lunedì 18 ottobre 2010

Nella serata di sabato 21 agosto, il grande alpinista, decano del GISM e prezioso collaboratore di questa edizione del festival Spiro dalla Porta Xydias ha tenuto la sua conferenza intitolata “Attentato all’alpinismo”. Con la sua consueta competenza e eccezionale capacità di analisi ha dato un quadro incredibilmente preciso di quella che attualmente è la situazione dell’alpinismo.

Spiro è un vero e proprio monumento vivente all’alpinismo. Memoria storica di interi decenni e generazioni di alpinisti, ha sempre guardato alla montagna con uno spirito profondamente e convintamente romantico, anche se questo lo ha posto spesso in contrapposizione con il presente e le sue concezioni “sportive” della pratica dell’alpinismo.

Lungo le due ore di conferenza ha ripercorso con una precisione e una dovizia di particolari incredibili tutti i punti salienti della storia dell’alpinismo, dalla sua nascita con la conquista del Monte Bianco nel 1787, fino agli sviluppi più recenti. Con una serie di diapositive di accompagnamento ha ripercorso le vicende di tutte le maggiori personalità della lunga storia dell’alpinismo, citandone le imprese principali e i punti di svolta impressi all’approccio e alle tecniche della scalata. Particolare attenzione ha dedicato agli sviluppi più recenti di questa pratica, sempre a cavallo tra lo sport e lo slancio idealistico e filosofico, dove ormai sembra prevalere in maniera netta la concezione sportiva, che per Spiro ne svilisce l’essenza e porta l’alpinista a forme pericolose di onnipotenza e di mancanza di rispetto nei confronti della montagna. Da uomo di fede e inguaribile romantico, solo un ritorno alle origini può salvare l’alpinismo dall’”attentato” ordito dai nuovi approcci alla montagna.

Alla conferenza hanno partecipato anche Annibale Salsa, Filippo Zolezzi e un altro grandissimo dell'alpinismo, Armando Aste, grande amico di Spiro.

Tavola rotonda "Le nuove alpi, vivere la montagna oggi"

La prima giornata del festival ha avuto uno dei suoi momenti principali nella tavola rotonda "Le nuove alpi", a cui hanno partecipato personalità del calibro di Annibale Salsa, Enrico Camanni, Spiro dalla Porta Xydias, Marcello Mazzucchi e del sindaco di Vallarsa, Geremia Gios.

Oggi è possibile vivere le Alpi? Questa la domanda centrale di questo importante incontro.

Il primo intervento è quello di Enrico Camanni, giornalista, alpinista e scrittore di molti saggi sulla montagna, tra cui La nuova vita delle alpi (Bollati Boringhieri, 2002) è senza dubbio il più affine alle tematiche della serata. Nel suo intervento ha evidenzato la necessità, per chiunque viva nell’ambiente alpino, di mettersi in gioco completamente, in un momento di snodo storico importante come questo, senza chiudersi su sé stessi, cercando di tutelare unicamente tradizioni che rischierebbero di diventare usanze da cartolina, né di contro appiattirsi sulle necessità di chi, proveniente dalla città, desidera trovare esattamente gli stessi servizi e le stesse comodità durante la sua settimana bianca. Chi vive in montagna deve essere in grado di scegliere cosa debba essere salvaguardato ad ogni costo e cosa invece sia più conveniente cambiare o reinventare per poter vivere al meglio l’ambiente alpino. Allo stesso tempo è necessario mantenere uno sguardo il più possibile unitario e di insieme su tutto l’arco alpino e le sue problematiche, per evitare di cadere nella facile trappola del localismo, che non farebbe altro che frantumare ulteriormente l’ambiente sociale montano, indebolendo la capacità decisionale delle popolazioni.

La parola passa poi a Geremia Gios, sindaco di Vallarsa e professore di Economia e estimo rurale alla facoltà di Economia di Trento. Il suo è un intervento maggiormente incentrato sull’economia del territorio e sulla necessità, da parte della popolazione delle zone alpine di aver voce in capitolo nelle scelte che ne interessano l’ambiente e la vivibilità. Le alpi, infatti, sono zone dove demograficamente la popolazione cresce a ritmi superiori rispetto alla media del singolo stato, a dimostrazione di una vitalità dell’ambiente, ma sono zone che subiscono una forte emigrazione successiva nel caso in cui il centro decisionale non fosse anch’esso inserito nell’arco alpino (come ad esempio nei casi di Svizzera, Val d’Aosta e Trentino). Per poter vivere bene in montagna è quindi necessario riappropriarsi del proprio territorio, poterlo gestire in autonomia e non dovendo ubbidire a logiche di mercato che vedono sempre favoriti i grandi centri urbani, e puntare sulle nuove tecnologie, per poter creare nuovi posti di lavoro in grado di catalizzare le fasce più giovani della popolazione, incentivandole a rimanere.

L’intervento di Marcello Mazzucchi, professore di Ecologia presso la facoltà di Ingegneria Ambientale di Trento, è dedicato alla gestione ambientale delle alpi, trentine in particolare. Negli ultimi anni il trasferimento verso i centri urbani della gran parte della popolazione montana ha interrotto quelle che erano tradizioni millenarie di gestione del territorio. I pascoli, non più sfruttati, si sono rapidamente rimboschiti, riportando il paesaggio alpino alla sua forma naturale, quella cioè di un’unica grande foresta. Per ritornare a vivere la montagna è quindi necessario ripristinare quelle modalità di sfruttamento delle risorse ambientali che facevano del paesaggio di montagna un paesaggio antropizzato, vissuto e modellato dall’uomo, in grado di soddisfare i suoi bisogni.

Il quarto intervento è quello di Annibale Salsa, ex presidente del CAI e della convenzione delle Alpi e grande esperto di antropologia delle alpi. Il suo intervento si riallaccia a quanto detto precedentemente da Camanni, e si concentra principalmente sulla crisi profonda del modello di vita industriale- cittadino che ha dominato per tutto il ventesimo secolo. Una crisi che può restituire alla montagna lo spazio che ha progressivamente perso con la nascita degli stati nazionali, che hanno creato frontiere dove prima c’erano confini, lacerandone l’unità e dividendone il territorio. La montagna può e deve riprendersi gli spazi di libertà e di manovra che ha sempre avuto, recuperando la mobilità interna che ha garantito alle popolazioni di convivere pacificamente, incontrandosi e mescolandosi. Soprattutto la montagna deve riuscire a elaborare nuovi modelli sociali, unendo ciò che di buono ha da offrire la tradizione e la modernità, per poter uscire dalla sudditanza nei confronti della città e ricominciare ad essere un luogo vissuto pienamente.

La tavola rotonda si conclude con l’intervento di Spiro dalla Porta Xydias, grande alpinista, presidente del GISM e scrittore di montagna prolificassimo, che affronta il lato romantico e spirituale della montagna. Citando numerosi esempi (come l’Olimpo per i greci, o i templi indiani, che in sanscrito sono sinonimi di montagna) mostra come la montagna sia sempre stata per l’uomo la naturale sede del divino, un punto di contatto tra cielo e terra. E come la conquista della vetta sia per l’alpinista una sorta di purificazione spirituale, un momento di elevazione indescrivibile nella sua essenza più profonda. Tematiche che verranno approfondite nella terza giornata del festival, con la conferenza da lui curata “Attentato all’alpinismo”.

giovedì 7 ottobre 2010

Presentazione della nuova edizione de "La prova del fuoco" di Carlo Pastorino

Nella seconda parte del pomeriggio di domenica 22 agosto, dopo la conferenza di presentazione dei lavori del Trincerone è stato il momento della presentazione della nuova edizione del capolavoro di Carlo Pastorino “La prova del fuoco” (Egon, 2010). La conferenza di presentazione del volume è stata tenuta da Francesco De Nicola, Paolo Ottonello, Geremia Gios, Mario Martinelli, Gregorio Pezzato e da Carlo Pastorino.

La conferenza di presentazione inizia con un po’ di ritardo dovuto agli strascichi delle discussioni estive sui lavori al Trincerone e alle dovute e necessarie spiegazioni dei lavori stessi da parte del pool di esperti che vi hanno preso parte. L’occasione è molto importante: viene ripresentato al pubblico in una nuova edizione un grande capolavoro dimenticato della letteratura sulla Prima Guerra Mondiale, “La prova del fuoco” di Carlo Pastorino. La nuova edizione è stata curata da Egon (http://www.egonedizioni.it/catalogo/egon/La%20prova%20del%20fuoco.html), con postfazione di Francesco De Nicola, che ha introdotto la conferenza. Grande esperto di letteratura sulla Prima Guerra Mondiale, De Nicola ha introdotto al pubblico questo autore, vallarsero d’adozione, che nei luoghi del festival ha lasciato un’impronta nella memoria che ora rischia di perdersi, parlando della sua formazione, delle sue origini contadine mai dimenticate, origini che gli hanno dato quella straordinaria capacità di descrivere i paesaggi con pochi ma emozionanti particolari.

Il libro è un racconto vivido e essenziale, quasi un diario dell’anno di guerra combattuto da Carlo Pastorino, ligure di Masone, sulle montagne della Vallarsa, tra il 1916 e il 1917, prima di essere catturato dagli austriaci e rinchiuso in un campo di prigionia. Come dirà poi Gregorio Pezzato, si può leggere nelle pagine del libro il legame viscerale che Pastorino instaurerà con la Vallarsa, che diventerà una sorta di nuova terra natale, dopo le terribili prove che la guerra imporrà a lui e a tutto il suo battaglione. Tutto, dai fatti minori a quelli più violenti, è descritto con pochi, ben misurati particolari, senza indulgere in facile retorica, restituendo un immagine vivida e vera dell’esperienza della vita di trincea e della guerra di montagna, come hanno saputo fare pochi altri autori, sia in Italia che nel resto dell’Europa. Anche per questo l’operazione di riedizione di Egon, sponsorizzata fortemente dall’associazione Tra le rocce e il cielo, è estremamente importante, perché permette di riproporre al pubblico un libro di eccezionale valore che rischiava di venir dimenticato, per via di logiche editoriali spesso legate solo al profitto e non al valore dei libri.

Alla conferenza hanno preso parte anche i discendenti dello scrittore, tra cui il suo omonimo Carlo Pastorino, oltre al sindaco Paolo Ottonello e all’assessore alla cultura del comune di Masone, contribuendo a descrivere le molte somiglianze tra i luoghi natii di Pastorino e la Vallarsa. Somiglianze che hanno senz’altro contribuito a creare e rinsaldare il fortissimo legame di Pastorino con queste terre, che verranno poi rivisitate con regolarità dopo il suo ritorno dalla prigionia.

lunedì 4 ottobre 2010

Commemorazione di Claudio Barbier

Sabato è stato il giorno della commemorazione del grande alpinista Claudio Barbier, morto giovanissimo nel 1977. Alla presentazione del libro “La via del drago” di Anna Lauwaert sono accorse numerosi grandi alpinisti, fra cui il grande amico di Claudio, Frank Boeye, Fausto de Stefani, Armando Aste, Spiro Dalla Porta Xydias, Alberto Dorigatti, Loredana Giongo, Alberto Montanari, Bepi Pellegrinon, Franco Perlotto, Heinz Steinkötter e il presidente dell’Alpine Club inglese, John Porter.

Tutto il pomeriggio della giornata di sabato 21 agosto è stato occupato dalla presentazione del libro di Anna Lauwaert, intitolato “La via del drago” (edizioni Vivalda), e dalla successiva conferenza in memoria di Claudio, moderata da Mirella Tenderini. È stato un pomeriggio ben distante, però, da una fredda e distaccata commemorazione, come spesso succede a molti anni dalla morte di una grande personalità, dove la maggior parte degli invitati non ha più niente da dire sul personaggio o lo conosceva talmente poco da poter solo accennare a qualche piccolo fatto. Fin dalle pagine del libro di Anna Lauwaert si capisce che saranno ore dedicate a chiacchierare sull’uomo Claudio Barbier, al di là delle immagini stereotipate del mito dell’alpinismo.

Nel suo libro Anna ci da una visione nuova di Claudio, lontana come detto da stereotipi e false mitologie, raccontandone tutti i piccoli episodi che contribuiscono a darne un’immagine viva, che solo una persona che come lei ha condiviso tutti i momenti più intimi per lungo tempo può fare.



Il dibattito che poi si è aperto ha coinvolto tutti gli ospiti, che si sono divisi in gruppetti di 3- 4 per poter essere presenti tutti sul palco e poter parlare di Barbier. Anche in questo caso non c’è stato alcun formalismo, e i racconti dei presenti sono stati tutti molto coloriti, a partire da quelli del grande amico Frank Boeye, incentrati sul “viveur” Barbier e sul suo lato simpatico e spaccone.

mercoledì 29 settembre 2010

Presentazione al pubblico dei lavori di restauro del "Trincerone"

La giornata di domenica si è aperta con la presentazione in anteprima al pubblico dei lavori di restauro in corso d’opera sul “Trincerone” del monte Zugna, con la visita guidata da Tiziano Bertè. Successivamente i lavori sono stati presentati in una conferenza dallo stesso Tiziano Bertè e dai responsabili dei lavori, Giorgio Campolongo e Alessandro Andreolli.



Nei giorni precedenti l’inizio del festival, si è molto parlato dei lavori di restauro delle opere belliche sui monti Zugna, Pasubio, Testo e Corno Battisti, con particolare accanimento contro l’impostazione dei lavori sul Trincerone del Monte Zugna. Il festival, dunque, è stata la miglior occasione possibile per permettere ai curatori del restauro di mostrare al pubblico, in anteprima assoluta, quali siano gli effettivi risultati (peraltro ancora parziali, visto che i lavori continuano tuttora) di questi tanto criticati lavori di recupero. La giornata di domenica 22 si è quindi aperta con l’escursione nei cantieri del restauro per una visita guidata da Tiziano Bertè, uno dei massimi esperti del Museo della Guerra di Rovereto. La visita di due ore ha permesso al pubblico di potersi fare una propria idea del valore e dell’impatto del restauro, chiudendo così la querelle che ha lungamente tenuto banco sui giornali locali, le cui critiche non avevano ancora potuto essere verificate o invalidate da nessuno, essendo i cantieri ancora chiusi ai visitatori.


I lavori sono poi stati illustrati con più calma e precisione durante una conferenza tenuta dallo stesso Tiziano Bertè e dai responsabili dei lavori Giorgio Campolongo e Alessandro Andreolli. La tanto criticata “colata di cemento” è stata quindi contestualizzata nell’ottica di un recupero dell’opera bellica che facesse si che ciò che si era conservato potesse preservarsi nel tempo (opera necessaria visto il cattivo stato di conservazione in cui era stato trovato il Trincerone dopo lo scavo) e contemporaneamente permettesse di riconoscere subito la parte restaurata dalla parte originale. Un restauro che non copiasse quindi l’originale, ma solo una messa in sicurezza di quello che si era salvato della trincea, con una ricostruzione chiaramente distinguibile dall’originale di come sarebbe stata la forma delle feritoie grazie all’aggiunta di una parte in cemento armato che garantisse la solidità e la durata dell’opera. Nessun intento “ricostruttivo” quindi, ma semplicemente un restauro in cui la parte inserita fosse subito visibile per non creare un “falso antico”.

giovedì 23 settembre 2010

Culture minoritarie e toponomastica

La giornata di venerdì 20 agosto si è aperta con la importante conferenza “Cultura minoritaria e toponomastica”, con Annibale Salsa che ha introdotto l’argomento e moderato gli interventi dei numerosissimi rappresentanti delle culture minoritarie che hanno accettato l’invito di Tra le rocce e il cielo.


Il tema della conferenza è stato senza dubbio uno dei principali punti caldi politici dell’estate trentina, dopo le affermazioni pesanti del ministro Raffaele Fitto che aveva intimato la rimozione dei cartelli stradali in sola lingua tedesca in Alto Adige, rendendo necessaria una traduzione anche in italiano. L’intervento introduttivo di Annibale Salsa è stato quindi estremamente illuminante e prezioso per comprendere quello che dovrebbe essere l’approccio corretto alla problematica della toponomastica locale.

Per prima cosa, l’ex presidente del CAI e della Convenzione delle Alpi ha infatti distinto nettamente tra punto di interesse turistico (per il quale è necessario renderne rintracciabile la posizione da quante più persone possibile, traducendo i cartelli non solo in italiano, ma anche in inglese se necessario) e luogo di interesse locale (come ad esempio il nome della cima di una montagna nota solo nella zona, piuttosto che il nome di una malga, ecc.) di cui quasi sempre non esiste una traduzione in altre lingue o se esiste è una pura artefazione fatta spesso in epoca fascista.

Successivamente ha portato come esempio di perfetta armonia tra diverse culture l’esperienza secolare dello stato svizzero. In Svizzera, infatti, non esiste una lingua e dunque una toponomastica “ufficiale”, ma esistono solo toponimi “vissuti”, cioè scritti nella lingua parlata dalla popolazione stanziale nella data regione. Non esiste infatti una lingua ufficiale affiancata da alcune lingue minoritarie, ma tutte le lingue riconosciute dalla confederazione elvetica hanno pari diritto di cittadinanza e divengono lingua ufficiale nella zona in cui sono effettivamente parlate. I toponimi non vengono di conseguenza tradotti a meno che non abbiano una rilevanza nazionale ed extra-nazionale che ne renda necessaria l’identificazione (i punti di interesse turistico, appunto, oppure le segnalazioni di luoghi pubblici come municipi). Solo uscendo da una logica di cultura maggioritaria e minoritaria e iniziando a pensare alle lingue come a qualcosa di legato al territorio ed alla gente che le parla e le vive si potrà uscire dall’attuale gioco di potere che vede la cultura “dominante” cercare di cancellare il più possibile tutte le tracce di identità locali differenti.

Dopo questa doverosa e preziosa introduzione, sono iniziati gli interventi dei rappresentanti delle numerose culture minoritarie, che hanno esposto le proprie esperienze dirette di gestione della toponomastica locale e hanno messo in luce come i toponimi possano essere preziosissimi indizi per poter ricostruire la storia linguistica di una zona. Partendo dalla radice etimologica di un toponimo e riuscendo a individuarne la radice in una data lingua si può infatti ricostruire quali popolazioni abbiano abitato un certo luogo e quali tracce di sé abbiano lasciato. Il toponimo è un qualcosa di legato al luogo ed alla lingua di origine, e la sua traduzione, qualora non già presente, è sempre e comunque una inutile e dannosa forzatura.

mercoledì 25 agosto 2010

Tirando le somme di questa seconda edizione...


Dopo i quattro intensissimi giorni del festival “Tra le rocce e il cielo”, e dopo qualche giorno di tranquillità per riordinare le idee è ora di tirare le somme di quello che è stata questa seconda edizione.

Il salto di qualità che la manifestazione ha avuto è stato evidentissimo e incredibilmente rapido. Da un festival a gestione familiare, con tante idee alla base, ma con pochissime risorse di cui poter disporre, si è passati a una manifestazione dal respiro molto più ampio, in grado di convogliare in Vallarsa un gran numero di personalità di alto profilo provenienti da tutta Europa.

La risposta che abbiamo ottenuto, dalla popolazione della valle come dalle istituzioni sia locali che provinciali ci hanno dato un nuovo slancio e la convinzione che il progetto abbia un futuro davanti a sé, e che già dalla prossima edizione si possa fare un ulteriore passo in avanti, aprendoci a nuove tematiche (economia di montagna) e ampliando a tutto il mondo il confronto su cosa significhi vivere la montagna. Se la prima edizione è stata un test preliminare, questa seconda è stata una prova generale per quello che sarà in futuro una manifestazione di questo genere, che vuole far convivere eventi in grado di catalizzare tantissimo pubblico, come lo sono stati la proiezione di “Kaiserjager” o la serata di poesia, ed eventi estremamente specialistici e di nicchia, come ad esempio lo è stata la mattinata dedicata alla toponomastica. Un festival che vuole dare una visione sempre più ampia della vita in montagna, rimanendo però contemporaneamente ancorato al territorio che la ospita, vicino alla gente di Vallarsa.

Dalla tavola rotonda sulla vita nelle Alpi, la giornata inaugurale, all’ultima giornata dedicata alla storia, con le presentazioni dei lavori del Trincerone sul monte Zugna e della nuova edizione del libro di Carlo Pastorino “La prova del fuoco”, siamo convinti di aver trovato una formula vincente per presentare ad un pubblico sia di appassionati sia di neofiti, cosa voglia dire vivere la montagna e siamo molto contenti del risultato di interesse che abbiamo avuto sia da parte del pubblico presente agli eventi sia da parte degli abitanti stessi della Vallarsa.

Questa edizione ha visto l’aggiunta di una giornata di festival e nuove importantissime collaborazioni, su tutti Spiro dalla Porta Xydias, con la sua sterminata cultura legata all’alpinismo e alla scrittura di montagna, Filippo Zolezzi, ideatore dei premi Alpinia e profondo conoscitore della scrittura e editoria di montagna, Annibale Salsa, moderatore della conferenza sulla toponomastica, preziosissimo consulente scientifico e dalla prossima edizione pienamente inserito nel comitato organizzatore. La prossima edizione, che sia l’anno prossimo o fra due anni (tutto dipenderà dal carico di lavoro che l’organizzazione dovrà sobbarcarsi e dai mezzi di cui potremo disporre), vorrebbe essere ancora più grande, molto probabilmente con una giornata in più, da dedicare a temi di economia montana. Dopo qualche giorno di meritato riposo, ci butteremo di nuovo a capofitto nella progettazione della prossima edizione del festival, convinti che sarà seguita con lo stesso affetto e la stessa partecipazione emotiva. Grazie tante a tutti!

Sul blog verranno pubblicati mano a mano estratti video e articoli legati a quello che è successo nelle quattro giornate del festival, in ordine sparso. Chi non è stato presente agli eventi potrà farsi un’idea di cosa sia “Tra le rocce e il cielo”, sperando che di tutto il materiale registrato si possa ricavare un DVD al più presto.

Grazie ancora a tutti coloro che hanno assistito a uno o più eventi di questo festival e a tutte le istituzioni che ci hanno permesso di realizzarlo e di dargli la forma che ha avuto!

venerdì 20 agosto 2010

ATTENZIONE: CAMBIO DI LUOGO PER LA COMMEMORAZIONE DI CLAUDIO BARBIER

LA COMMEMORAZIONE DI CLAUDIO BARBIER, CON INIZIO ALLE ORE 15.30, INIZIALMENTE PREVISTA AL TEATRO COMUNALE DI SANT'ANNA, E' STATA SPOSTATA AL "BAITEL DE I ORSI" PRESSO IL CIRCOLO LAMBER, ALLA PISTA GHIACCIO, SEMPRE ALLO STESSO ORARIO!

Proiezione del film "Kaiserjaeger"

Ieri sera alle 21 è stato proiettato l’eccezionale documento “Kaiserjäger”, un filmato girato nel 1916 da una troupe al seguito del Secondo Reggimento dei Kaiserjäger, dal campo di addestramento fino al fronte Trentino del Pasubio. La proiezione è stata accompagnata dalle musiche composte ed eseguite da Francesca Aste con l’ensemble “Musica nel buio” (Klaus Broz, Barbara Broz e Marco Dalpane).


Il successo della proiezione del film “Kaiserjäger”, presentato ieri sera alle 21.00 al Teatro Comunale di Sant’Anna, è andato molto al di là delle aspettative più rosee dell’organizzazione. Una folla di più di 500 persone si è raccolta attorno al Teatro, obbligando l’organizzazione, per ragioni di sicurezza, a non permettere di entrare a numerose persone. La prima visione del film, con l’eccezionale accompagnamento delle musiche composte per l’occasione da Francesca Aste, ed eseguite dalla stessa autrice e dall’ensemble “Musica nel buio” ha ricevuto minuti di applausi da tutta la sala. Moltissimi si sono poi fermati anche per la seconda visione del film, riproposto nella sua versione integrale, accompagnata dal commento dell’ultimo reduce del Secondo Reggimento dei Kaiserjäger, doppiato in italiano per l’occasione.


Ringraziamo tutti coloro che hanno seguito il film, e ci scusiamo con chi non ha potuto assistervi per le già citate ragioni di sicurezza, sperando che, visto il successo, possa essere riproposto in futuro in Vallarsa o in altri contesti!

Inaugurazione ufficiale della seconda edizione del festival "Tra le rocce e il cielo"

Ieri alle 16.00 è iniziata a tutti gli effetti la seconda edizione del Festival “Tra le rocce e il cielo”, con l’inaugurazione tenutasi al Teatro Comunale di Sant’Anna. Tanto imprevista quanto gradita è stata la presenza del Presidente della Provincia di Trento Lorenzo Dellai, che ha tenuto a battesimo questa nuova edizione, assieme all’Assessore Franco Panizza, con parole estremamente lusinghiere.


“Questa è un’iniziativa nuova e non tradizionale e sono rimasto subito molto incuriosito quando mi è stato presentato il progetto. La Vallarsa, poi, è un teatro perfetto per una manifestazione innovativa come questa, essendo da sempre un vero e proprio laboratorio di sperimentazione per la provincia, un banco di prova per le possibili soluzioni alla crisi che affligge la montagna. Ci ha molto colpito l’idea di mettere assieme tutti gli aspetti della vita nell'ambiente montano, dalla tutela delle lingue minoritarie allo sviluppo sostenibile, dalla storia all’alpinismo, agli scrittori e artisti di montagna, e credo che sia proprio questa visione a tutto tondo il segreto per poter maturare un nuovo punto di vista su tutte le problematiche aperte. La concezione profondamente “glocal” di questo festival, una visione nuova, orientata alla discussione sui temi aperti di una realtà locale, ma analizzate da un punto di vista globale, credo sia molto importante e preziosa, in un momento difficile e di passaggio come questo.”


Ringraziamo il Presidente Dellai per le sue parole e speriamo che la collaborazione appena inaugurata con la Provincia di Trento possa essere lunga e proficua. Ringraziamo anche l'assessore Panizza, il sindaco di Vallarsa Geremia Gios, l'assessore alla cultura del comune di Vallarsa Ornella Martini, il presidente del TrentoFilmFestival Egidio Bonapace e il presidente della SAT Piergiorgio Motter per la loro presenza e per le loro parole di elogio nel presentare questa edizione del Festival.

mercoledì 18 agosto 2010

ATTENZIONE: MODIFICA ORA E LUOGO DI PROIEZIONE DEL FILMATO "KAISERJAEGER"

MODIFICA DI LUOGO E ORARIO DELLA PROIEZIONE DEL FILM KAISERJAEGER

La proiezione del film "Kaiserjaeger", con accompagnamento musicale dal vivo scritte da Francesca Aste ed eseguite da Francesca Aste, Klaus Broz, Barbara Broz e Marco Dalpane, inizialmente prevista per le ore 20.30 di giovedì 19 agosto 2010 al "Baitel de i orsi" a Riva di Vallarsa è stata spostata alle ore 21.00 al Teatro Comunale di Sant'Anna.

martedì 17 agosto 2010

ALBERTO MONTANARI SULLA "VIA DEL DRAGO"

Riceviamo questo pezzo da Alberto Montanari, che parteciperà sabato pomeriggio all'evento Barbier. Contiene interessanti riflessioni sulla figura del grande alpinista, precursore del free climbing.

Quando mi è stato chiesto di scrivere i miei pensieri su Claudio Barbier mi sono chiesto “perchè?”. Per quale motivo i miei pensieri dovrebbero interessare? Io sono solo un appassionato di montagna, neppure troppo audace. Arrampico sul quarto grado con un po' di quinto, le vie di Armando Aste sono per me solo sogni, e tali resteranno. Certo, la mia passione mi porta a leggere tanti libri di montagna, tante guide di arrampicata, ma da qui a formare un parere autorevole ce ne passa. Pensa che ti ripensa, ho concluso che io sono proprio un arrampicatore come tanti e che, forse, solo questo posso scrivere: le impressioni che Claudio Barbier ha suscitato in un uno come tanti.

Eppure, devo dire che per me Claudio Barbier è stato un'ispirazione molto importante. Sarà perchè anche a me ogni tanto piaceva andare solo, ma questo grandissimo solitario mi ha affascinato subito. Quando poi ho letto quel capolavoro che credo sia “La Via del Drago” mi si è aperto un mondo su questa persona, tanto che adesso mi sembra quasi di averlo conosciuto personalmente (mentre in realtà ho iniziato ad arrampicare 10 anni dopo la sua scomparsa). Credo che Claudio Barbier abbia lasciato un segno importante dal punto di vista tecnico. Il suo aspetto di distinzione sono state le grandi solitarie sulle grandi pareti. Il concatenamento in solitaria delle cinque Nord di Lavaredo nel 1961 è stata un'impresa di altissimo spessore, per di più in anticipo sui tempi.

Al di là, però, dell'aspetto tecnico, io credo che la grandezza di Barbier sia soprattutto legata al suo “io”, che adesso conosciamo grazie a “La Via del Drago”. Credo che un carattere comune agli alpinisti della fine anni sessanta e anni settanta sia la loro “trasparenza”, ovvero la loro frequente disponibilità a manifestare le proprie motivazioni, i propri pensieri ed i propri dubbi. Questo non accadeva altrettanto frequentemente prima di allora. Degli alpinisti precedenti conosciamo ogni dettaglio delle loro imprese, conosciamo gli aspetti tecnici, ma non conosciamo bene i loro pensieri, le loro paure, i loro interrogativi. A partire dalla fine degli anni sessanta, invece, gli alpinisti perdono il timore di rivelare il proprio io. E noi, soprattutto le persone comuni come me, li vediamo più vicini, più simili a noi.

Ecco, io ho provato questo leggendo “La Via del Drago”: ho sentito Barbier vicino a me, ho potuto confrontare le sue paure e le sue ansie con le mie. Penso che Barbier fosse una persona normale, che viveva l'alpinismo ponendosi gli importanti interrogativi che anche l'alpinista dilettante si pone, talvolta vivendo grandi contraddizioni interne. Tuttavia, grazie al suo impegno, grazie ad una buona dose di grinta ed anche grazie alla sua condizione agiata è riuscito e lasciare un segno indelebile sulle montagne e, soprattutto, sugli arrampicatori. Io credo che ciò sia fondamentale per capire il personaggio Claudio Barbier: concentrare l'attenzione sul suo messaggio umano, piuttosto che sul segno lasciato sulle montagne.

Dopo aver letto il libro “La Via del Drago” ho maturato il desiderio di ripetere la vera Via del Drago. Era un desiderio circondato da timore, perchè le difficoltà sono un po' troppo alte per me. Dopo un primo tentativo naufragato a pochi metri da terra, io e il mio socio siamo tornati nell'agosto del 1998. Il giorno prima aveva fatto un forte temporale, la parete era fredda ed eravamo soli. Che giornata, che ammirazione per lo spirito di chi aveva pensato di salire per di li'. Quando fummo nel bel mezzo del traverso un escursionista dal basso ci chiese quale via stavamo ripetendo. Il mio compagno urlò fortissimo, nonostante non ce ne fosse bisogno perchè le montagne erano deserte: “Via del Drago!”. In quel momento mi sono sentito vicinissimo a Claudio Barbier.

Alberto Montanari

lunedì 16 agosto 2010

11 AGOSTO 2010, CONFERENZA STAMPA TRA LE ROCCE E IL CIELO: ECCO I VIDEO



Si è svolta mercoledì scorso, presso la sala della Fondazione CARITRO a Trento, la conferenza stampa di presentazione del festival TRA LE ROCCE E IL CIELO (Vallarsa, 19-22 agosto 2010).
Sul sito della manifestazione sono ora visibili i VIDEO della mattinata.

Nell'occasione è stato presentato il programma della manifestazione, che Mario Martinelli, uno degli organizzatori, ha definito "un'opportunità per riunire i veri amanti della montagna a riflettere sui grandi cambiamenti che le Alpi affronteranno nei prossimi anni", mentre Fiorenza Aste ha parlato di "montagna consapevole" quale filo conduttore che accompagnerà tutte e quattro le giornate di quella che è stata definita "la festa di chi la montagna la ama davvero".

Numerosi i protagonisti intervenuti ad anticipare quel che avverrà sul palcoscenico verde della Vallarsa: il Presidente dell'Accademia della Montagna Egidio Bonapace, insieme alla neo Direttrice Iva Berasi, hanno augurato un buon lavoro all'organizzazione di TRA LE ROCCE E IL CIELO, delineando nel contempo le direttrici che guideranno il lavoro del nuovo istituto: non tanto un nuovo ente, destinato a sovrapporsi ad altre organizzazioni già presenti sul territorio, quanto piuttosto una casa comune di tutti coloro che si impegnano per la salvaguardia e la valorizzazione della montagna. Un punto di snodo e di contatto dunque, deputato a coordinare e a facilitare la comunicazione fra gli organismi già operanti in Trentino.

L'antropologo Annibale Salsa, ex Presidente Generale del CAI, ha ricordato la tavola rotonda di giovedì 19 agosto, che lo vedrà impegnato, assieme a Enrico Camanni, Geremia Gios, Marcello Mazzucchi e Spiro Dalla Porta Xydias, a discutere delle trasformazioni che la globalizzazione e i cambiamenti climatici stanno imprimendo ai nostri monti. Salsa, che interverrà anche nel convegno CULTURA MINORITARIA E TOPONOMASTICA di venerdì 20, ha segnalato questa occasione come momento di riflessione sulla questione dei toponimi in lingua minore, che sta animando le cronache dopo l’ingiunzione del ministro Fitto di esporre nomi di località bilingui sui sentieri di montagna.

Andrea Nicolussi Golo, scrittore e collaboratore dell'Istituto Cimbro di Luserna, ha raccontato la genesi del proprio libro "Guardiano di stelle e di vacche", ed. Biblioteca dell'Immagine, che sarà presentato venerdì 20 pomeriggio, durante la giornata dedicata alle minoranze linguistiche. Il libro, che contiene una preziosa introduzione di Mario Rigoni Stern, probabilmente l'ultimo documento pubblico del grande scrittore, racconta la vita della gente dell'altipiano in tempi recenti, eppure resi ormai distanti dai cambiamenti di costumi avvenuti negli ultimi trent'anni.

Bepi Magrin, colonnello degli Alpini, scrittore e alpinista, insieme a Carlo Martinelli, scrittore, caporedattore del Trentino, hanno presentato l'evento di sabato 21 mattina, durante il quale gli scrittori proporranno le proprie opere dedicate alla montagna; e ha colto l'occasione per sottolineare l'unicità del teatro naturale in cui si svolgerà il festival. Le Piccole Dolomiti, monti impervi e appartati, sono infatti un vero gioiello della natura, tuttora poco conosciuto dagli amanti della montagna.

A Gigi Zoppello, giornalista e poeta, è toccato il compito di illustrare la serata di venerdì 20, organizzata dall'associazione QUOTAPOESIA - ATLETICO POETI TRENTO, che vedrà FRANCO LOI, il famoso poeta dialettale milanese, quale ospite d'eccezione, insieme a un folto gruppo di giovani poeti nazionali. Zoppello ha presentato anche il concerto di inaugurazione della manifestazione, che si terrà giovedì 19 sera, composto da Francesca Aste appositamente per l'occasione. Il quartetto composto da Marco Dalpane, Klaus e Barbara Broz e dalla stessa Aste accompagnerà le scene di un rarissimo filmato d'epoca: "Kaiserjäger", un documentario di un'ora e mezzo, realizzato dall'Esercito Austro-Ungarico sul fronte del Pasubio durante gli ultimi due anni della Grande Guerra.

E alla Grande Guerra è collegato infine un altro degli eventi qualificanti della seconda edizione di TRA LE ROCCE E IL CIELO: la riedizione del libro di Carlo Pastorino "La prova del fuoco" per i tipi di Egon - Emanuela Zandonai Editore. Pubblicato per la prima volta nel 1926, il romanzo ricevette un’accoglienza calorosa da parte della critica, e totalizzò, nell’arco di sessant’anni, una trentina di edizioni, l’ultima delle quali, della Marietti, risale al 1989. Ora, finalmente, dopo quasi trent'anni, LA PROVA DEL FUOCO torna a vedere la luce: "vibrando con la medesima forza dei capolavori di Fenoglio e Rigoni Stern, le sue pagine ci restituiscono le cose vere e della guerra nella loro cruda, eloquentissima essenza."

sabato 14 agosto 2010

Francesco De Nicola a proposito della ripubblicazione de "La prova del fuoco" di Carlo Pastorino

Abbiamo intervistato Francesco De Nicola per raccogliere le sue impressioni a proposito della ripubblicazione del libro di Carlo Pastorino "La prova del fuoco", riedito da Francesca Zandonai Editore, Rovereto, 2010.


Dopo quasi un secolo dalla fine della Grande Guerra, che senso ha il recupero di un testo come “La prova del fuoco”?

Certamente questa ristampa de “La prova del fuoco” di Carlo Pastorino, ad opera della casa editrice Zandonai di Rovereto, è un’operazione molto importante. “La prova del fuoco” è uno dei testi chiave della letteratura italiana sulla Prima Guerra Mondiale, un libro che ha avuto l’attenzione di generazioni di scrittori e lettori. È un'opera che ha avuto una lunga gestazione e una riedizione fortemente riveduta nel 1931, rispetto alla prima edizione del ’26, una riedizione che l'ha ulteriormente modificata facendola diventare da opera quasi documentaristica a un romanzo.

Proprio il fatto che sia stato scritto un buon numero di anni dopo la fine del conflitto permette al libro di avere un distacco dagli eventi che altre produzioni, soprattutto in ambito italiano, non hanno. È un libro che racconta la guerra esattamente come è stata, dalla parte di chi l’ha vissuta e l’ha sofferta, in cui il conflitto è narrato in tutta la sua tragedia. Ci sono pagine intrise di dolore e sofferenza, anche macabre, in cui Pastorino usa un linguaggio asciutto ed essenziale, e ci sono pagine di denuncia verso coloro che della guerra si sono approfittati per accaparrarsi delle posizioni di prestigio, come gli episodi del funerale, in cui gli ufficiali ben vestiti fanno barriera davanti ai veri soldati, o le pagine iniziali, in cui i capi di stato brindano assieme alla vittoria, ma solo dopo un lungo e redditizio conflitto. E poi, di fianco alla “lezione di storia” che ci restituisce Pastorino, non di secondaria importanza è la “lezione di geografia” che ci fornisce l'autore, che narra la Vallarsa con accenti che solo un uomo di origini contadine può usare, dimostrando un reale e profondo amore per i posti in cui ha vissuto e combattuto per un anno intero, tra l’estate del ’16 e la fine della primavera del ’17.

È un libro scritto ormai quasi un secolo fa, ma con uno stile asciutto e modernissimo, in cui nessun lettore non può non sentirsi coinvolto direttamente. Sono sicuro che i lettori del 2010 avranno lo stesso livello di interesse che ebbero i lettori del ’26 o del ’31.

“La prova del fuoco” ebbe un grande successo appena uscito, come mai successivamente è stato ricordato meno, rispetto a altri libri dedicati al conflitto?

Se noi pensiamo ai libri scritti sulla Prima Guerra Mondiale in Italia, ci rendiamo subito conto che non sono poi moltissimi, e la maggior parte di loro sono fortemente viziati da una faziosità dovuta al fatto che furono scritti o troppo a ridosso della fine delle ostilità o in pieno fascismo e quindi strumentalizzati dal regime. Poi la fortuna o sfortuna dei libri dipende da moltissimi fattori differenti e spessissimo non prende in considerazione il reale valore dei testi in questione, ma obbedisce a logiche commerciali o di semplice “dimenticanza”. Un esempio su tutti, a parte proprio il libro di Pastorino, può essere “Il soldato Cola” di Puccini, altro libro molto importante e valido, anch’esso fra l’altro scritto nel ’27, quindi un buon numero di anni dopo la guerra, completamente dimenticato e non più in commercio e che sarebbe opportuno ripubblicare.

La prima guerra mondiale ha lasciato un segno indelebile nella storia d’Italia, ma più ancora nella storia personale di chi l’ha combattuta. Cosa può aver significato combattere in prima linea una guerra logorante come quella di trincea, magari in un ambiente ostile come le montagne della Vallarsa?

Per i nostri soldati deve essere stato per prima cosa un’esperienza di totale spaesamento: milioni di giovani provenienti da tutte le regioni italiane si sono improvvisamente trovati spalla a spalla in un luogo completamente alieno, come poteva essere il fronte alpino, in Trentino come in Veneto o in Friuli. È stata innanzitutto un’esperienza di totale alienazione, in cui ci si trovava a convivere con persone che avevano abitudini di vita completamente differenti rispetto alle proprie, che parlavano dialetti mai sentiti prima. Significò per i soldati ritrovarsi uniti per la prima volta sotto la stessa bandiera di uno stato come l’Italia, che aveva appena cinquant’anni di storia alle spalle e che ancora non era stata “fatta” come nazione. Tutto questo spaesamento si può leggere chiaramente nelle parole di Pastorino, nelle descrizioni di soldati come Fenoglio, ragazzo dei bassifondi di Torino, coperto di tatuaggi e con un passato da criminale o in tanti altri piccoli episodi del libro, rivelatori di quanto l’esperienza traumatica della Grande Guerra sia stato il battesimo dell’Italia unita. Si può vedere la Prima Guerra Mondiale come l’ultimo episodio del Risorgimento, come una sorta di dolorosa conclusione del processo di unificazione. Un dolorosissimo episodio, che tutti hanno dovuto subire, ma che non tutti hanno accettato: si possono leggere, infatti, numerosi resoconti di insubordinazione a ordini spesso insensati e crudeli, come quelli raccontati nel capolavoro di Lussu “Un anno sull’altopiano”.

Pastorino è un narratore fedele e non fazioso di un questo processo, nel sottolineare tutte le difficoltà che affondarono i nostri soldati nel sentirsi fratelli in trincea, e tutti i sospetti e i pregiudizi che nacquero. E questo è senza dubbio un altro grande pregio di questo libro.

Sono molti i libri dedicati alla prima guerra mondiale: in mezzo a tutti questi, che posto occupa il libro di Carlo Pastorino? Quali sono le sue peculiarità?

Per prima cosa si deve dire che a differenza della maggior parte degli altri libri sulla Grande Guerra, caratterizzati da una prosa molto datata, “La prova del fuoco” è scritto con un linguaggio e una narrazione moderni e attuali. È una prosa molto efficace nella sua brevità: ogni capitolo è una sorta di racconto breve di un episodio saliente dell’anno di guerra vissuto da Pastorino. È uno stile estremamente essenziale e diretto, in grado di comunicare all’istante quello che l’autore voleva dire, senza inutili giri di parole o ornamenti retorici. Sono le vicende narrate che parlano da sole.

E poi, altrettanto importante, c’è una grandissima onestà di fondo dell’autore, che non fa mai celebrazioni della guerra fini a sé stesse. C’è una denuncia costante delle atrocità della guerra, una denuncia portata con un grandissimo “quoziente di realtà” da Pastorino, un ufficiale che racconta le difficoltà incontrate nel vedere morire i suoi soldati in conseguenza di ordini ricevuti e impartiti anche da lui, ordini ricevuti dall’alto, che non potevano, da buon soldato, essere discussi, ma solamente eseguiti. Nel libro vengono costantemente riproposti gli interrogativi che Pastorino si pone come uomo, interrogativi che sono i propri anche di tutti i potenziali lettori de “La prova del fuoco”.

Il libro alterna momenti di verismo simili allo stile di Lussu, dove gli appartenenti agli eserciti avversi sono visti sostanzialmente come fratelli costretti a combattere da elitè ottuse, a momenti più retorici, incentrati sull’amor di patria e la necessità del sacrificio. I due momenti convivono in Pastorino, o la parte più retorica è più di facciata?

Bisogna ricordarsi che Lussu scrive il suo libro in esilio, quindi in una situazione completamente differente rispetto a Pastorino, e che la sua esperienza di guerra era anch’essa molto differente, avendo militato in un reparto caratterizzato da un comando molto duro e in cui si verificarono moltissimi episodi di sabotaggio. Una componente retorica era un po’ nella necessità di un libro che si rivolgesse ai giovani di allora, un libro che doveva avere un richiamo costante ai sentimenti di amor di patria.

Più che una suggestione di carattere patriottico, però, nel libro si può però avvertire una forte suggestione data dal fatto che Pastorino era un uomo profondamente credente, in cui ogni situazione veniva vista come una prova a cui si era sottoposti da Dio. C’è un’accettazione di una prova che l’uomo deve sottostare e a cui non si può ribellare, su cui si salda la mentalità di un ufficiale ben consapevole che gli ordini non si discutono, ma si eseguono. Ma tutto questo non impedisce all’autore di porsi esplicitamente, a distanza di anni, dei dubbi e degli interrogativi, che al tempo della guerra aveva solamente potuto pensare.

Non mi risulta che Pastorino abbia subito suggestioni o pressioni dall’ambiente del regime (cui è stato sempre estraneo ed alla fine apertamente avverso) che ne abbiano condizionato la composizione dell’opera, composizione che va quindi inquadrata nell’epoca in cui è stata scritta e nel suo “spirito del tempo”.

Che persona doveva essere Carlo Pastorino? Cosa si può capire di lui dai suoi scritti?

Pastorino cresce e si forma in un ambiente contadino dell’entroterra ligure, e alternando il lavoro nella fucina per la produzione di chiodi allo studio, riuscirà a laurearsi, costituendo uno dei rari casi di questo tipo dell’Italia di inizio ‘900. Quello che emerge di questa formazione è la sua costante attenzione per la natura, che si ripresenta costantemente nella sua opera.

Nella vita dopo la guerra fu un professore di liceo a Genova, ma conserverà sempre un’attenzione particolare per Masone, il suo paese natale, di cui sarà il primo sindaco dopo la liberazione, dopo essere stato un partigiano. C’è sempre stata una fortissima attenzione per le sue origini e per il contesto naturale e sociale che viene raccontato anche in altri libri come “La prova della fame” e “A fuoco spento”, gli altri due volumi che costituiscono una “trilogia” di Pastorino sul primo conflitto mondiale, cosa che ha fatto apprezzare la sua opera anche ad altri grandi autori come, ad esempio, Mario Rigoni Stern, maestro nella descrizione naturale.

Francesco De Nicola sarà presente al festival "Tra le rocce e il cielo" domenica 22 agosto 2010 alle ore 1645 al teatro comunale di Sant'Anna in occasione della presentazione della nuova edizione del libro di Carlo Pastorino "La prova del fuoco".

CARLO PASTORINO: UN ATTESO RITORNO




In copertina Carlo Pastorino e Salvatore Donzelli sul Corno di Vallarsa, 1917.

E' una grandissima emozione tenere fra le mani questo libro, finalmente ritrovato, dopo più di vent'anni di oblio.

Se ne sta qui, silenzioso, odoroso di carta nuova, nella sua nitida veste chiara, semplice e schietta, come la prosa dello scrittore che lo vergò, ormai quasi ottant'anni fa.

E’ “La prova del fuoco”, di Carlo Pastorino, nella sua nuova edizione Egon - Emanuela Zandonai Editore.

Perché questo libro ci stava così tanto a cuore da spingerci, Mario Martinelli ed io, a cercare per più di due anni, con insistenza e cocciutaggine, un editore disposto a ridargli nuova vita? E non un editore qualunque, di quelli che in questi anni riempiono gli scaffali di volumi stampati al laser destinati a durare due mesi o tre.

No, cercavamo un editore sensibile, colto, capace di comprendere il valore di questo testo, e di dargli la visibilità e la durata che merita.

Il fatto è che vivendo in Vallarsa si ha la sensazione di camminare in mezzo a una folla silenziosa, anche quando si è del tutto soli. Calcando i piedi su questa terra che l'estate illumina di verde e fiorisce di gigli martagoni, si sente con forza la presenza di chi qui ha passato i suoi giorni prima di noi.

E' una piccola valle questa, racchiusa fra il massiccio del Pasubio e quello del Carega, così breve che la si può abbracciare tutta con lo sguardo, da cima a fondo. Pochi abitanti, una manciata di case spruzzate sui suoi fianchi irsuti di boschi e di cuscini di erica. Pochissimo traffico. Molto silenzio.

E così, la mattina, in piedi sulla sommità della collina, sotto i pinnacoli vertiginosi delle Piccole Dolomiti che sembrano così vicini da poterli toccare con le dita, e spaziando con gli occhi per tutta questa terra verde che si distende chiara ai nostri piedi, si fa davvero fatica a credere che qui si siano combattute alcune fra le battaglie più feroci della Prima Guerra Mondiale.

Guardando il colle del Parmesan, laggiù, a poche centinaia di metri, un panettone di terra dalle forme morbide e materne, si deve fare uno sforzo per ricordarsi che lì, fra l’8 e il 12 giugno del 1916, sono morti duemila soldati. Duemila uomini, in soli quattro giorni. Invano, perché l’assalto italiano non mosse le posizioni nemiche che di pochi futili metri.

Poco lontano c’è quello che la gente del posto chiama “il prato dei bottoni”. Il corpi si sono sciolti nella terra, e di loro solo questo è rimasto. Bottoni.

E così si potrebbe proseguire all’infinito. Perché qui ogni anfratto, ogni rotondità, ogni cresta, ogni vallone raduna muto i suoi morti. Decine di migliaia. C’è chi dice centomila. Tutti racchiusi in questo piccolo catino verde.

Ecco perché ci dà grande emozione tenere fra le mani questa nuova edizione del libro di Pastorino. Lui c’era, qui, allora. Ha visto. Ha vissuto. E’ rimasto per mesi tenacemente aggrappato a queste rocce “come le rondini ai cornicioni di una casa”, per usare parole sue. E nonostante quello che ha attraversato sia esperienza da togliere il sonno e la ragione, è riuscito a restituircene un racconto limpido e asciutto. Commosso, spesso. Ma anche estremamente lucido, e capace, nel resoconto nudo dei fatti di guerra, di raggiungere una cruda e essenziale concretezza che ci mette l’orrore ben chiaro davanti agli occhi. “Scagnetti portò una gravina. Presi io la gravina e scavai nello spiazzo sul quale era la tenda. La punta acuminata penetrò in qualche cosa di molle, e un non so che di liquido schizzò su. E col liquido ci investì un orribile fetore. Scagnetti si allontanò, inorridito. – E’ un morto! – gridò, poi, a distanza. Era un nemico. Povero nemico! E io avevo dormito, la notte, sopra di lui. Ora lo ricoprimmo ben bene, con molta terra, e la tenda fu trasportata più in là.”

Così è Pastorino. Senza veli. Senza artifici retorici. Rivelatore, in questo, della sua matrice contadina, non guastata nella sua concretezza dagli studi letterari terminati poco prima che la storia lo precipitasse qui, sugli orli scoscesi di queste rocce. Verso la retorica continuerà a nutrire, del resto, una desolata avversione. Troppo atroce l’evidenza di quel che gli sta sotto gli occhi, per poter sopportare le parole di chi la vela e la imbelletta. “Vieni, leggi qui – mi disse un altro mattino Donzelli. Era una rivista con poesie di guerra: e portavano una firma famosa. Io lessi; egli mi ascoltava tacendo. Tutt’a un tratto scattai e buttai via la rivista. C’era tanta vuotezza in quelle poesie, che noi ci sentimmo colpiti come da un’offesa fatta a noi stessi. (…) C’era in noi l’impressione che il poeta non capisse nulla della guerra, che nulla sentisse; che per lui la guerra altro non fosse che un campo d’immagini nuove, di coreografie impensate, di spettacoli grandiosi: questo, e nulla più. E, chissà mai perché, si correva col pensiero a Nerone e all’incendio di Roma.”


Figlio di contadini, nato a Masone, in Liguria, nel 1887, riesce, nonostante le condizioni umili della famiglia, a compiere con merito gli studi letterari. Porta, nella durissima esperienza degli anni di guerra, questo bagaglio di sensibilità e cultura, che gli darà occhi acuti e commossi nel vedere la miseria della condizione che condivide con i suoi uomini, e con quegli uomini, pochi metri più in là, a cui vien dato il nome di nemici. “La guida si ferma e si batte la fronte. E’ disorientata: non ci capisce più nulla, e non è sicura se camminando così si arriverà mai. Riprendiamo tuttavia a muoverci: con cautela e tastando anche con le mani. Lo star fermi sotto la pioggia è impossibile. La nostra condizione è estremamente pietosa: il freddo va al cuore. Si battono i denti: si è pulcini, miserelli: ogni residuo di forza scompare.” E ancora: “Dalle vette più alte e dalle feritoie delle gallerie vedo anche alcuni versanti dei monti tenuti dal nemico. Osservo i sentieri aperti fra la neve, dove lunghe teorie di puntini neri si muovono. Sono uomini: i nemici. Rimango lì a lungo col binocolo agli occhi; e penso: poveri nemici: essi, là, soffrono come noi, qui. Anch’essi camminano nella neve e anch’essi versano lacrime furtive: e le lacrime si raggelano all’orlo degli occhi. Salgono, lentamente, affaticati: portano pesi sulle spalle: munizioni e viveri. Salgono alla loro linea la quale, a guardare di qui, è visibilissima: è anch’essa simile a una serpeggiante viottola di talpa, a pochi metri dall’altra, la nemica, che è la nostra. Perché noi, per essi, siamo i nemici.”


Eppure, nonostante l’acuta consapevolezza della morte e della distruzione che lo circondano, Pastorino riesce ad attraversare questa disarticolante esperienza senza mai perdere la propria dignità umana. Capace persino, in mezzo a una realtà in cui “tutto mi appare informe, caotico, senza alcuna stabilità”, di vedere la bellezza del mondo che lo circonda, giungendo ad amare profondamente i posti impervi in cui la sorte lo ha costretto a vivere. Così, ad esempio, di ritorno da una licenza a casa: “Al passo delle Dolomiti la neve era altissima. Il camion entrò in una magnifica galleria, aperta in essa; e quando ne uscì, s’era nella Vallarsa. Io la salutai con gioia, la Vallarsa, e mi pareva d’esser tornato a casa mia. Rivedevo tutti i miei monti: erano candidi, e brillavano al sole. Non mi erano mai apparsi così belli.”


E così, mentre con gli occhi seguiamo gli spostamenti di Pastorino lungo i fianchi della montagna

(ecco lì il Trappola, la sua prima tappa all’arrivo; e là sopra il Corno Battisti, dove ha passato mesi arroccato coi suoi uomini, mesi interminabili di durissima prima linea. E là sotto il cimitero militare di Anghebeni, che ha dato origine a pagine intensissime sulla sorte dei poveri, destinati a esser carne da cannone, mentre chi può vive, bene, imboscato nelle retrovie), il cuore ci si stringe per l'emozione, perché sappiamo che ora questo libro è tornato al suo giusto posto. Sugli scaffali delle librerie, nelle scuole, e fra le mani dei lettori. A ricordare, assieme alle opere di Remarque, di Junger, di Lussu, che cosa sia stata veramente la Grande Guerra.


Fiorenza Aste


Foto dall'archivio di Vallechiara di Masone, per gentile concessione della Famiglia Pastorino. Tutti i diritti riservati.

venerdì 13 agosto 2010

CLAUDIO BARBIER: UN CONTRIBUTO DI ALMO GIAMBISI


Riceviamo tramite Filippo Zolezzi, e volentieri pubblichiamo, un contributo di Almo Giambisi sul suo carissimo amico Claudio Barbier. Almo Giambisi avrebbe dovuto essere uno degli ospiti d'onore della giornata di commemorazione di Claudio Barbier; ma il suo lavoro di gestore del rifugio sul Pordoi gli ha impedito di partecipare. Questo messaggio, vergato a mano su otto foglietti di carta a righe, è il suo contributo di stima e di affetto all'amico di tutta una vita, e
verrà letto da Filippo durante il pomeriggio di sabato 21 agosto.

Mi dispiace molto non essere presente alla manifestazione ed in particolare al ricordo di Claudio Barbier.

Ma gli impegni che ho con il rifugio non mi permettono di essere fra voi. A Claudio mi legava una grande amicizia, durata una quindicina di anni: l’avevo incontrato prima di stabilirmi al Passo Pordoi, all’albergo col di Lana, al Rifugio Vaiolet credo nel 1965.

Nel 1967 aveva passato quasi tutta l’estate al Vaiolet e fece diverse vie, alcune nuove, alcune insieme a me.

All’inizio il rapporto non fu facile: aveva un carattere difficile e alternava momenti di grande euforia a momenti di tristezza. Me lo ricordo seduto a un tavolo del bar al Col di Lana con la testa fra le mani a fissare per lungo tempo la montagna attraverso la finestra.

Feci una grossa litigata al ritorno al Vaiolet dopo essere stati in Val Canali, per il brutto tempo non eravamo riusciti ad aprire una via nuova.

Me ne attribuì la colpa per non essere andati prima con il bel tempo; io avevo impegni di lavoro al rifugio, lui aveva tutta l’estate libera.

Ci fu una baruffa al limite delle mani. Poi da quella litigata ci fu un grande accordo.

Forse io ero l’unico tra i suoi amici con cui si confidava, che poteva parlare di tutto, anche dei suoi problemi personali molto delicati. E spesso evitai scontri con alpinisti che non conoscendolo, data la sua fama nell’ambiente, gli facevano delle domande che lui riteneva inopportune.

Di aneddoti da raccontare ce ne sono molti, a volte molto divertenti. Avrei dovuto scrivere più spesso, cosa a me non congeniale.

A volte, quando non andava ad arrampicare scendeva con me a Canazei e ritornando al Passo Pordoi mi capitò di doverlo accompagnare a Peian de Schiavaneis perchè gli dava fastidio l’odore dei sedili della macchina e preferiva salire la Fedele o la Dibona alla Ovest del sass Pordoi, per arrivare all’albergo. E a volte capitò che arrivasse prima lui di me, per alcune soste che facevo da amici prima di arrivare all’albergo.

Il libro che oramai mi accompagna da 40 anni prima al Col di Lana, poi al Rifugio Antermoia fu una sua idea, ritornando da Trento, mentre si pranzava assieme all’albergo mi mise un pacchetto sul tavolo e mi disse Almo questo è un regalo per te.

E così mi trovai tra le mani un diario nuovo, la copertina marrone, bordata in oro, con carta assorbente all’interno.

L’origine di Claudio era di una famiglia borghese, lo si notava in tanti suoi modi di agire e comportamenti.

Al Col di Lana, anche per la presenza di Claudio, cominciarono ad arrivare molti alpinisti provenienti da varie parti d’Italia, molti tedeschi, da Monaco, austriaci e altri. e così cominciai a far firmare il libro a vari alpinisti che venivano al Pordoi. Logicamente lo feci iniziare a Claudio, lui parlava e scriveva diverse lingue, italiano, tedesco, inglese e naturalmente francese.

A volte fu lui stesso che andava a prenderlo in ufficio per farlo firmare, come a Leo Schloner che io non conoscevo. Al Vajolet gli feci conoscere Renato Reali, morto poi a soli 20 anni in solitaria alla Bonatti al Grand Capucin, con lui fece alcune salite, ne restò affascinato. Al Pordoi lo feci incontrare con Giancarlo Milan giovanissimo, fecero diverse salite insieme. Al Pordoi conobbe diversi miei amici con i quali arrampicavo: Alberto Dorigatti, Aldo Leviti.

Con Alberto fece diverse salite, riuscì a capire il personaggio e notavo che fra loro c’era molto affiatamento, al Pordoi incontrò Tone Valeruz non ancora alpinista ma sciatore estremo.

Claudio dal Pordoi si spostava spesso, non aveva ancora la AMI 8, per lui la macchina più adatta per un alpinista girovago che portava tutto con sè.

Prima si spostava con mezzi pubblici, la maggior parte dell’attrezzatura era da me; alcune cose le aveva da Ceci Polazzon, ad Alleghe, altre ancora da Toni Camerano a Vigo di Fassa.

Ma dopo l’acquisto della famosa AMI 8 aveva quasi tutto sulla macchina, il suo recapito

era il Col di Lana al Pordoi, perciò tutta la sua corrispondenza arrivava a me. Scriveva spesso anche per raccontarmi delle sue salite, gli incontri con alpinisti, però lui preferiva le dolomiti. Ma ogni tanto passava dei periodi nelle Alpi Occidentali, aveva stretto amicizia con Lionel Terray per il quale aveva una venerazione.

Di lui ho molte lettere, cartoline, raramente gli scrivevo (come no, sono allergico alla scrittura). Mi telefonava spesso domandandomi molte cose, e specialmente del tempo, e poi se ero libero per arrampicare.

Con un mio amico di Firenze, per anni assiduo frequentatore del Col di Lana, con una grande passione per la montagna, andò sui Torrioni del Pordoi a fare una via nuova non troppo impegnativa. Penso sia stata una delle più belle giornate della sua vita, la chiamarono Via Fiaschi e nella relazione che scrisse disegnò un fiasco di vino. Il cognome del mio amico era Fiaschi Leopoldo, alla sera ci fu veramente una bella festa con fiaschi di vino Chianti!

Claudio era un buongustaio, apprezzava la buona cucina e mangiando amava bere un buon bicchiere di vino, possibilmente tappo sughero.

Un altro incontro importante per Claudio è stato quello con Heini Holzer, lo accompagnai a Merano, io Heini lo conoscevo da molto tempo, essendo meranese, lo andammo a trovare, successivamente, alla morte di Claudio andammo insieme a Bruxelles alla cerimonia funebre. Oltre a Heini, c’erano Alberto Dorigatti, Marino Stenico, e Annetta Stenico. Anche per Heini Claudio aveva una grande stima, si stupiva per la sua solitaria ai camini Rizzi alla Torre Innerkofler al Sassolungo, come è noto Heini era molto piccolo.

In un viaggio che feci con la mia ex moglie e nipote di Tita Piaz a Bruxelles, andammo a trovare Claudio. Mariangela aveva scritto in precedenza a Re Leopoldo del Belgio, che aveva arrampicato con Piaz. Ricevemmo l’invito per incontrarlo nel suo castello di Argenteil.

Claudio ci accompagnò per farci da interprete ed il Re stesso voleva conoscerlo, aveva sentito parlare delle sue imprese in Dolomiti. Durante l’incontro, che durò un pomeriggio, ci fece vedere foto e diapositive delle salite sue e del padre Re Alberto che come noto morì in palestra a Mache Le Dam in Belgio.

In quell’occasione Claudio perse l’opportunità di accompagnarlo in uno dei suoi viaggi, il re ci disse che viaggiava spesso con Heinrich Harrer.

Negli anni successivi domandai più volte se era andato a trovare il re, ma la risposta era sempre negativa. Peccato: forse la sua vita avrebbe avuto un’altra svolta.

Una mia opinione: Claudio è da considerarsi uno dei più grandi arrampicatori solitari in assoluto. Oggi vengono realizzati degli exploit che hanno dell’incredibile, però bisogna tener conto l’evoluzione dell’attrezzatura e la preparazione specifica dell’arrampicata.

io penso che le solitarie di Claudio rapportate nel tempo non siano di valore inferiore alle attuali.

Almo Giambisi