giovedì 26 luglio 2012

LE ALPI MAGNIFICO LABORATORIO PER IL FUTURO. INTERVISTA AD ANNIBALE SALSA.



Annibale Salsa, partiamo da quelle che saranno le tematiche del convegno “Uomo e montagna, paesaggi intrasformazione”, che si svolgerà a TRA LE ROCCE E IL CIELO venerdì 31 agosto 2012: il popolamento della montagna è stato stabile nel tempo o ha visto periodicamente flussi e riflussi?
Il popolamento della montagna non ha avuto una sua costanza stabile, ma ha visto periodi di incremento alternati a periodi di decremento dovuti a circostanze differenti, di natura economica, politica e climatica. Ci sono due estremi: la fase medievale che si può definire l’epoca d’oro del popolamento della montagna alpina e l’epoca moderna- contemporanea che marca il punto di minimo popolamento da molti secoli.
Durante il medioevo la popolazione venne incentivata a popolare zone di montagna con tutta una serie di facilitazioni economiche e grazie ad uno status giuridico particolare, che garantiva contratti d’affitto ereditari per i terreni e lo status di “uomo libero”. Queste pratiche fanno parte di quelle che io ho definito le buone pratiche medievali, che hanno permesso il dissodamento di una enorme quantità di terre, sia nella media montagna alpina, sia in aree al di sotto del livello del mare come nei Paesi Bassi. Questa è la fase virtuosa dell’incremento demografico delle popolazioni alpine.
Vi è poi una fase non virtuosa di questo incremento demografico, quella fase che crea lo squilibrio tra popolazione e risorse legata all’impennata demografica del XIX secolo, il vero e proprio canto del cigno del popolamento delle montagne alpine. Questo processo poi ha innescato un progressivo spopolamento della montagna, non più a carattere stagionale, ma definitivo, a favore delle zone urbane più vicine e più in generale alle zone di pianura.
Dato il trend negativo che ha caratterizzato le popolazioni montane che si sono trasferite in città per avere migliori condizioni di vita e più opportunità di lavoro negli ultimi decenni, come è possibile riportare attività produttive in quota in grado di garantire un ripopolamento?
Va detto con tutta onestà che negli ultimi anni ci sono stati già dei segnali di ripresa e di ritorno alla montagna. Oggi ci sono condizioni di interesse per la vita in montagna che solo 20- 30 anni fa non c’erano, visto che i modelli economici fordisti che si erano affermati durante tutti gli anni ’60 e ’70 del ‘900 avevano costretto i montanari a muoversi verso le città e la pianura per cercare lavoro in quello che è stato giustamente definito un esodo biblico. Negli ultimi 10 anni le condizioni generali si sono invertite, nel senso che oggi ci sono molte più opportunità per chi vive in montagna rispetto a chi vive in città, perché le nuove tecnologie rendono possibile praticare nelle “terre alte” delle attività che nella società industriale non erano possibili.
La società fordista era basata sui poli industriali e sul pendolarismo che hanno drenato risorse e popolazioni dalle zone alpine portandole nelle periferie urbane. Oggi potenzialmente ci sono condizioni nuovamente favorevoli al popolamento della montagna, ma il fatto che questo ancora non avvenga in misura sensibile e costante è dovuto al fatto che mentre durante il medioevo i decisori politici del tempo avevano assecondato il movimento di popolazioni verso la montagna grazie ad incentivi, come ho detto prima, oggi questo non accade perché la politica attuale ancora non coglie l’importanza che riveste il popolamento della montagna e delle Alpi nella fattispecie.
Oggi c’è un bisogno di ritornare ad avere, oltre al discorso sulla qualità della vita superiore che si può trovare in montagna, tutta una serie di prodotti di qualità, siano essi alimentari o di artigianato che solo il popolamento montano può garantire. La montagna, quindi, potrebbe ritornare ad essere popolata, a condizione che i decisori politici di oggi si rendessero conto dell’importanza e del valore che potrebbe avere una montagna popolata e vissuta e adottassero misure conseguenti, cosa che al momento non sta avvendendo.
È possibile mettere in relazione, pur con tutte le debite differenze, la fuga dai grandi centri urbani, iniziata nel tardo impero romano e nei primi secoli del medioevo e poi consolidatasi grazie agli incentivi dopo il 1100, con l’attuale movimento di fuga dalla città sovrappopolata e percepita come più rischiosa e violenta? La montagna può rappresentare di nuovo un rifugio per una parte considerevole delle popolazioni del primo mondo in un futuro non troppo remoto?
È chiaro che sono condizioni completamente diverse, ma legate sempre ad un disagio di vivere in territori che non sono più in grado di soddisfare le necessità pratiche. Al tempo della caduta dell’Impero Romano si trattava di una crisi epocale dovuta a fenomeni migratori massicci, oggi invece si tratta più di una crisi dell’uomo moderno che, anche alla luce della recente crisi economica, ha bisogno di fare i conti con l’economia reale e non più con un’economia fittizia basata sulla finanza e quindi molto più virtuale.
Le basi strutturali dei due fenomeni sono completamente differenti, ma oggi c’è la stessa esigenza di scappare dalla città. Se però questa esigenza non viene sostenuta politicamente rischia di diventare solo una fuga romantica. Quindi bisogna dare a tutta la montagna, soprattutto alle Alpi, degli strumenti di autogoverno che siano slegati da dinamiche elettoralistiche che tendono a chiudere una popolazione su se stessa, facendo in modo che siano le esigenze del territorio con le sue peculiarità il centro focale dell’agire politico. Misure come l’abolizione dei piccoli comuni montani sono guidate da logiche demenziali, che portano all’abbandono e all’inselvatichimento delle terre alte, che è causa di smottamenti, frane e dissesti idro-geologici, come abbiamo visto altre volte in Italia. La salvaguardia della montagna è una questione anche di salvaguardia del territorio e non un fatto prettamente economicistico.
Com’è possibile, nel contesto di scarsità di risorse economiche statali in cui ci troviamo, a tutelare efficacemente le piccole comunità linguistiche montane?
Il discorso della salvaguardia delle lingue va di pari passo con la salvaguardia delle comunità alpine. Il discorso generale riguarda la scuola: se si tolgono dei presidi scolastici nei paesi di montagna ne consegue giocoforza che si favorisce la fuga dalla montagna. Non è solo un problema di tutela di una lingua minoritaria, ma più di tutela di un insediamento minoritario. Queste riforme porterebbero i bambini in scuole più grandi, generalmente in fondovalle, generando forti spaesamenti e innescando di nuovo una urbanizzazione della montagna, che diverrebbe il terreno di gioco e di evasione per i fine settimana e non più uno spazio di vita.
Innanzitutto il presidio territoriale deve essere rappresentato dalle scuole, è fondamentale. Il cittadino di montagna ha necessità di essere riconosciuto come tale, non attraverso la ripetizione vuota di modelli culturali lontani nel tempo, ma attraverso il contatto con un patrimonio culturale rivisitato e attualizzato. Non un passatismo, quindi, ma insegnamenti che attraverso la lingua faccia comprendere meglio il territorio. Lo scopo primario è quello di cercare di mantenere attivi e vissuti i presidi di montagna, di cui la lingua è un aspetto complementare e dipendente.
Se vediamo quali sono le voci risparmio reali derivanti dall’eliminazione dei presidi scolastici e sanitari di montagna si scopre che in realtà sono cifre irrisorie nel breve periodo, ma che rischiano di dare il colpo di grazia alle comunità di montagna, con un ritorno economico negativo in termini di mancanza di prodotti di qualità che supererebbe di gran lunga i vantaggi per i costi correnti dello stato. Per non parlare dei costi morali…
Nell’ottica della salvaguardia delle lingue un ruolo importante lo può giocare la toponomastica. Come e quanto la salvaguardia della nomenclatura dei luoghi può aiutare una cultura minoritaria a sopravvivere?
Anche in questo caso spesso il problema viene travisato, per ignoranza o per malafede, in termini di sciovinismo linguistico o di etnicismo, mentre invece il problema reale è quello della toponomastica storica. Attraverso la sedimentazione dei nomi dei luoghi attraverso i molti secoli di storia, questi stessi luoghi hanno ottenuto una loro particolarità e specificità, una loro anima. I nomi dei luoghi narrano la loro destinazione funzionale e se si sovrappongono a questi dei nomi inventati, come è successo in Alto Adige, i luoghi non comunicano più niente.
Il toponimo storico dice sempre qualcosa, comunica un significato. Oggi la gente vive in una sorta di alienazione nella propria terra, nomina dei luoghi con denominazioni di cui non conosce il significato. Bisogna uscire dal dualismo etnicismo- sciovinismo linguistico e adottare un criterio, come ho detto, di toponomastica storica. La toponomastica non è legata ad un bilinguismo, ma è legata ad un significato che si è depositato in un luogo attraverso secoli di storia.
Dare un nome alle cose è il primo atto con cui l’umanità si identifica e si insedia in un luogo. Il toponimo storico ha un valore che va al di là dell’aspetto etnico- linguistico: è un qualcosa che riflette la storia di un insediamento. L’identità di un luogo è costruita dalla storia, non da una etnia o dalla lingua, frutto quindi di trasformazioni, mutazioni e negoziazioni continue fra popolazioni e territorio.
Che prospettive vedi per la conservazione della cultura di montagna, intesa nel senso più ampio possibile, oggi come oggi?
Per prima cosa io distinguo sempre tra le Alpi e le altre montagne perché le Alpi occupano una posizione strategica all’interno dell’Europa. Oggi, di fronte all’ondata euroscettica che si sta vivendo, in cui non si trovano più elementi che accomunino, e in cui si cercano ostinatamente solo quelli che dividono la storia delle Alpi può rappresentare un modello per il futuro. Le Alpi oggi possono tornare ad essere quello che molti studiosi hanno definito “magnifico laboratorio” per la convivenza pacifica di popoli e culture differenti. Possono diventare il laboratorio per una nuova Europa basata sul paradigma dell’unità nella diversità.
La crisi dell’Europa e dell’Euro dipende dal fatto che noi abbiamo una moneta unica, ma non abbiamo una politica monetaria unica, c’è solo una mera unione economica, ma a livello politico siamo ancora divisi dai nazionalismi. Le Alpi hanno sempre rappresentato uno spazio in cui differenti popolazioni hanno dialogato e collaborato tra loro senza che vi fossero confini fra di loro. Bisogna andare oltre il concetto di nazione, ormai vecchio e inutile.
Parlando altre volte hai citato più volte il modello della Confederazione Elvetica come l’equilibrio ideale tra diversità culturali: è un modello esportabile?
È chiaro che il modello elvetico non può essere esportato sic et simpliciter. Niente di così complesso può essere esportato. Sono fortemente contrario a coloro che affermavano che la democrazia potesse essere esportata. Ogni struttura sociale è figlia della cultura del tempo, quindi non si può semplicemente prendere il modello svizzero e copiarlo in un altro luogo tale e quale.
Il modello della Confederazione Elvetica è frutto di una storia lunga 700 anni di convivenza tra diversi che però avevano ben chiara l’esigenza di stabilire dei principi unitari di base, come quello della politica monetaria comune. I Cantoni svizzeri, pur avendo un'ampia capacita' di autogoverno in qualita' di Stati federati, delegano materie fondamentali come la moneta, le dogane, le poste alla Confederazione. In tal senso riescono a conciliare l'autonomia e gli interessi particolari dei territori con l'interesse generale della Comunita' allargata: un buon esempio di unita' nella diversità.

Il convegno UOMO E MONTAGNA, PAESAGGI IN TRASFORMAZIONE vedrà studiosi del calibro di Annibale Salsa, Roberto Mantovani, Ugo Morelli, Marco Avanzini, Geremia Gios, Giorgio Conti e molti altri, insieme ad amministratori e a persone che hanno deciso di fare ritorno alle attività produttive in montagna, confrontarsi sul tema dello spopolamento progressivo delle nostre valli. Il dibattito esaminerà le profonde trasformazioni che i cambiamenti in atto stanno producendo sulle nostre montagne; e tenterà di delineare possibili vie per invertire la tendenza in atto.
Il programma completo sul sito di TRA LE ROCCE E IL CIELO.


Riccardo Rella
riccardo_rella@yahoo.it

lunedì 23 luglio 2012

LO SGUARDO LIEVE DELL'ANIMA: INTERVISTA A LUCIA MARANA



Lucia Marana, iniziamo parlando di quello che farai all'interno del Festival: ti occuperai delle immagini e dei filmati che ci accompagneranno durante i quattro giorni di “Tra le rocce e il cielo” giusto?

Sì, mi occuperò principalmente delle mostre fotografiche e delle rassegne di filmati che si svolgeranno in parallelo con le giornate del festival, poi mi occuperò anche del laboratorio di fotografia “Paesaggio come natura, paesaggio come storia” che terrò dal venerdì alla domenica

Parlaci di questo laboratorio: qual è l'idea che sta alla base, cosa si vuole trasmettere a chi parteciperà?

L'idea è quella di organizzare un workshop su quattro incontri con al centro la riflessione sull'idea di paesaggio, per cui ad ogni partecipante sarà chiesto di elaborare un proprio progetto fotografico, anche a partire dal lavoro di altri fotografi che si sono occupati di paesaggio.
Lo abbiamo pensato come molto orientato in senso pratico, per cui ogni partecipante dovrà farsi un'idea di che tipo di progetto fotografico vuole, con un percorso anche concettuale su cosa si vuole trasmettere attraverso gli scatti, quale situazione e soggetto si vuole rappresentare. Poi gli sarà chiesto di mettere in pratica quello che ha immaginato, attraverso una serie di stimoli e di input che darò io nel corso degli incontri.

Da quanto di occupi di fotografia, paesaggio e delle attività che poi svolgerai al festival?

Di fotografia mi occupo dalle scuole superiori, quando facevo l'istituto d'arte, poi ho continuato a mettere a frutto questo interesse. Anche la tesi di laurea, a lettere, l'ho fatta sull'estetica riguardo al pensiero di Roland Barthes[1] e la fotografia. Poi ho svolto attività come fotografa free lance, occupandomi soprattutto di reportage.

La montagna come soggetto quando è arrivata nella tua attività?

In fondo c'è sempre stata, il paesaggio è sempre stato al centro della mia attività di fotografa. La fotografia ti permette di avvicinarti ai luoghi in un modo diverso da una semplice passeggiata, per via del percorso concettuale a monte, c'è una propria elaborazione nella fotografia che va oltre il semplice dato del paesaggio.

Riguardo ai filmati che verranno proiettati all'interno del festival, ci puoi dire quali sono, cosa ti ha spinto a sceglierli e qual è il filo rosso che li unisce?

I filmati seguono l'andamento del festival, per cui ogni giorno ci sarà un filmato che parla del tema sviluppato negli incontri della giornata.
Ad esempio, il giorno della montagna come storia verrà proiettato un filmato che s'intitola “Fino a quando...”, di Vittorio Curzel. Ha come tema la Grande Guerra, e i suoi rapporti con il Pasubio. E' un filmato strutturato attorno al concetto di viaggio, prima di tutto di viaggio nella memoria, ripercorrendo la storia di una famiglia trentina a partire da una vecchia fotografia di soldati. E' poi un viaggio anche fisico che l'autore ha fatto sui luoghi della Prima Guerra Mondiale, quindi la Marna, l'Isonzo, il Pasubio dove i Kaiserjaeger si erano trovati a combattere.
Lo stesso vale per la giornata sulla vita di montagna, per cui ho scelto “Piccola Terra”, un filmato di Michele Trentini e Marco Romano, due antropologi di San Michele all'Adige. Questo filmato parla della zona vicino ad Asiago, la Valstagna, alle pendici del Brenta, che è un luogo molto particolare, tutto organizzato in terrazzamenti realizzati in epoche molto antiche, ma utilizzati fino a non molto tempo fa. Ora questi terrazzamenti sono in uno stato di abbandono ed è partito un progetto di “adozione” e di recupero della zona, non in un senso solo paesaggistico, ma proprio con un intento pratico di ricominciare a coltivare la terra, ora ad esempio ci coltivano la menta, dimostrando come si possa sottrarre del territorio all'abbandono.
Un altro film, collegato al tema delle minoranze linguistiche, è “Il vento fa il suo giro” di Giorgio Dritti e Fredo Valla, ambientato nelle valli occitane, che all'estero è stato molto apprezzato ma che da noi non ha avuto la notorietà che merita. E' la storia di una famiglia che si trasferisce in un paese delle valli occitane e qui cerca un equilibrio con la terra e con gli abitanti, conducendo una vita da pastori. “Il vento fa il suo giro”, infatti, è un proverbio di questa zona, che indica come la natura segua sempre il suo corso, che è  un corso circolare.
Il quarto film che proponiamo è “Tre giorni a Permana” di Renato Morelli, che segue la vita di questo paese nelle montagne in provincia di Lecco, nel corso di tre giorni collegati da una grande tradizione locale molto sentita che è quella del canto: il PAST, che è una festa pastorale che si tiene ad agosto, quando vengono lavorati i latticini, il Corpus Domini del 6 giugno in cui i canti accompagnano la processione, e la festa dei Tre Re, ovviamente l'Epifania, dove tutti i ventenni della comunità girano per un giorno vestiti da Re Magi, accompagnati sempre da canti, fino al giorno stesso dell'Epifania, in cui la chiesa locale esplode di canti.
Infine, abbiamo “La montagna di Don Guetti” di Jorge Lazzeri Del Sordo,  che parla appunto di Don Guetti, una figura molto importante per la storia trentina, soprattutto per quanto riguarda la politica agli inizi del Novecento. Don Guetti per intendersi è uno dei primi a riflettere sull'autonomia e la cooperazione, e questo filmato intende ripercorrerne la storia.

Invece sulle fotografie selezionate per le esposizioni, cosa hai cercato in quel materiale in termini di stile, soggetto eccetera?

Ci sarà un'esposizione con foto e documenti con al centro il paesaggio e soprattutto la trasformazione del paesaggio in questi ultimi decenni. Sarà realizzato in collaborazione con Giorgio Broz, con cui abbiamo avuto modo di collaborare anche alla scorsa edizione del festival, e quest'anno la mostra è realizzata con il Museo delle Scienze di Trento. Ancora però stiamo lavorando sul materiale da mettere in esposizione. Insomma, è ancora work-in-progress.
Ludovico Rella
ludovico_rella@yahoo.it 


[1]    Roland Barthes (Cherbourg, 12 novembre 1915 – Parigi, 26 marzo 1980) è stato saggista, critico letterario, linguista e semiologo francese. Sulla fotografia il suo lavoro principale è la Chambre claire del 1980

giovedì 19 luglio 2012

I MODI DI VIVERE LA MONTAGNA NELLA RASSEGNA DI FILM A “TRA LE ROCCE E IL CIELO”


 dal film "Piccola Terra" di Michele Trentini
Tra incontri, convegni, spettacoli, mostre escursioni e laboratori non poteva mancare all’interno della manifestazione Tra Rocce eil Cielo, il Festival della montagna che si  svolge in Vallarsa (Tn) dal 30 agosto al 2 settembre 2012, una rassegna cinematografica.

Verranno proiettati cinque FILM che indagano la montagna nei suoi diversi aspetti e «che seguono il tema delle quattro giornate del festival, - spiega Lucia Marana, curatrice della rassegna per l’associazione culturale “Tra le Rocce e il cielo” che organizza la manifestazione -  per cui ogni giorno ci sarà un filmato che parla del tema sviluppato negli incontri della giornata». E verranno premiati i vincitori del concorso “Racconta la tua montagna”.

TRE GIORNI A PREMANA”, film dell'etnomusicologo Renato Morelli, parla di Tìir, uno stile di canto urlato, potente, lento e sostenuto, al limite del grido, peculiarità di Premana, il più alto paese della Valsassina (Lecco). Il lungometraggio documenta i tre giorni più significativi per la tradizione del canto premanese: Past (8 augusto), Corpus Domini (6 giugno), Tre Re (5 gennaio).
La proiezione, giovedì 30 agosto, giornata dell’arte della montagna, alle 17 all’Hotel Genzianella di Bruni sarà seguita dall’incontro con il regista.

Il film di Michele Trentini e Marco RomanoPICCOLA TERRA sarà proiettato nella seconda giornata del Festival dedicata alla vita in montagna, il 31 agosto alle ore 17 al Teatro Comunale di S. Anna. Il film è ambientato  in Valstagna, Canale di Brenta, Vicenza: su piccoli “fazzoletti di terra” un tempo coltivati a tabacco si gioca il destino in controtendenza di personaggi assai diversi, impegnati a dare nuova vita ad un paesaggio terrazzato in stato di abbandono. C’è chi rimane aggrappato con ostinazione e orgoglio all’antico podere di famiglia, chi lascia il posto di operaio in cava per ritrovare se stesso, chi venendo dal mondo urbano decide di prendersi cura di campi e muri a secco grazie ad un innovativo progetto di adozione, e chi originario del Marocco coltiva il sogno dell’integrazione per sé e per i propri figli. “Piccola terra” è un racconto sul valore universale del legame con la terra, che prescinde da interessi economici, impedimenti politici, steccati culturali. Trentini e Romano commenteranno il loro film.

Nella giornata dedicata alle minoranze linguistiche, 1 settembre, alle ore 17 all’Hotel Genzianella a Bruni sarà proiettato IL VENTO FA IL SUO GIRO. Realizzato dal regista, allievo di Olmi, GiorgioDiritti su soggetto di Fredo Valla (che poi commenterà la proiezione), il film ha un titolo in occitano "E l'aura fai son vir". Il vento diviene metafora di tutte le cose, movimento circolare in cui tutto torna. La storia di un pastore francese che, con la famiglia, si ritira in montagna per vivere secondo natura.  Lo fa a Chersogno, un piccolo villaggio sulle Alpi occitane, la cui sopravvivenza è legata ad alcune persone anziane ed a un fugace turismo estivo. Il suo arrivo diventa la dimostrazione di una possibile rinascita del paese. L'integrazione è difficile e il rapporto con la “diversità” diventa il cardine della narrazione.

Sempre all’Hotel Genzianella, il giorno seguente 2 settembre, giornata della storia, alle ore 17 sarà proiettato FINO A QUANDO… di Vittorio Curzel. Comincia da una foto, scattata nel 1916 a due giovani fratelli in divisa dell’impero asburgico, il viaggio nella memoria di una famiglia trentina durante la prima guerra mondiale, con un itinerario che dapprima segue il nonno soldato in Galizia, per poi allargare lo sguardo verso gli altri fronti e le vicende drammatiche di una generazione di giovani europei in trincea. Il racconto attraversa i campi di battaglia della Marna e dell’Isonzo, per concludersi fra le rocce del Pasubio, dove Kaiserjäger trentini si trovano a combattere contro altri trentini volontari nell’esercito italiano. Fino a quando i sopravvissuti tornano nella loro valle e trovano un paese trasformato e senza vita.  Al film seguirà l’incontro con il regista.

Nella giornata di chiusura, il 2 settembre, all’Hotel Genzianella a Bruni alle 14 si potrà assistere al film, prodotto da Accademia della montagna del Trentino, “LA MONTAGNA DI DON GUETTI di Jorge Lazzeri Del Sordo, che indaga il profilo umano Don Guetti, apostolo della cooperazione: non solo il suo credo politico e autonomistico, ma anche il suo grande amore per le montagne delle sue valli.

Seguirà la PREMIAZIONE DEL CONCORSO “RACCONTA LA TUA MONTAGNA: DENTRO IL PAESAGGIO” che vede in gara video che trattano il paesaggio preso in esame da uno qualsiasi dei molteplici punti di vista possibili: paesaggio fruito dal punto di vista estetico, percorso attraverso passeggiate naturalistiche, raccontato nella sua profondità temporale attraverso il rapporto con la storia, documentato attraverso la testimonianza della cura, della manutenzione e del recupero, vissuto attraverso memorie e ricordi, mediato attraverso il filtro della letteratura e della poesia, …


L’intero programma del Festival “Tra le rocce e il Cielo” su PROGRAMMA
Stefania Costa
costa_stefania@yahoo.it

martedì 17 luglio 2012

L'ABBANDONO DELLA MONTAGNA: A OSTANA SI INVERTE LA TENDENZA. INTERVISTA AL SINDACO GIACOMO LOMBARDO


Lei è il sindaco di Ostana, un paese di montagna nelle valli occitane piemontesi, può dirci secondo lei che problematiche hanno i territori montani oggi?
Lo spopolamento l’abbiamo già vissuto negli anni scorsi, oggi siamo in una fase di ripresa, anche se piccola. La nostra popolazione si è ridotta ma il territorio è sempre lo stesso, quindi la superficie popolata del territorio del comune si riduce. Questo porta tutti i danni dell'abbandono, primo fra tutti il problema dell'equilibrio idrogeologico. A fronte di questi problemi, ci troviamo davanti a sempre meno fondi da parte dello Stato.
Quindi c’è la sensazione di disimpegno da parte dello Stato verso questi territori?
Certamente. Arrivano funzionari statali che non conoscono i territori, la normativa sui comuni è la stessa che si parli di Torino o che si parli di Ostana. Noi siamo costretti a continuare a produrre una grande quantità di statistiche ed approfondimenti sui vari dati ed indicatori che coinvolgono il territorio del comune, solo che poi non sappiamo che fine facciano e sul territorio non torna niente.
Ostana è un comune di lingua occitana, quindi una tradizione linguistica e culturale molto antica. Queste tradizioni così particolari come si riescono a tutelare?
Lavorando, lavorando, lavorando: facendo manifestazioni, curando pubblicazioni, facendo concorsi letterari. Facciamo un concorso letterario per minoranze linguistiche (“Premi Ostana Escrituras en lengas maires” ovvero “Premio Ostana Scritture in lingue madri”), all’interno del quale diamo un riconoscimento ad uno scrittore occitano. Quest’anno il premio è stato dato a Serge Bec, ma fra i premiati delle edizioni precedenti vorrei citare Gavino Ledda (per il sardo), Harkaitz Cano (per la lingua basca), Andrea Nicolussi Golo (lingua cimbra), Tuntiak Katan (lingua shuar in Ecuador), Maite Brazalas (lingua catalana), Vuolab Kerttu (lingua sàmi), Witi Ihimaera (lingua maori), ecc.
Poi abbiamo il festival di “Falsi documentari” DOCUMENTEUR, che è appunto l'unione fra DOCUMENTAIRE e MENTEUR, che vede coinvolto un paese per ogni valle occitana in documentari che sono, per l'appunto, su argomenti di fantasia. Quest’anno sono stati coinvolti sette paesi dalla Val Gesso fino alla Val Chisone. Abbiamo poi il cinema per ragazzi, anche quello a forte impronta occitana.
Ogni anno il 5 gennaio andiamo indietro nel tempo a quando venivano raccontate le storie dentro le stalle, in occitano ma non solo in quella lingua.
A settembre dedicheremo al nostro territorio un'intera giornata, che si articolerà in una mattinata di escursione sui sentieri seguiti dai pastori, e si concluderà la sera con una gara di balli tradizionali.
A luglio avremo modo di parlare con Maria Soresina della cultura occitana e in particolare delle sue radici storiche, che rimandano ai catari, cioè quella popolazione non cattolica che abitava nel sud della Francia fra 1200 e 1300, nel periodo in cui il francese era parlato solo al nord.
Noi poi facciamo parte del Festival di cultura occitana e catalana, organizzato in collaborazione della Generalidad de Catalunia: ad agosto ci saranno proiezioni di filmati in Catalogna, nel sud della Francia e, per l’Italia, a Ostana e Paesana. Sempre a Paesana ci sarà anche una settimana di cultura occitana.
Insomma, è in questo modo che si fa cultura: continuando a fare, a organizzare, a tenere in vita quelle che sono le tradizioni, la lingua e la memoria.

Ostana fa poi parte dell’Alleanza delle Alpi, una rete di comuni dell’arco alpino che esiste dal 1997.
Esattamente, anche questo rientra nell’esigenza di promuovere e valorizzare una cultura degli ambienti di montagna, organizzando eventi e manifestazioni e promuovendo, a livello statale, una serie di protocolli che riguardino la montagna. Ora lo Stato ne ha recepiti alcuni, anche se lo ha fatto dopo anni. Poi l’Alleanza serve a collaborare e a “fare rete” con altri comuni che condividono caratteristiche simili.
L’Alleanza esiste da 15 anni, il bilancio di questa esperienza è positivo?
Il Comune di Ostana è membro da circa 4 anni. Il bilancio è positivo perché ci permette di scambiarsi informazioni ed esperienza. Quest’anno abbiamo anche fatto una collaborazione con altri quattro comuni montani che ha prodotto delle cartine dei vari territori. Poi però c’è l’esigenza di spingersi oltre, anche perché il trattato di Lisbona per quanto riguarda l’Unione Europea ha inserito al suo interno un articolo specifico sulla montagna, quindi speriamo e pensiamo che questo tipo di esperienza si possa estendere ad altre regioni a livello europeo.
Ostana ospita anche un Ecomuseo della Civiltà Contadina.
Sì. In realtà si articola in due parti: un vero e proprio Museo, denominato Civico Museo Etnografico di Ostana, che si trova nell’ex municipio e ha cinque sale in cui viene illustrata la vita dei contadini che abitavano il territorio di Ostana. La parte ecomuseale, invece, è un percorso nei sentieri che conduce alle vecchie baite e ai luoghi dove si svolgeva l’attività agricola.

Il sindaco di Ostana Giacomo Lombardo parteciperà al convegno del 31 agosto 2012 UOMO E MONTAGNA: PAESAGGI IN TRASFORMAZIONE, che si terrà al Teatro Comunale di Riva di Vallarsa. Studiosi e praticanti della montagna si confronteranno sulle conseguenze che lo spopolamento delle nostre valli sta producendo sull'ambiente e sul paesaggio, e sui possibili modi per invertire le tendenze in atto.

Ludovico Rella
ludovico_rella@yahoo.it


L’intero programma del Festival “Tra le rocce e il Cielo” su PROGRAMMA

sabato 14 luglio 2012

CAMMINANDO CON... SAPIENZA. INTERVISTA A DAVIDE SAPIENZA, SCRITTORE, VIAGGIATORE E TRADUTTORE DI JACK LONDON



Davide Sapienza, La tua opera letteraria ha come cifra fondamentale il viaggio: cosa significa per te viaggiare?
In realtà, ci stavo riflettendo proprio in questi mesi, il tema del viaggio era per me una sorta di copertura per quello che è per me il tema fondamentale, cioè l’appartenenza al mondo della natura. Quando io ho scritto “I Diari di Rubha Hunish”, scritto nell’arco di sei anni, cercavo di fare uno studio sul narrare il viaggio sia nei suoi aspetti più superficiali che in quelli più profondi, ma non mi rendevo conto che in realtà quel libro era una dichiarazione di intenti, un tentativo di mettere in luce i miei legami con la natura, come poi ho scoperto quando ne ho curato la riedizione nel 2011.
Credo che essere legati alla natura sia in realtà il vero “grande viaggio”, l’aspetto che anche inconsciamente ho sempre avvertito, fin dal periodo in cui scrivevo come critico musicale. Ovviamente il viaggio fisico è una cosa interessante, ma è ormai diventato talmente “pornografico” negli ultimi anni che mi scopro a disinteressarmi di gran parte della letteratura attuale riguardante i viaggi. È brutto da dire, ma ormai tutto si riduce a comprare un biglietto e andare da qualche parte per più o meno tempo, e poi i resoconti finiscono per assomigliarsi tutti. Magari faccio anch’io questo effetto, non lo so, poi sta al lettore valutare, ma io credo di aver sempre raccontato il viaggiare in un altro modo…
Penso che del viaggio conti soprattutto la preparazione, un po’ come per lo sport: la partita è il meno, quello che è veramente importante è tutta la preparazione che si fa prima.
Molte delle tue opere hanno il tema comune del “Grande Nord”, con il suo freddo e le terre spoglie e quasi disabitate. Cosa rappresenta per te questo tipo di paesaggio e di natura?
È vero, il nord è un ambiente che mi ha sempre molto affascinato. Mi sono reso conto dopo che quello che ho cercato a lungo è il senso di comunità, di piccola comunità che si è perso nelle nostre città e che è alla base della mia decisione di andare ad abitare in un paese di montagna sotto la Presolana, ormai 22 anni fa. Questo tipo di comunità l’ho visto soprattutto quando ho viaggiato in posti quasi disabitati. C’è un passo de “I Diari di Rubha Hunish” in cui racconto di come, durante il mio viaggio in Norvegia nel 1997, abbia notato che le case del paese che stavo osservando tendessero ad essere distanziate tra loro. Venendo dall’Europa del sud questo mi è sembrato strano, visto che noi tendiamo ad agglomerarci il più possibile, e mi ha fatto riflettere sul fatto che in questo genere di luoghi (anche nello Yukon ho potuto vedere lo stesso) il frequentarsi e la socialità sia in realtà una scelta e non una costrizione come succede in città, dove sei letteralmente “accatastato”, pressato vicino ai tuoi simili. Lo Yukon ad esempio è grande quanto l’Italia intera e ha trentamila abitanti, e questo dovrebbe farci avviare una riflessione sull’occupazione dello spazio e del fatto che la nevrosi da città dipende dal fatto che noi non abbiamo più un nostro spazio vitale, un posto in cui ci si possa trovare soli con sé stessi, per riflettere e poi tornare più leggeri dai nostri simili.
Per me il “Grande Nord” è stato da sempre un amore profondo, che neanche mia madre si è mai spiegata. Di origine la mia famiglia viene dalla Sicilia, sulle pendici dell’Etna e quindi teoricamente non dovrebbe esserci niente di più lontano del freddo e dei ghiacci del nord, ma credo poi ci siano delle correnti profonde che spingono le persone ad agire. Negli ultimi anni poi il nord è assurto agli onori delle cronache per l’ormai famigerato riscaldamento globale e io ho sempre cercato di mescolare nei miei reportage il lato poetico della natura incontaminata con il lato più cronachistico, documentando come i poli siano il vero “termometro” della terra e di come in questi anni questo termometro sia letteralmente impazzito… un altro elemento che dovrebbe farci riflettere sul nostro stile di vita.

Tu hai iniziato la tua carriera di giornalista come critico musicale. Che spazio ha adesso la musica nel tuo viaggiare e nella tua riflessione?
Io ho iniziato a scrivere di musica molto giovane, da quando avevo vent’anni, curando il primo libro al mondo sugli U2… Se intendiamo la musica, quella con tutte le lettere maiuscole, ha ancora una parte importantissima nella mia vita (poi sono anche sposato con una cantautrice), ma contemporaneamente il mondo della musica attuale è quanto di più lontano ci sia da quello che mi interessa. Il mondo dello spettacolo in generale è un universo che sento molto lontano, pur avendolo frequentato per un lungo periodo.
La musica che mi piace è molto presente nella mia vita, senza dubbio. Quando cammino in montagna non ascolto mai musica, più che altro perché non ne sento il bisogno. Ho provato un paio di volte ad ascoltare musica con i primi lettori mp3 o con lettore CD portatile, mentre facevo una salita sulla neve con le pelli di foca, ma mi è sempre sembrato di privarmi di qualcosa di immenso. Il silenzio e i rumori della natura non devono essere coperti, a mio modo di vedere. Quando scrivo, invece, la musica è estremamente presente. So cosa voglio ascoltare per scrivere determinate cose, e negli ultimi 6-7 anni è stata prevalentemente musica strumentale, dai dischi di Brian Eno, piuttosto che Beethoven o Bach, perché la musica cantata è sempre una distrazione mentre si scrive. La musica mi aiuta ad immedesimarmi in una situazione, in un contesto, e spesso cerco di trasporre in parole le suggestioni della musica che in quel momento sto ascoltando, tanto che poi, rileggendo a distanza quello che ho scritto riesco a ricordarmi immediatamente che pezzo stavo ascoltando.
Ho notato che London è uno dei tuoi autori preferiti, di cui hai tradotto libri inediti in Italia e di cui hai studiato molto la produzione. Cosa vedi di speciale nella sua opera? E quali sono altri autori che sono una guida e un modello per la tua scrittura?
Partirò dalla fine della domanda. Ho avuto la fortuna che un mio amico, Renato da Pozzo, mi abbia fatto leggere i “Sogni artici” di Barry Lopez, nel 1995. In quel periodo stavo maturando la mia decisione di abbandonare il mondo della critica musicale e quel libro mi ha completamente sconvolto. In quel periodo scrivevo poesie e avevo deciso di non scriverne più per un intero anno, come piccolo esperimento antropologico masochista, e mi stavo dedicando ad un libro su uno dei miei autori preferiti, Melville, incentrato in particolare su “Moby Dick”. Ho sempre pensato che l’ultimo libro che tradurrò nella mia vita sarà proprio Moby Dick, perché quando sarò in grado di tradurre la complessità di quel libro vorrà dire che sarò diventato davvero un bravo traduttore. Leggere “Sogni artici” mi ha fatto capire come volevo parlare del viaggiare, della natura e anche del rapporto interiore che noi abbiamo con il territorio. Successivamente ho letto tutti i libri di Barry e ho avuto la fortuna di poterlo contattare, di conoscerlo e di essere ospite a casa sua in Oregon dieci anni dopo. Io metterei proprio lui come mio autore vivente di riferimento assoluto, anche e soprattutto per il livello altissimo della sua scrittura.
Jack London invece è stata una riscoperta. Un giorno, quasi casualmente ho ripreso in mano “Il richiamo della foresta” e leggendolo ho pensato “macché libro per ragazzi, questo è un capolavoro incredibile!”. C’è dentro di tutto. Da lì ho cominciato a riscoprire la sua produzione (fino a quel momento avevo letto i suoi quattro - cinque libri più famosi, “Martin Eden”, “Zanna Bianca”…) e ho scoperto un mondo incredibile dove ci sono temi, oltre al grande nord, come la politica, la fanta- politica e molto altro, e ho iniziato uno di quei rapporti “telepatici” che mi ha portato a studiarlo a fondo e cercare di tradurlo nella maniera più contemporanea  possibile, come merita. Quello che invidio a Jack London è l’aver inventato questo stile incredibilmente efficace, anche semplice se si vuole, ma allo stesso tempo completo.
Ti posso dire in anteprima che a breve uscirà per Zanichelli un libro che abbiamo scritto io e Franco Michieli, che si intitolerà “Scrivere la natura”, che sarà un manuale di scrittura sulla natura. È un libro che va da Leopardi a Jack London, da Virginia Woolf a Barry Lopez, per cercare di far capire al lettore come sia necessario uscire dagli stereotipi. Se si leggono oggi delle cose di Jack London sono di un’attualità sconcertante. Faccio solo un esempio: il pluripremiato “La strada” di Cormack McCarthy è totalmente preso da “La peste scarlatta” di Jack London. Se si leggono questi libri si rimane sconvolti perché si assomigliano moltissimo, a dimostrazione di quale sia l’influenza di London in tutta la produzione letteraria americana. A livello di natura London ha inserito nei suoi libri delle cose davvero straordinarie, così come molti passaggi di critica sociale molto forti, forse anche senza accorgersene. Era uno scrittore che veniva dalla strada, che aveva avuto una vita molto dura, ma che contemporaneamente era senza dubbio un uomo molto spirituale, come dimostra ad esempio un libro come “Il vagabondo delle stelle”.

 Ci sono autori italiani che ritieni una tua fonte di ispirazione o che ti piacciono particolarmente?
Sì certo. Non voglio fare torto a nessuno e quindi ne citerò alcuni. Un autore di cui ho letto tutta la produzione e che adoro è Mario Rigoni Stern, perché ci sono suoi libri che mi hanno dato molto “focus” per la mia produzione. Ci sono libri di Rigoni Stern veramente incredibili e non a caso nel manuale di Zanichelli abbiamo inserito molte cose prese da lui. Era una persona molto semplice, ma che riusciva a dire cose di una profondità eccezionale, quasi ci fosse una sorta di verità profonda che lo spingeva a scrivere, che poi è quello che muove tutti gli scrittori, il pensiero di avere una verità profonda che ti spinge a scriverla e descriverla, che ti utilizza come “antenna di trasmissione”.
Franco Michieli, poi, oltre che essere un mio grandissimo amico è un autore cui sto rompendo da anni le scatole perché si decida a scrivere un libro visto che ha scritto dei racconti eccezionali nei suoi 25 anni di carriera. Secondo me sarà un autore di cui sentiremo molto parlare quando finalmente pubblicherà i suoi libri di narrativa. Poi stimo moltissimo Erri De Luca di cui ho letto purtroppo pochissimo e Chicca Gagliardo e Simona Vinci. Chicca Gagliardo l’ho conosciuta dopo aver letto “Gli occhi degli alberi” che secondo me è un libro assolutamente geniale. E poi c’è Francesco Ongaro, un altro dei  miei autori preferiti, che ha pubblicato una stupenda biografia di Tycho Brahe, ma che ha scritto altri bellissimi libri.
Ora, non voglio sembrare di parte o cercare di promuovere a tutti i costi un autore emergente o poco conosciuto, ma per esempio il libro di Michele Pellegrini, edito da Galaad, "Erba di neve" è un libro molto bello, che merita di essere letto secondo me, e che ho consigliato personalmente alla casa editrice. Io credo che in Italia i buoni autori non manchino, bisognerebbe solo dar loro spazio. Molti poi meriterebbero di essere letti o riletti con un occhio differente rispetto al solito.


Davide Sapienza sarà a TRA LE ROCCE E IL CIELO venerdì 31 agosto 2012 in un incontro performance, LA MUSICA DELLA NEVE.EXPERIENCE, con il musicista Giuseppe Olivini. Brani da: La musica della neve. Piccole variazioni sulla materia bianca di Davide Sapienza. Come trasporre la Neve in Musica? Giuseppe Olivini e Davide Sapienza tentano l’esperienza attraverso l’uso di antichi strumenti etnici che accompagnano la lettura del testo. E trovano la via per mostrare i colori della neve e svelarne i misteriosi discorsi.
Davide Sapienza parteciperà, sempre venerdì 31 agosto alle 21 al tendone di Riva do Vallarsa, anche a LA GIOIA DELL’ANDAR LENTI: incontro con Margherita Hack, Alessandro De Bertolini, Valentina Musmeci, Davide Sapienza, Gigi Zoppello. Coordina Carlo Martinelli. Il paziente camminare di chi ha per meta il viaggio e non l’arrivare.
Riccardo Rella
riccardo_rella@yahoo.it

L’intero programma del Festival “Tra le rocce e il Cielo” su PROGRAMMA

mercoledì 11 luglio 2012

RENATO MORELLI e LA ZIGANOFF JAZZMER BAND MUSICA e DANZE A “TRA LE ROCCE E IL CIELO”



Dal Klezmer al jazz lungo la route tzigane, in uno spumeggiante intreccio tra dixie jazz e  swing zingaro manouche. Sono i legami perduti tra queste melodie ad essere proposte dalla Ziganoff Jazzmer Band. Il gruppo di Renato Morelli si esibirà nella terza giornata del Festival della montagna “Tra Rocce e il Cielo”, che si  svolge in Vallarsa (Tn) dal 30 agosto al 2 settembre 2012.
Sabato 1 settembre, la giornata dedicata alle minoranze linguistiche si concluderà con il CONCERTODELLA ZIGANOFF JAZZMER BAND, alle ore 21 nel Teatro comunale di S. Anna. L’ingresso è libero e si potrà ballare sui passi imparati durante il laboratorio di danze popolari trentine del pomeriggio.
Porre l'accento sui mescolamenti culturali e sugli intrecci musicali che corrono tra il jazz, la tradizione klezmer e la musica manouche, scaturiti dalle migrazioni negli Stati Uniti di inizio Novecento. Questa è l’idea di fondo, alla base della jazzmer band Ziganoff. Per il progetto Renato Morelli ha riunito attorno alla propria fisarmonica alcuni tra i solisti più attivi e apprezzati della regione: il chitarrista Manuel Randi, il trombettista Christian Stanchina, il sassofonista Fiorenzo Zeni, il tubista Hannes Petermair e la violinista Rossana Caldini. La band prende il nome da una figura poco conosciuta, ma emblematica: Mishka Ziganoff, fisarmonicista zingaro di lingua yiddish, nato ad Odessa, emigrato a New York, dove lavorò con formazioni klezmer e jazz, e dove incise nel 1919 il brano “koilen”, considerato un prototipo melodico di “Bella ciao”.            

Il Klezmer - musica popolare degli ebrei ashkenaziti dell’Europa centro orientale - ha tramandato fino ad oggi una singolare contaminazione di repertori tradizionali romeni-polacchi-russi-ungheresi-balcanici, nonostante le vicissitudini sofferte da questa minoranza per l’ostilità di imperatori, papi e zar.    
I Klezmorim hanno attraversato più volte i confini di tre imperi (austro-ungarico, zarista, ottomano), condividendo spesso il destino degli zingari, compresa la tragedia della Shoah; non a caso sono due comunità che nel tempo hanno saputo creare un sodalizio umano-musicale fra i più tenaci e prolifici dell’Europa sud-orientale. Per fuggire da pogrom e persecuzioni, alcuni musicisti klezmer e zingari sono emigrati in America all’inizio del ‘900, proprio nel periodo che ha visto la nascita del primo jazz: una nuova contaminazione musicale sviluppatasi nell’ambito della comunità afromericana ma anche – come è ormai riconosciuto – con il contributo determinante di emigranti europei, compresi ebrei e zingari. 
Un’originale contaminazione fra standard jazzistici del primo dixieland e gli stilemi dei Klezmorin. Un incontro singolare fra due mondi musicali diversi che riescono a fondersi in un’unica proposta attraverso la mediazione della tradizione musicale zingara manouche sarà l’anima del concerto acustico del 1 settembre al Festival all’ombra delle Piccole Dolomiti.
Renato Morelli etnomusicologo, regista, scrittore e musicista apprezzato per la sua vasta opera legata alla conoscenza e valorizzazione della musica popolare sarà protagonista a “Tra le Rocce e il Cielo” anche con un laboratorio di danze popolari.  Il pomeriggio del concerto, dalle ore 14 alle 16.30, al Tendone di Riva di Vallarsa Morelli alla fisarmonica e Vincenzo Barba, docente di ballo dell’Associazione Danzare la Pace di Rovereto, terranno un LABORATORIO DI ANTICHE DANZE POPOLARI DEL TRENTINO. Adulti e bambini potranno imparare i passi degli antichi balli trentini. La sera stessa di potrà ballare anche durante il concerto della Ziganoff  Jazzmer Band. La partecipazione  è libera.
Nella prima giornata del Festival, giovedì 30 agosto, Morelli sarà presente anche in veste di regista con “TRE GIORNI A PREMANA”. Il film sarà proiettato alle 17 all’Hotel Genzianella di Bruni. Si parla di Tìir, uno stile di canto urlato, potente, lento e sostenuto, al limite del grido, peculiarità di Premana, il più alto paese della Valsassina (Lecco). Il lungometraggio documenta i tre giorni più significativi per la tradizione del canto premanese: Past (8 augusto), Corpus Domini (6 giugno), Tre Re (5 gennaio). La proiezione sarà seguita dall’incontro con il regista.
Stefania Costa
costa_stefania@yahoo.it


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