sabato 14 agosto 2010

CARLO PASTORINO: UN ATTESO RITORNO




In copertina Carlo Pastorino e Salvatore Donzelli sul Corno di Vallarsa, 1917.

E' una grandissima emozione tenere fra le mani questo libro, finalmente ritrovato, dopo più di vent'anni di oblio.

Se ne sta qui, silenzioso, odoroso di carta nuova, nella sua nitida veste chiara, semplice e schietta, come la prosa dello scrittore che lo vergò, ormai quasi ottant'anni fa.

E’ “La prova del fuoco”, di Carlo Pastorino, nella sua nuova edizione Egon - Emanuela Zandonai Editore.

Perché questo libro ci stava così tanto a cuore da spingerci, Mario Martinelli ed io, a cercare per più di due anni, con insistenza e cocciutaggine, un editore disposto a ridargli nuova vita? E non un editore qualunque, di quelli che in questi anni riempiono gli scaffali di volumi stampati al laser destinati a durare due mesi o tre.

No, cercavamo un editore sensibile, colto, capace di comprendere il valore di questo testo, e di dargli la visibilità e la durata che merita.

Il fatto è che vivendo in Vallarsa si ha la sensazione di camminare in mezzo a una folla silenziosa, anche quando si è del tutto soli. Calcando i piedi su questa terra che l'estate illumina di verde e fiorisce di gigli martagoni, si sente con forza la presenza di chi qui ha passato i suoi giorni prima di noi.

E' una piccola valle questa, racchiusa fra il massiccio del Pasubio e quello del Carega, così breve che la si può abbracciare tutta con lo sguardo, da cima a fondo. Pochi abitanti, una manciata di case spruzzate sui suoi fianchi irsuti di boschi e di cuscini di erica. Pochissimo traffico. Molto silenzio.

E così, la mattina, in piedi sulla sommità della collina, sotto i pinnacoli vertiginosi delle Piccole Dolomiti che sembrano così vicini da poterli toccare con le dita, e spaziando con gli occhi per tutta questa terra verde che si distende chiara ai nostri piedi, si fa davvero fatica a credere che qui si siano combattute alcune fra le battaglie più feroci della Prima Guerra Mondiale.

Guardando il colle del Parmesan, laggiù, a poche centinaia di metri, un panettone di terra dalle forme morbide e materne, si deve fare uno sforzo per ricordarsi che lì, fra l’8 e il 12 giugno del 1916, sono morti duemila soldati. Duemila uomini, in soli quattro giorni. Invano, perché l’assalto italiano non mosse le posizioni nemiche che di pochi futili metri.

Poco lontano c’è quello che la gente del posto chiama “il prato dei bottoni”. Il corpi si sono sciolti nella terra, e di loro solo questo è rimasto. Bottoni.

E così si potrebbe proseguire all’infinito. Perché qui ogni anfratto, ogni rotondità, ogni cresta, ogni vallone raduna muto i suoi morti. Decine di migliaia. C’è chi dice centomila. Tutti racchiusi in questo piccolo catino verde.

Ecco perché ci dà grande emozione tenere fra le mani questa nuova edizione del libro di Pastorino. Lui c’era, qui, allora. Ha visto. Ha vissuto. E’ rimasto per mesi tenacemente aggrappato a queste rocce “come le rondini ai cornicioni di una casa”, per usare parole sue. E nonostante quello che ha attraversato sia esperienza da togliere il sonno e la ragione, è riuscito a restituircene un racconto limpido e asciutto. Commosso, spesso. Ma anche estremamente lucido, e capace, nel resoconto nudo dei fatti di guerra, di raggiungere una cruda e essenziale concretezza che ci mette l’orrore ben chiaro davanti agli occhi. “Scagnetti portò una gravina. Presi io la gravina e scavai nello spiazzo sul quale era la tenda. La punta acuminata penetrò in qualche cosa di molle, e un non so che di liquido schizzò su. E col liquido ci investì un orribile fetore. Scagnetti si allontanò, inorridito. – E’ un morto! – gridò, poi, a distanza. Era un nemico. Povero nemico! E io avevo dormito, la notte, sopra di lui. Ora lo ricoprimmo ben bene, con molta terra, e la tenda fu trasportata più in là.”

Così è Pastorino. Senza veli. Senza artifici retorici. Rivelatore, in questo, della sua matrice contadina, non guastata nella sua concretezza dagli studi letterari terminati poco prima che la storia lo precipitasse qui, sugli orli scoscesi di queste rocce. Verso la retorica continuerà a nutrire, del resto, una desolata avversione. Troppo atroce l’evidenza di quel che gli sta sotto gli occhi, per poter sopportare le parole di chi la vela e la imbelletta. “Vieni, leggi qui – mi disse un altro mattino Donzelli. Era una rivista con poesie di guerra: e portavano una firma famosa. Io lessi; egli mi ascoltava tacendo. Tutt’a un tratto scattai e buttai via la rivista. C’era tanta vuotezza in quelle poesie, che noi ci sentimmo colpiti come da un’offesa fatta a noi stessi. (…) C’era in noi l’impressione che il poeta non capisse nulla della guerra, che nulla sentisse; che per lui la guerra altro non fosse che un campo d’immagini nuove, di coreografie impensate, di spettacoli grandiosi: questo, e nulla più. E, chissà mai perché, si correva col pensiero a Nerone e all’incendio di Roma.”


Figlio di contadini, nato a Masone, in Liguria, nel 1887, riesce, nonostante le condizioni umili della famiglia, a compiere con merito gli studi letterari. Porta, nella durissima esperienza degli anni di guerra, questo bagaglio di sensibilità e cultura, che gli darà occhi acuti e commossi nel vedere la miseria della condizione che condivide con i suoi uomini, e con quegli uomini, pochi metri più in là, a cui vien dato il nome di nemici. “La guida si ferma e si batte la fronte. E’ disorientata: non ci capisce più nulla, e non è sicura se camminando così si arriverà mai. Riprendiamo tuttavia a muoverci: con cautela e tastando anche con le mani. Lo star fermi sotto la pioggia è impossibile. La nostra condizione è estremamente pietosa: il freddo va al cuore. Si battono i denti: si è pulcini, miserelli: ogni residuo di forza scompare.” E ancora: “Dalle vette più alte e dalle feritoie delle gallerie vedo anche alcuni versanti dei monti tenuti dal nemico. Osservo i sentieri aperti fra la neve, dove lunghe teorie di puntini neri si muovono. Sono uomini: i nemici. Rimango lì a lungo col binocolo agli occhi; e penso: poveri nemici: essi, là, soffrono come noi, qui. Anch’essi camminano nella neve e anch’essi versano lacrime furtive: e le lacrime si raggelano all’orlo degli occhi. Salgono, lentamente, affaticati: portano pesi sulle spalle: munizioni e viveri. Salgono alla loro linea la quale, a guardare di qui, è visibilissima: è anch’essa simile a una serpeggiante viottola di talpa, a pochi metri dall’altra, la nemica, che è la nostra. Perché noi, per essi, siamo i nemici.”


Eppure, nonostante l’acuta consapevolezza della morte e della distruzione che lo circondano, Pastorino riesce ad attraversare questa disarticolante esperienza senza mai perdere la propria dignità umana. Capace persino, in mezzo a una realtà in cui “tutto mi appare informe, caotico, senza alcuna stabilità”, di vedere la bellezza del mondo che lo circonda, giungendo ad amare profondamente i posti impervi in cui la sorte lo ha costretto a vivere. Così, ad esempio, di ritorno da una licenza a casa: “Al passo delle Dolomiti la neve era altissima. Il camion entrò in una magnifica galleria, aperta in essa; e quando ne uscì, s’era nella Vallarsa. Io la salutai con gioia, la Vallarsa, e mi pareva d’esser tornato a casa mia. Rivedevo tutti i miei monti: erano candidi, e brillavano al sole. Non mi erano mai apparsi così belli.”


E così, mentre con gli occhi seguiamo gli spostamenti di Pastorino lungo i fianchi della montagna

(ecco lì il Trappola, la sua prima tappa all’arrivo; e là sopra il Corno Battisti, dove ha passato mesi arroccato coi suoi uomini, mesi interminabili di durissima prima linea. E là sotto il cimitero militare di Anghebeni, che ha dato origine a pagine intensissime sulla sorte dei poveri, destinati a esser carne da cannone, mentre chi può vive, bene, imboscato nelle retrovie), il cuore ci si stringe per l'emozione, perché sappiamo che ora questo libro è tornato al suo giusto posto. Sugli scaffali delle librerie, nelle scuole, e fra le mani dei lettori. A ricordare, assieme alle opere di Remarque, di Junger, di Lussu, che cosa sia stata veramente la Grande Guerra.


Fiorenza Aste


Foto dall'archivio di Vallechiara di Masone, per gentile concessione della Famiglia Pastorino. Tutti i diritti riservati.

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