una mancanza di dialogo fra gli abitanti delle Alpi e gli alpinisti inglesi, che, paradossalmente, hanno fondato il primo Club alpino d’Europa: l’Alpine Club, il 22 dicembre 1857.
L. S. Woolf affermava che non c’era dialogo perché gli inglesi vedevano la montagna come: The Playground of Europe (1871) simile a un campo da cricket, mentre per i montanari erano pascoli e luoghi di lavoro e fatica.
Questo intendo quando affermo di essere contrario alle terre alte come rifugi alpini. Parco e rifugio si equivalgono, perché il neoromanticismo è quello che ha portato a “violare” luoghi incontaminati come le cime, le vette, come fu per la corsa a raggiungere la cima del Cervino in cui, con l'obiettivo di piantare per primi la bandiera del proprio Club, si sfidarono e morirono alpinisti italiani e inglesi.  Oggi si considerano “inviolate” e “inviolabili” zone di alta montagna che, invece, sono state antropizzate nei millenni.
Stesso ragionamento, infine, vale per la monumentalizzazione della natura, con la creazione dei primi parchi naturali nazionali, come quello di Yellowstone, avvenuta negli USA dopo la creazione degli Stati Uniti d’America, rendendo “protetti”, vale a dire inviolabili, dei luoghi che erano abitati da millenni dai nativi americani, relegati nelle “riserve”, prototipo dei moderni campi di concentramento.

Da questi problemi che denuncia rispetto alla montagna, quali vie di fuga ci sono, che spazio si può trovare oggi per la montagna? La montagna è condannata a essere considerata il “luogo” contrapposto al “flusso”, quindi come ostacolo?

Credo che parlare di montagna, darsi un progetto sul territorio montano, diventerà imprescindibile negli anni a venire, e questo per una serie di motivi. Primo, la montagna non può essere abbandonata perché se è lasciata a se stessa, produce disastri ecologici e idrogeologici. La Repubblica di Venezia era un modello, per prima adottò delle leggi fin dal Medioevo, che considerava la relazione fra le montagne bellunesi e i territori costieri: la montagna non veniva isolata ma era parte integrante di tutto il territorio veneto.
La montagna diventerà cruciale per quanto riguarda le risorse locali, e quindi soprattutto l’acqua. L’acqua dolce, la cui scarsità potrà diventare un problema cruciale, è di origine montana, come si evince dal cosiddetto “ciclo dell’acqua”, per cui l'acqua evapora dagli oceani e dai mari, si condensa e precipita come piogge o neve, soprattutto in ambienti montani. Da qui scende a valle o per vie superficiali (i corsi d’acqua) o sotterranee.
Per queste ragioni il bioregionalismo, l’idea del legame del territorio montano con l’ambiente costiero che ha nei bacini imbriferi il suo elemento strutturale, diventerà sempre più strategico.
Un'associazione internazionale di città, quella delle Transition Towns, si occupa della questione del petrolio, ma anche dei problemi della difesa del territorio e dei cambiamenti climatici, e qui torna in ballo il governo delle acque, che all'interno degli sconvolgimenti climatici, la cosiddetta tropicalizzazione del clima, porterà le conseguenze più gravi. L'acqua dolce, come abbiamo detto, è di origine esclusivamente montana.
Purtroppo quello che vedo e temo è che siano i “montanari” i primi a considerare la montagna un luogo che è destinato al declino e a non lottare per un ritorno alla sua centralità.
Il Governo austriaco sovvenziona molto efficacemente chi sceglie di vivere in alta montagna, perché si è reso conto che chi presidia quel territorio lavora per tutta la nazione, perché le conseguenze dell’abbandono della montagna si ripercuotono su Vienna, mentre dalla valle è molto più difficile che le conseguenze ambientali, frutto di decisioni errate, risalgano a monte.
La montagna non è solo un luogo per guardare il cielo, è inserita strutturalmente in una dinamica di flussi, che sono in particolare quelli eco sistemici e climatici. I corsi d’acqua scorrono verso il mare, quindi la montagna non è isolata, rappresenta un forte legame con la costa.
I problemi della montagna si inseriscono nelle criticità bioregionali del nostro modello di sviluppo. Per queste ragioni è necessario forse parlare meno di rifugi e più di malghe, riscoprire l’importanza di questi “eroi civili”: i veri montanari non turisticizzati. La montagna ha un ruolo, e anzi diventerà sempre più centrale, se la strategia che ci guiderà è quella che porrà al centro i paesaggi eco-culturali, per tornare al primo argomento, in questo modo la montagna non verrà considerata solo come un insieme di rocce o come un santuario naturale.
Ludovico Rella
ludovico_rella@yahoo.it

Giorgio Conti porterà il proprio contributo al convegno UOMO E MONTAGNA, PAESAGGI IN TRASFORMAZIONE, che si terrà in Vallarsa, nell'ambito della manifestazione TRA LE ROCCE E IL CIELO, venerdì 31 agosto 2012

venerdì 24 agosto 2012

LA DIGA E’ UNA COSA MERAVIGLIOSA, SPETTACOLO IN PRIMA ASSOLUTA A TRA LE ROCCE E IL CIELO



Un vero piccolo grande musical, con una protagonista insolita: la diga di Speccheri in Vallarsa, opera ormai entrata nella storia della vallata e della sua gente, che viene cantata in uno spettacolo che aprirà, giovedì 30 agosto, “TRA LE ROCCE E IL CIELO”, il festival della montagna che si svolge in Vallarsa dal 30 agosto al 2 settembre 2012.

L'idea è partita da Gigi Zoppello, giornalista e scrittore, proprio in occasione del festival di due anni fa: «La riunione serale dei collaboratori terminò fra brindisi e fette di salame nella ex scuola di Obra. Poi, all'uscita, vidi nella notte lo spettacolo della diga illuminata dall'altra parte della valle. Era quasi una visione magica, che mi ha conquistato. Da allora ho iniziato a informarmi e a saperne di più sulla diga, la sua storia, le vicende della costruzione».
Due anni dopo, con “LA DIGA È UNA COSA MERAVIGLIOSA”, quel sogno diventa uno spettacolo: «Ho raccolto fotografie, testimonianze, racconti. Avevo pensato di portare in scena tutto questo materiale, e avevo in mente anche gli ottimi film documentari che sono usciti negli ultimi anni sull'epopea delle centrali idroelettriche trentine. Poi l'incontro con il regista e lighting show designer Mariano De Tassis mi ha fatto capire che si poteva fare molto di più, ed in un modo ancora più entusiasmante. Se dev'essere spettacolo, che spettacolo sia».
Ogni famiglia della Vallarsa ha un ricordo legato alla diga di Speccheri: molti hanno avuto un nonno o un padre che ci ha lavorato; altri hanno visto nascere quella muraglia proprio sopra casa loro; altri ancora la vedono dalla finestra di casa ogni giorno. «Ma soprattutto la diga è un'opera che racconta in tutta la sua imponenza un periodo storico, la seconda metà degli anni Cinquanta, che fu l'avvio del “boom” economico italiano».
«Ho deciso di portare sul palco un gruppo musicale dal vivo – spiega il regista Mariano De Tassis – con musiche originali dell'epoca. Il testo parla degli anni Cinquanta (la diga fu costruita fra il 1955 ed il 1959) e quindi abbiamo costruito una vera colonna sonora d'epoca. Ma le sorprese saranno molte».
Ovviamente De Tassis – che ha “firmato” anche la regia della cerimonia conclusiva dei Campionati Mondiali di Arrampicata di Arco nel 2011 – è uno specialista nell'uso della luce e delle immagini. E quindi lo show di apertura del Festival “Tra le rocce e il cielo” del 30 agosto si preannuncia davvero unico.
«Dentro questo testo – spiega ancora Zoppello – ho messo una parte dei miei ricordi, l'epopea dei cantieri edili nei quali lavorava mio padre, e quel sapore unico e irripetibile della vita povera ma piena di prospettive che abbiamo vissuto noi che siamo Born in the Fifties, cioè nati negli anni Cinquanta, come cantava Sting. Ma il risultato finale è andato oltre mia più grande aspettativa, il testo è diventato un vero spettacolo grazie a fior di professionisti. Una piccola grande produzione tutta trentina di cui andare orgogliosi. Ci sono tutti gli elementi, la memoria, la luce, l'economia. Ed è una celebrazione di una valle intera. Ho avuto modo di conoscere la Vallarsa solo pochi anni fa e sono rimasto affascinato. Ogni tanto mi chiedo perché non me ne sono innamorato prima».

“La diga è una cosa meravigliosa”,  su testo di Gigi Zoppello,  vede regia, video, luci e scenografie di Mariano De Tassis, musiche originali di Carlo Casillo. Con Giovanni Betti (voce e guitar), Lisa Bergamo (voce), Carlo Casillo (voce e guitar), Michele “Mike” Bottiglieri (contrabasso), Mariano De Tassis (batteria), Robin Scott Much (sax tenore) e gli attori Giacomo Anderle e Alessio Kogoj.
Va in scena giovedì 30 agosto 2012 al tendone di Riva di Vallarsa, alle ore 20,45. Ingresso libero e gratuito.

Lo spettacolo è realizzato grazie alla preziosa collaborazione di Agsm Verona, che si è fin da subito resa disponibile a collaborare al progetto, e che ha messo a disposizione il ricchissimo patrimonio filmico, documentario e fotografico dei suoi archivi; e grazie al generoso contributo della Fondazione Caritro. All’evento è collegata la mostra, realizzata dalla Fondazione Museo Storico del Trentino in collaborazione con Accademia della Montagna del Trentino e Agsm Verona, “ALL’OMBRA DELLA DIGA” che sarà inaugurata a Bruni di Vallarsa il 30 agosto.

Per domande o chiarimenti sullo spettacolo, o per interviste, Gigi Zoppello è a disposizione al numero 340.9666068.
Stefania Costa
costa_stefania@yahoo.it

mercoledì 22 agosto 2012

ALL’OMBRA DELLA DIGA LA MOSTRA A TRA LE ROCCE E IL CIELO



La Fondazione museo storico di Trento presenta, durante il Festival TRA LE ROCCE E IL CIELO, che si volge in Vallarsa (Tn) dal 30 agosto al 2 settembre, una mostra sull’impianto idroelettrico sul Leno di Speccheri e Maso Corona: ALL’OMBRA DELLA DIGA.

Il primo maggio 1955 sette corriere partono da Verona alla volta del Trentino. Agsm, l’Azienda Municipalizzata veronese, che già si occupava dell’acquedotto, della fornitura di elettricità e gas, voleva portare il proprio personale in Vallarsa, nella zona tra Piano e Speccheri. Una festa aziendale per celebrare l’inizio del loro progetto più ambizioso: la creazione di un grande impianto idroelettrico. Dopo la messa e i discorsi ufficiali, vengono fatte saltare le prime mine, che danno idealmente avvio al cantiere. Il promotore e poi direttore di questa iniziativa era un giovane ingegnere, Giuseppe Zanella, che aveva ipotizzato questa struttura di massima: creare un grande bacino artificiale in Vallarsa, derivandone poi le acque verso la valle dell’Adige. Nella zona di Ala sarebbe sorta una centrale che avrebbe dunque portato l’elettricità verso la città di Verona.
Il progetto venne in sostanza seguito: nella zona di Speccheri sorse la diga che, con i suoi 156 m di altezza, raccoglie 10 milioni di metri cubi d’acqua. Una galleria di derivazione di circa 8.7 km porta l’acqua alla condotta forzata, dove compie un salto di circa 650 m per azionare le turbine della Centrale in località di Maso Corona.
I lavori, nonostante alcune battute d’arresto, procedettero spediti, tanto che nel 1958 l’impianto entrò in piena attività.
Sguardo privilegiato sui luoghi del cantiere fu quello dello Studio fotografico Fratelli Pedrotti che ne testimoniò lo sviluppo: i fratelli, chiamati dall’Azienda a eseguire una campagna documentaria, realizzarono delle immagini nitide e affascinanti, che ancor oggi sono conservate presso l’Archivio Storico di Agsm Verona.

Questo ricchissimo materiale, gentilmente concesso da Agsm per la mostra e lo spettacolo inaugurale della manifestazione, assieme ad altre immagini, filmati d’epoca e documenti raccolti negli archivi storici e tra la gente che alla costruzione della diga ha lavorato, sarà presentato nella mostra documentaria ALL’OMBRA DELLA DIGA. L’impianto idroelettrico sul Leno di Speccheri e Maso Corona  che sarà inaugurata il 30 agosto prossimo all’Hotel Genzianella di Bruni, durante la passeggiata di collegamento tra le numerose mostre del festival che partirà alle 14 proprio da Bruni.
La mostra, realizzata dalla Fondazione Museo Storico del Trentino in collaborazione con Accademia della Montagna del Trentino e Agsm Verona, è curata da Luca Nicolodi ed Eleonora Vicario, con il coordinamento organizzativo di Alessandro de Bertolini.
La mostra sarà aperta dal 30 agosto al 2 settembre (ore 9 – 12 e 14 – 18). Dal 3 al 15 settembre su prenotazione al 3341330576.

In programma durante la manifestazione è prevista anche una visita guidata alla DIGA DI SPECCHERI per chi vorrà vedere dal vivo i posti raccontati nell’esposizione. Si svolgerà sabato 1 settembre (il giorno dopo in caso di cattivo tempo) con ritrovo alle 10.30 a Poiani. Per partecipare occorre iscriversi entro lunedì  27 agosto al numero 3341330576 fino a esaurimento posti (max 50 partecipanti).  Seguirà rinfresco con porchetta e degustazione vino (5 euro).

Collegato alla mostra giovedì 30 agosto, alle ore 20.45, al Tendone di Riva di Vallarsa ci sarà uno spettacolo in prima visone assoluta per il Festival. LA DIGA E’ UNA COSA MERAVIGLIOSA racconta la storia della costruzione della diga di Speccheri nella memoria collettiva e nel dialogo fra generazioni: l’epopea dell’Italia del boom e la scoperta del “petrolio del Trentino”, l’energia idroelettrica.   
E’ uno spettacolo teatrale, realizzato con il contributo di Agsm Verona spa, ideato e scritto da Gigi Zoppello. Regia, video, luci e scenografie di Mariano De Tassis, musiche originali di Carlo Casillo. Con gli attori Giacomo Anderle e Alessio Kogoj, Giovanni Betti (voce e guitar), Lisa Bergamo (voce), Carlo Casillo (voce e guitar), Michele "Mike" Bottiglieri (contrabasso), Robin Scott Much (sax tenore), Mariano De Tassis (batteria). 
Stefania Costa
costa_stefania@yahoo.it

lunedì 20 agosto 2012

I VILLAGGI DAI CAMINI SPENTI. INTERVISTA A ALBERTO FOLGHERAITER



Alberto Folgheraiter, da quale idea nasce il libro “I villaggi dei camini spenti”?
Ormai era una decina di anni che avevamo in programma di fare un reportage, vedere quale fosse la situazione della periferia del Trentino, alla luce dei cambiamenti avvenuti negli ultimi vent’anni. L’ultimo lavoro di questo tipo risaliva al 1966-1967 (Aldo Gorfer, “Solo il vento bussa alla porta”, con le fotografie di Flavio Faganello). I cambiamenti nel frattempo sono stati epocali, quindi c’era l’esigenza di tornare in quei luoghi a verificare la nuova situazione. Questo libro, edito da Curcu & Genovese, ha esaurito la prima edizione di 3500 copie in sei mesi. È già uscita la seconda edizione, ed è uno dei tre finalisti del premio “LEGGIMONTAGNA 2012” di Tolmezzo, la cui premiazione avverrà il 22 settembre.
C’è da dire che questo viaggio ha riservato più di una sorpresa: ne esce un quadro che talvolta rovescia gli stereotipi, dove la montagna e le vallate sono il “centro vivo” e la città risulta essere quasi periferia, meno dinamica, una comunità meno viva e poco partecipata.
In cosa si nota questa vivacità delle valli rispetto alle città?
Innanzi tutto si nota dal numero di gruppi di volontariato, che sono numerosi e, soprattutto, vivono di autofinanziamento, senza dipendere dalle poppe di “mamma Provincia”. A volte, nelle realtà cittadine il volontariato ha perso proprio questa natura disinteressata e si è trasformato in “volontariato prezzolato”. Anche nelle piccole cose, invece, le vallate offrono immagini di un associazionismo molto più genuino.
Che tipo di taglio stilistico ed editoriale avete deciso di dare a questo libro?
E’ un’inchiesta/reportage sul Trentino fra giornalismo e storia.
La cosa interessante è che la narrazione si sdoppia in due percorsi paralleli: quello delle parole, che ho scritto io e quello delle immagini, indispensabili e fondamentali, di Gianni Zotta. La stessa impaginazione, affidata a Fabio Monauni, si fa racconto. Abbiamo deciso di fissare le immagini nel momento stesso in cui raccoglievamo testimonianze e informazioni per scrivere i vari capitoli. In questo modo abbiamo fotografato la realtà delle valli nel momento stesso in cui ci si presentava. Anche per ancorare la ricerca a una data precisa, in modo che in futuro si possa riguardare a questo materiale essendo consapevoli del momento in cui è stato raccolto e pubblicato.
Però queste sorprese che avete incontrato lungo la strada, queste vallate vivaci, cozzano con il titolo che avete dato al libro: perché i camini sono spenti se le valli sono vive?
Lo spiego nella prefazione: questo titolo è un po’ ruffiano ma i camini spenti ci sono per davvero. I villaggi hanno tanti edifici abbandonati, tante stanze vuote, ma ci sono anche talune riscoperte e nuovi insediamenti.
Ad esempio, c’è una ricomposizione di nuclei familiari di immigrati che nelle periferie cittadine sarebbero “fuori posto”. Invece nelle comunità valligiane riescono a trovare una dimensione, una forma, seppur larvata e da sviluppare, di integrazione.

Questa presenza degli immigrati è un fenomeno incisivo? C’è effettivamente un ripopolamento dei paesi di montagna da parte di persone di origine straniera che decidono di andare ad abitare in quelle zone?
Non parlerei di ripopolamento, però certamente l’afflusso di immigrati stranieri in queste zone ha fornito un argine ad uno spopolamento che senza di loro sarebbe stato ben più ingente, forse insostenibile.
L’immagine che si ha comunemente delle zone di montagna è quella di una crisi basata soprattutto su spopolamento e abbandono. Quanto è vera e quanto è falsa questa descrizione e questa prospettiva?
Il fenomeno “Vendesi” è generalizzato e certamente propone l’immagine di una crisi, non solo di tipo economico. I cartelli delle agenzie immobiliari sono il paradigma di una crisi che ha radici lontane.  Questo fenomeno ha a che vedere con una polverizzazione derivante da passaggi ereditari, per cui alla fine i titolari di piccole porzioni non riescono a ricomporre le proprietà immobili e così si rischia l’abbandono.
In secondo luogo, il pendolarismo che degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso è diventato stanziale lungo il corso dell’Adige. Non c’è stata l’auspicata inversione di rotta, non si è avuto il ritorno alla montagna. Oggi il ritorno “alla terra dei Padri”  è un percorso che viene compiuto solo da ristretti gruppi di persone, gruppi sostanzialmente elitari per cultura e reddito. Penso, ad esempio, al libero professionista che si può stanziare in Vallarsa piuttosto che nella Valle di Terragnolo e, grazie a internet essere comunque in collegamento con Milano o con le grandi aziende industriali. Questa è una realtà “privilegiata”, non siamo ancora nella situazione di tele-working diffuso o cose di questo genere, per cui non è più la vicinanza al luogo di lavoro ma la qualità della vita a influenzare tali scelte di residenza. Credo, tuttavia, che arriverà presto il tempo in cui saranno operative le “autostrade informatiche” su tutto il Trentino. Questo potrà bloccare la cosiddetta “fuga dei cervelli” o addirittura facilitarne il ritorno, e potrebbe avere anche un effetto “tampone” sul deflusso di popolazione dalle aree montane. Tuttavia, sono convinto che questo fenomeno, se non elitario, rimarrà relegato a percentuali minime, in quanto non potrà mai riguardare la maggioranza di lavoratori che svolgono mansioni manuali. Per loro l’esigenza di raggiungere quotidianamente il posto di lavoro sarà ineludibile.
Quindi a livello di grandi numeri il declino della montagna è irreversibile?
Assolutamente, anche perché i grandi numeri non ci sono più: una volta c’era la famiglia allargata, c’erano frotte di bambini. Oggi con la famiglia mononucleare anche il flusso verso la montagna porta meno gente.
Tracciando un bilancio di questo vostro reportage-inchiesta, qual è il quadro?
Diciamo che esce un Trentino migliore di come, talvolta, è dipinto; un Trentino dinamico, con una società complessa e viva, solidale. Direi che viene fuori un bel Trentino. Un Trentino dove non hanno messo radici quei disvalori che negli ultimi vent’anni sembrano aver ipnotizzato larghe fasce di popolazione nel resto d’Italia.
Quali sono, a suo modo di vedere, le zone “virtuose” e quelle in crisi? Si possono individuare delle buone pratiche e, invece, dei modelli da non imitare?
La crisi è più acuta nei luoghi di estrema periferia, ma anche zone vicine al “centro” non sono in buone condizioni, come la Valle di Terragnolo. In parte, in alcuni casi, la Provincia ha paradossalmente messo troppi soldi, anestetizzando quello che può essere lo spirito del “fai da te”. Peraltro resistono problemi strutturali. Se hai l’esigenza di recarti ogni giorno sul posto di lavoro è difficile fare la scelta di essere pendolare a una cinquantina di chilometri di distanza da dove lavori, abitando in un paese di montagna. Anche la costruzione di un proprio nucleo familiare, che permetta di mettere radici, è più difficile in montagna che altrove. Se si sceglie, ad esempio, il mestiere del pastore o dell’agricoltore è difficile persino trovare una compagna per la vita.
Quindi, pur essendo il Trentino migliore di come è immaginato o descritto da taluni, resta comunque una prospettiva pessimista sul futuro delle valli e della montagna?
Sono i numeri che parlano: i centri urbani crescono, i paesi di montagna, le periferie si stanno spopolando. Comuni che oggi sono di 100 – 150 abitanti fino a cinquant’anni fa avevano 400-500 residenti. L’esodo non si è fermato. Nelle valli la popolazione diminuisce anche perché l’invecchiamento non è sufficientemente compensato da nuove presenze.
Qualche anno fa il Consiglio Comunale di Canal San Bovo aveva deciso di offrire un “premio di nuzialità” alle coppie che decidevano di andare ad abitare in quella zona: cinquemila euro, più mille euro per ogni neonato. Certamente mille euro non risolvono i problemi e cinquemila non risolvono un matrimonio, ma era un primo passo per incentivare i ritorni o comunque i nuovi arrivi. Restava e resta il problema che, per arrivare a Canal San Bovo da Trento c’è un’ora e mezza di automobile, quindi cinquemila euro da soli non bastano a incentivare l’immigrazione o il ritorno in valle.
Il ruolo della politica, in questo contesto, è soprattutto quello di far sì che in montagna resti chi ci ha sempre vissuto, fornendo le stesse garanzie e prospettive, gli stessi diritti, lo stesso accesso ai servizi di chi vive in città.
Poi una parte di questa crisi ha anche ragioni di altro genere. Per esempio, alcuni lavori, soprattutto manuali e di fatica, sono stati abbandonati con l’aumentato livello di istruzione. Probabilmente l’attuale crisi economica potrebbe spingere i giovani a un recupero di vecchi mestieri perché in altri campi il lavoro non c’è o si trova con fatica. In questo forse i ragazzi della montagna saranno avvantaggiati perché ancora abituati alla fatica, mentre quelli di città lo sono meno o non lo sono affatto.
Ludovico Rella
ludovico_rella@yahoo.it

Alberto Folgheraiter presenterà il suo libro "I villaggi dai camini spenti" giovedì 30 agosto presso il Museo della Civiltà Contadina di Riva di Vallarsa, insieme a Filippo Zolezzi, Maria Antonia (Tona) Sironi, Roberto Mantovani, Spiro Dalla Porta Xydias, Italo Zandonella Callegher