sabato 27 luglio 2013

1915-1917 – I TRISTI GIORNI DELLA VALLARSA Gregorio Pezzato racconta la Grande Guerra

“I tristi giorni della Vallarsa” è il titolo del volume che lo storico Gregorio Pezzato, ricercatore e capogruppo degli Alpini di Vallarsa, presenterà al festival Tra le rocce e il cielo. Il volume è il secondo di una serie di pubblicazioni di una ricerca storica che va da prima dello scoppio del conflitto e fino alla ricostruzione. A raccontarci di cosa si tratta è proprio l’autore.


- Cosa vuol dire, per un Alpino, vivere la montagna e soprattutto la Vallarsa?
Innanzitutto vuol dire amare la terra che ti ha dato i natali, e questo credo sia la cosa più importante. Amare la terra vuol dire andarne a ricercare le radici, la storia. Seguendo le indicazioni della sede centrale dell’A.N.A. abbiamo iniziato a ricercare la storia della Vallarsa nel corso della I guerra mondiale. Un percorso lungo che si perde un po’ negli anni, risale ad una decina di anni fa. Parte dalle passeggiate sul territorio che ci hanno permesso di scoprire trincee, gallerie, caverne, che erano lì e non ne capivamo il senso. Da qui l’idea di cercare di dare un senso a queste opere sul territorio e quindi abbiamo iniziato una ricerca, sia nell’archivio di stato del Genio, poi all’archivio di Trento, all’archivio parrocchiale, comunale, al museo degli Alpini a Trento, cercando di recuperare tutti gli elementi che ci consentissero di dare un nome e una collocazione ai manufatti che ancora rimangono. Quindi vuol dire amare enormemente la valle.
- Da questa ricerca è nata una serie di pubblicazioni, la prima presentata da poco dalla biblioteca di Vallarsa, la seconda che sarà presentata proprio al Festival.
Il primo volume, presentato il 4 giugno, si intitola “Vallarsa 1915” e cerca di raccontare la Vallarsa dai primi del ‘900 fino allo scoppio della guerra. Se ne ricava l’immagine di una comunità viva, di una comunità nella quale albergavano forti passioni, politiche, civili. Una società nella quale prendono corpo alcune opere importanti, che miglioreranno notevolmente la qualità della vita delle persone, dall’ospedale all’acquedotto. Ci sono numerosi privati che cercano di portare i benefici della tecnica, quindi la fabbrica di coppi, l’idea di sfruttare l’energia prodotta dall’acqua per la fabbrica, per portarne i prodotti fino sulla strada provinciale. L’idea di creare per esempio delle associazioni molto importanti come potranno essere le famiglie cooperative o le casse rurali. Tutta una serie di iniziative volte a fornire un certo benessere alla valle stessa.
All’interno c’è un tentativo di ribellarsi a quella che è un’economia di sussistenza e la volontà di aprirsi verso l’esterno, quindi l’80 per cento della popolazione che va a lavorare nei trerritori dell’impero e una piccola popolazione che rimane. Questo comporta un notevole afflusso di denaro che arriva nelle sei casse rurali che esistevano. Casse rurali che erano gestite o dai maestri o dal clero, che destinano molto del loro tempo. Poi si cerca di migliorare la viabilità della valle. C’è la costruzione di alcune strade ex novo come quella che da S.Anna arriva a Bruni. C’è il progetto di alcune strade da costruire ex novo come quella che da Bruni possa arrivare a Obra e Ometto che sono le ultime frazioni della valle. La progettazione dell’acquedotto della sinistra Leno che sfortunatamente troverà realizzazione solo dopo la guerra, con tanta sofferenza da parte dei nostri nonni.
- Opere ed infrastrutture che ci sono ancora e sono utilizzate anche oggi. Poi ci si prepara alla guerra…
A partire dal 1906 poi l’economia della valle cambia, perché l’Austria decide di rinforzare il territorio, ovvero inizia ad essere realizzato quello che è definito lo sbarramento Adige-Vallarsa. Era l’ultimo sbarramento che mancava per chiudere il cuneo trentino che aggettava in Italia, dopo le fortezze di Riva e le Giudicarie, le fortezze di Folgaria Lavarone e Luserna o le fortezze che oggi fanno da confine con la provincia di Belluno. Il progetto della Vallarsa è un progetto molto sofferto, si parte grossomodo nella seconda metà dell’’800 con i primi progetti, e si trova una soluzione parziale nel 1911 con l’accettazione e la progettazione dei due grandi forti quello di Matassone e quello di Valmorbia a integrazione dello Zugna. Nel frattempo si realizzano però le infrastrutture. Lungo la linea si realizzano molte caserme, i cui ruderi sono ancora presenti, e questo crea un beneficio ma dall’altra parte al Comune viene tolta una grossa fetta di introiti perché i pastori non possono utilizzare le malghe. E quindi poi si costruiscono strade, si migliora la viabilità e tutto questo ferma l’emigrazione.
- Nel corso del festival sarà presentato il secondo volume, sempre edito da EGON, che si intitola “I tristi giorni della Vallarsa” e tratta la seconda fase di questa storia della Vallarsa nei tempi della guerra.”
In questo libro si è cercato di ricavare, in base ai documenti provenienti soprattutto dall’archivio del Comune di Vallarsa, la vita della Vallarsa dal 1915 al 1916, quindi che cos’è successo in un anno di occupazione italiana. Una parte di popolazione non riusciva a capire il perché fosse stata liberata, una parte di popolazione aveva accettato i “nuovi invasori”. La vita riprende, purtroppo con le limitazioni della guerra, quindi con il coprifuoco, l’impossibilità di spostarsi liberamente ma anche la possibilità di cercare di continuare una vita, quindi lavorare per dissodare e coltivare le campagne e i boschi ma anche lavorare per quelle che erano le strutture di guerra perché l’esercito doveva anche costruire. È un anno ricco di avventure, basti pensare al grande spostamento di popolazione della valle, che dalla parte nord viene concentrata a sud. Il problema della scuola che il governo italiano sente e che l’esercito mette in pratica. Un grande lavoro, fino al maggio 1916 quando l’offensiva di primavera austriaca rimette in gioco tutto e avviene una catastrofe dalle proporzioni bibliche. Fra il 20 e il 25 di maggio la popolazione viene fatta evacuare in maniera forzosa e in maniera graduale. Il libro cerca di ricostruire ciò che avviene per quelle circa mille persone che sono state portate in Italia a Legnago prima e Varazze poi. È un periodo di estrema sofferenza, pensiamo solo a quello che succedeva alle famiglie: molte di esse venivano separate con alcuni membri deportati in Italia, altri in Austria. Il libro si conclude con il rimpatrio dei profughi. Quindi – documenti alla mano – quello che i soldati della I armata hanno fatto per riportare in patria tutta questa massa di gente. Quindi l’organizzazione dei treni, quella sanitaria, alimentare, scolastica e logistica. Per 2-3 anni dal 1919 al 1921 la popolazione viveva nelle baracche con tutti i problemi della ricostruzione e la sofferenza connessa. Il libro si chiude con una frase tratta dal diario del parroco che sconsolato scrive “Sono andato a chiedere udienza e aiuto all’onorevole Degasperi, sono stato a chiedere aiuto ai deputati trentini ma alla fine tutti mi hanno dato la stessa risposta: non c’è niente da fare”. Da qui il titolo “I tristi giorni della Vallarsa”
- Questi due volumi sono comunque il primo passo di una ambiziosa opera che vuole ricostruire tutti i momenti della guerra fino alla ricostruzione,,,
Si, l’idea di fondo è quella di cercare di vedere anno per anno quello che è successo. Quindi il 1916 è praticamente finito, la ricerca si è tradotta essenzialmente nel cercare una genesi a tutte le mulattiere che segnano le montagne della valle, perché bisognava rifornire il fronte. La seconda parte del ’16 è quindi dedicata essenzialmente a costruire strade. Il 1917 è tutto fondato sul come nutrire quella grande massa di uomini che si trovavano in quota. È la fase degli acquedotti, è la fase delle teleferiche. Fino a Caporetto. Anche la notizia della tragedia di caporetto arriva nel territorio della V armata che prosegue la fase di sbarramento. Quindi la fase finale dei 1917 fino al 1918 vede le risorse dedicate a rinforzare ulteriormente la Vallarsa. Il 1918 è anche l’anno della guerra di mine, quindi abbiamo trovato una marea di documenti inediti che riguardano le mine del Dente Italiano e la storia delle mine – per fortuna non esplose – del Corno Battisti. Quindi speriamo anche di proseguire anche con questa operazione culturale.
Il volume “Vallarsa 1915” è stato presentato dal Comune di Vallarsa e dalla Biblioteca comunale a luglio. Edito da EGON è disponibile nelle librerie. Il volume “I tristi giorni della Vallarsa” sarà invece presentato al Festival “Tra le rocce e il cielo” domenica 1 settembre, giornata che il Festival dedica alla Storia.
Massimo Plazzer

mplazzer@gmail.com

mercoledì 24 luglio 2013

Contribuisci anche tu a creare il tuo festival della montagna consapevole


Trovare fondi per realizzare il festival in tutte le sue attività è sempre più difficile..
per i prossimi 60 giorni vi chiediamo aiuto, ognuno di voi può contribuire con una donazione a realizzare TRA LE ROCCE E IL CIELO 2013, il festival della montagna vissuta con consapevolezza.


Anche 1 euro è prezioso!

martedì 23 luglio 2013

Con gli asini sulle tracce della Grande Guerra, intervista a Valentina Musmeci



Valentina, “Dovepensanogliasini” è una rete che hai ideato 4 anni fa, proponendo un ecoturismo che ha alla sua base il trekking someggiato, attività escursionistica “a passo di asino”. Ce ne vuoi parlare?
Ecco, in primo luogo è corretto parlare di escursioni “a passo di asino” e non “a dorso di asino” perché in queste escursioni ci si fa accompagnare dall’animale, non gli si monta mai in  sella.
Questa rete nasce in Provincia di Trento da un’idea mia, ed è una rete che intende “unire le forze” fra vari allevatori di asini, unire le forze come modello alternativo alla concorrenza sfrenata.
L’idea è quella di creare una forma di turismo sostenibile, che metta al centro il territorio e i suoi protagonisti, gli allevatori e gli agricoltori. Questo ecoturismo è davvero sostenibile, perché ogni attività economica mette a disposizione quello che fa in un territorio, e noi tentiamo di valorizzare queste due dimensioni: l’agricoltore, con la sua fattoria che diventa “fattoria didattica”, e il territorio nel quale l’agricoltore lavora.
Questo modello si è rivelato vincente con l’inserimento del mediatore-asino, anticamente forza lavoro e semplice mezzo di trasporto di materiale pesante, con questo sistema diviene soprattutto “forza di aiuto” per l’uomo. Non solo per farsi trasportare lo zaino, ma per favorire un'immersione nella Natura che ne rispetti i ritmi.



Che evoluzione ha subito il Progetto “Dove pensano gli asini”?


Lo sviluppo è stato molto positivo, quando abbiamo iniziato erano presenti 3 Aziende per la Promozione Turistica della Provincia di Trento, oggi sono otto le APT e le valli coinvolte.
Ma la rete ha trovato terreno fertile anche in Piemonte: il 31 maggio è stata presentata la rete del Piemonte a Torino, per la volontà di cinque aziende di entrare nel nostro progetto, sempre sotto il marchio “Dove pensano gli asini”.
Questa espansione segue sempre la stessa filosofia: ci si mette assieme innanzi tutto perché la comunicazione collettiva è sempre più efficace di quella singola. In secondo luogo, al centro di ogni progetto  ci sono sempre le specificità e le diversità che si possono trovare in un territorio piuttosto che in un altro.
Un tempo ogni specificità veniva gelosamente custodita, quasi “nascosta” dal singolo agricoltore o allevatore. Oggi invece, con il sistema che abbiamo introdotto, “fare rete” vuol dire unire le conoscenze e le competenze, con un lavoro di risoluzione collettiva dei problemi.
E’ anche un modo diverso di affrontare la concorrenza: in Piemonte ci sono 5 aziende diverse in 3 valli, e fra l’altro consolidate in quanto esistono da molto, che però non soffrono la vicinanza.
Quest'anno alle abituali proposte di escursioni di stampo naturalistico sono stati aggiunti gli “Itinerari avventura”, proposte speciali che non si realizzano con continuità. A metà giugno abbiamo fatto un pezzo del sentiero di San Vili, da Trento fino al Castello di Stenico, con un gruppo di persone che cantano canti di montagna. Attraverso questo itinerario spirituale abbiamo potuto ripercorrere le tracce e la vita del Santo in maniera davvero emozionante e accorgerci che il territorio in cui viviamo è meraviglioso.
È stato un modo per vedere con nuovi occhi le strade che facciamo tutti i giorni: facendo in macchina l’itinerario di cui parlavo prima, ad esempio, ci vorrebbero due ore. Noi abbiamo fatto l’itinerario in tre giorni, riappropriandoci fisicamente del territorio che abitiamo tutti i giorni.
Avremo un appuntamento per Geo&Geo, che ci ha contattato per realizzare un percorso televisivo di trekking sulle Pale di San Martino e una proposta geologica a metà luglio.


Qual è il vostro rapporto con gli operatori un po’ più “tradizionali” del turismo, come gli albergatori e le agenzie turistiche? Siete visti come opportunità o come competitor?


Il rapporto è ottimo, con tutti, soprattutto con gli APT! Gli albergatori, ad esempio, hanno accolto con favore le nostre proposte e  indirizzano le persone che ospitano nelle varie fattorie didattiche, soprattutto se ci sono bambini al seguito: andare nelle fattorie ad accarezzare gli animali, mangiare i piccoli frutti che gli agricoltori della zona mettono a disposizione e partecipare ai laboratori didattici è un bel modo per conoscere un territorio dall'interno e in maniera non artificiosa.
C’è oggi grande domanda di questi tipi di attività, è come se sentissimo di essere nel posto giusto al momento giusto. Il Trentino, in particolare, sembra fatto apposta per questo genere di attività.
La gente chiede cose autentiche, il contatto con la natura e con gli animali, un contatto che deve essere a misura d’uomo, andando oltre lo stereotipo della natura selvaggia e pericolosa, per cui si ha sempre il bisogno di una guida alpina per entrarci o si ha paura di farlo.
L’anno scorso ci avevi accennato ad una prospettiva di sviluppo della tua attività verso l'estero: un esperimento di trekking in Tibet. Che novità ci sono sotto questo punto di vista?
Il progetto è partito ed è già possibile vedere questa offerta sul sito internet www.dovepensanogliasini.it , dove si trovano informazioni sulla proposta di trekking con asini tra monasteri e villaggi di cultura tibetana nello Yunnan che la Open Viaggi ha curato assieme a noi.
La data più vicina è quella di fine settembre: un piccolo gruppo di persone scoprirà la cultura tibetana attraverso un percorso che si dipanerà fra monasteri di monache e di monaci. E’ un percorso “spirituale”, se così si può dire, alla scoperta della cultura buddhista tibetana e delle etnie che popolano lo Yunnan, regione che si trova nella parte nordovest della Cina, caleidoscopio straordinario di micro-minoranze linguistiche che ancora non sono state ancora totalmente stravolte dall’omologazione... per fortuna.


Anche in questo caso è stata mia intenzione scegliere accuratamente i nostri partner per offrire una vera proposta di ecoturismo sostenibile, volto allo sviluppo di un turismo con i reali protagonisti del territorio, i tibetani.
In più c'è in cantiere un itinerario in Nord Africa, che ancora non è definito nelle date e nei dettagli, ma che è comunque a buon punto.

Spiegaci un po’ come è nata questa idea, come ha preso forma questo progetto di trekking nello Yunnan.
L’anno scorso avevo fatto un viaggio nella regione, prendendo contatti con allevatori locali di etnia tibetana di asini e cavalli, che da vent’anni organizzano trekking nella zona. Mi sono accorta che asini e muli sono tuttora utilizzati, come in varie parti del mondo, of course, per le attività agricole, mentre i cavalli sono utilizzati anche a scopo turistico. Su nostra specifica richiesta è stato pensato un itinerario di 5 giorni tra le montagne dello Yunnan con pernottamento in tenda. La Khampa Caravan di Shangri Là è il nostro partner.
 www.khampacaravan.com

Nell’ambito del Festival “Tra le rocce e il cielo” avete in programma un percorso di trekking sui sentieri della Grande Guerra, di cosa si tratta?


Come abbiamo scritto sul nostro sito, il trekking che si svolgerà quest’anno all’interno del festival sarà “un assaggio di centenario” proprio perché intende proporre per la prima volta un itinerario che si snoderà fra i luoghi più importanti della Vallarsa durante la Grande Guerra. Sarà un “assaggio” proprio perché l’anno prossimo cade il centenario dallo scoppio dei conflitti, e l’itinerario che svolgeremo nel 2014 sarà più lungo e su più giorni.
Grazie a “Tra le rocce e il cielo”, questo itinerario è stato pensato in collaborazione con gli storici e appassionati di “Pasubio 100 anni”. Vivremo inoltre l’intervento di alcuni figuranti che, leggendo tracce scritte dei protagonisti di quel capitolo drammatico, interpreteranno  dei momenti immersi nel contesto di trincee e fortini facendo sì che il percorso non sia solo un’immersione nella natura ma anche nella Grande Storia.

L’uscita di trekking someggiato con gli asini sulla tracce della strafexpedition. organizzano associazione Unoauno e Pasubio 100 anni parte  venerdì 30 agosto alle 9.30 a Obra. Sulle tracce della Grande Guerra si attraverseranno il monte di Parmesan, i Testi, la Rosta degli italiani, il monte di Mezzo. Si pernotterà al rifugio Campogrosso. Per rientrare il mattino successivo dopo la rievocazione storica in divise della grande guerra a cura dell’associazione 4 novembre. Iscrizione obbligatoria al numero 345 8738292.

Ludovico Rella
ludovico_rella@yahoo.it



venerdì 19 luglio 2013

"Il mondo perduto" di Vittorio De Seta: intervista a Lucia Marana

Il Festival “Tra le Rocce e il Cielo” ospiterà una rassegna documentari di Vittorio De Seta, il regista scomparso nel 2011 e di cui ricorre quest’anno il novantesimo dalla nascita. Questi documentari sono raccolti da Feltrinelli sotto il titolo “Il mondo perduto”. Vuoi parlarci un po’ di De Seta, e che cos’è questo mondo perduto di cui parla?
Per parlare del mondo narrato da De Seta, bisogna prima parlare del personaggio e della sua biografia. E’ nato nel 1923 e morto nel 2011, quindi possiamo immaginarci quale spettro di vicende storiche e di mutamenti, quante realtà diverse ha potuto vedere durante questa lunga vita. Nato in Sicilia, in un contesto urbano come quello di Palermo, e di “buona famiglia”, ma la sua attività di regista è tutta mirata a “dare voce” ai pescatori siciliani, sardi e calabresi, ai minatori sardi, al mondo agro-pastorale del meridione d’Italia. Realtà marginali, e che erano già marginali quando, nel 1954, inizia a lavorare a questi documentari.
Lui per primo, in interviste che ha rilasciato durante la sua vita, ha detto che è stata la prigionia di guerra l'esperienza che più di tutte lo ha formato nella sua attività di documentarista, mettendolo in contatto con le persone che poi sarebbero diventate i protagonisti delle sue opere. Egli ha sempre sottolineato il “debito di gratitudine” che lo lega a quella gente, perché lo ha messo in contatto con una cultura così distante da quella metropolitana da cui veniva.
Questo “debito di gratitudine” si sostanzia in un metodo nuovo, anche rivoluzionario, di fare documentario: egli abolisce la voce narrante, non parla ma dà voce a chi ha una storia da raccontare. Non solo abolisce la voce narrante, ma anche la sceneggiatura: il suo lavoro è quello di mettere assieme le storie dopo averle ascoltate, non ha binari prefissati su cui far scorrere il lavoro.
I suoi documentari non sono commentati, hanno solo dei sottotitoli didascalici che fanno da cornice, ma la storia è fatta delle voci, dei canti, della musica, dei rumori. L’oggetto che viene filmato è veramente il soggetto del documentario, senza filtri.
De Seta affermava che, non sapendo nulla delle culture che andava a documentare, egli si rifiutava di andare a svolgere il suo lavoro con bagagli pregressi, non voleva avere questa supponenza, e l’unico modo per farlo era far parlare solo la cultura locale.




Quindi un cinema che “parla poco” e invece “fa parlare” molto?
Sì, lui stesso diceva che non riusciva a svolgere l’attività cinematografica in modo “classico”, con un team  di specialisti che concorrevano a realizzare un “prodotto”. Ci aveva provato, ma non era riuscito a farlo. No, lui concepiva per intero la sua opera, e la realizzava con pochissimi aiuti: non c’era uno sceneggiatore, un tecnico luci, un tecnico del suono e così via, e questo non per supponenza, ma per il tipo di opera che vuole mettere in atto.

Torniamo invece all’oggetto di questi documentari: qual è il “mondo perduto” di cui De Seta parla, quali sono le sue caratteristiche?
Questi documentari sono girati fra il 1954 e il 1959, quindi è la realtà dell’Italia del sud, prevalentemente contadina, progressivamente messa ai margini dal boom economico che di lì a poco si sarebbe sviluppato.
Il suo intento non è né agiografico né denigratorio: semplicemente racconta di un mondo con delle caratteristiche e che ha subito un’evoluzione lunghissima e lentissima nei secoli, che però viene radicalmente soppiantato nel giro di poco tempo.
La lentezza di quel mondo, della sua evoluzione faceva pensare che non sarebbe finito mai, che quelle tradizioni, quei mestieri, quelle comunità sarebbero rimasti in eterno, invece De Seta si chiede come sia stato possibile che tutto sia finito da un momento all’altro.
Quel mondo non va rimpianto, era un mondo anche di fatica e sofferenza, ma tutta quella cultura che quel mondo comportava non va buttata a mare, dimenticata, rimossa. Quel mondo comprendeva anche un modo di lavorare, di stare insieme e fare comunità che poi è andato perduto assieme alla fatica e alla sofferenza.



Il mondo di cui De Seta parla è molto distante, nel tempo e nello spazio, dal territorio dove ci troviamo. C’è un filo rosso che ci unisce, e se sì, quale?
Sì, la cifra comune può essere trovata nel lavoro: nel lavorare nella natura e con la natura, e nel modo in cui questo lavoro si svolge, o almeno si svolgeva in passato.
Oltre al lavoro stesso, c’è una modalità di svolgere il lavoro che è, o è stato, un’esperienza in comune: un  lavoro scandito da ricorrenze, feste, dai ritmi e dai cicli della natura, in primo luogo l’alternarsi delle stagioni. Questi ritmi e cicli si sostanziavano, come già detto, in una serie di ricorrenze e di ritualità che sono comuni, pur con modalità diverse, delle realtà agricole e in cui il lavoro si svolge all’interno dell’ambiente naturale.

Il lavoro nella natura, che è un po’ anche il filo rosso più in generale di questa edizione del festival. Una modalità di lavoro con la natura ma soprattutto stando dentro alla natura, che progressivamente rischia di essere marginalizzato, sostituito da un lavoro che sta sempre meno nei ritmi e nelle “regole” dell’ambiente naturale.
Infatti dai documentari traspare chiaramente quanto sia preponderante il ruolo della natura per i "protagonisti”, si vede come la presenza della natura sia così centrale. Intendiamoci: centrale nel bene e nel male. Perché nello svolgere le proprie attività in un modo così profondamente radicato nella natura, la vita deve adattarsi ad essa, anche soccombere ad essa quando la natura mostra più fortemente il suo volto di sofferenza, di fatica e di privazioni.
In questo la vita in montagna può avere, ed ha avuto certamente, questi punti in contatto, questa comune esperienza di una natura centrale nella vita e per la vita delle persone.
Di nuovo De Seta ha capito quanto, da un lato, si debba ringraziare di essersi “salvati” da una vita così aspra, così faticosa come quella che conducevano le popolazioni che lui riprende. Dall’altro lato, non tutto è andato perduto a ragion veduta, è scomparsa una sintonia sana con i ritmi della natura, un rapporto rispettoso per l’ambiente e la vita, che oggi va decisamente riscoperto, va ripreso in mano un modo di stare nella natura che sia, sì, più vivibile e sostenibile per l’uomo, ma che sia sostenibile anche per il mondo che ci circonda.
Pensiamo, per uscire dall’argomento, a tutto quello che di quel mondo c’era a livello culturale: a livello linguistico i dialetti, che con il fascismo prima e la televisione poi sono andati persi, dimenticati.

Ora parliamo delle altre attività che hai in programma per questa edizione del Festival: partiamo con il laboratorio di fotografia che tu curi dall’anno scorso. Di cosa si tratterà quest’anno?
Il laboratorio di fotografia quest’anno cambia argomento: mentre l’anno scorso era centrato sulla fotografia naturalistica e di paesaggio, quest’anno avrà come titolo “fotografia di reportage: storie vissute e storie raccontate”.
Vogliamo mettere in luce come la figura del fotografo, del reporter, costituisca un nesso, attraverso l’immagine, con la realtà che documenta. Il modo di porsi con ciò che si intende fotografare, quindi, è essenziale per questa attività. E’ importante, tornando a De Seta, che all’oggetto sia lasciato spazio, in modo che diventi a tutti gli effetti soggetto della propria attività di reportage, il reporter non deve debordare oltre un certo confine.
Come l’anno scorso, i partecipanti dovranno realizzare un proprio progetto fotografico, che io suggerirò abbia al centro il territorio dove ci troveremo, quindi Vallarsa, e la sua gente.
La trattazione degli argomenti partirà comunque dalla natura come punto di partenza. In fondo, perché la fotografia e l’immagine sono mezzi così potenti per veicolare un messaggio e una storia? perché sono immagini che senza la realtà non esisterebbero. Sono un’impronta del reale, anche se poi possono essere interpretate, in certo modo “piegate” alle proprie esigenze espressive, ma è la naturalità, la realtà il punto di partenza obbligato per la fotografia.
Faremo poi una carrellata sulla storia della fotografia documentaria: si parlerà quindi delle tecniche e degli strumenti di cui il reporter si serve per raccontare le sue storie, e che evoluzione hanno subito.
Il laboratorio si volgerà fra sabato e domenica. La sede la stiamo ancora decidendo, anche se probabilmente sarà il Museo della Civiltà Contadina.

E’ previsto un momento a disposizione dei partecipanti per presentare il proprio lavoro?
Certamente. Una volta assegnato un progetto, ci saranno vari momenti di discussione sulle fotografie realizzate, fra un giorno e l’altro.

Anche quest’anno il festival ospiterà una mostra fotografica di tue immagini: parlaci un po’ di questa mostra.

Guarda, come al solito le idee sono tante, anche le immagini sono molto numerose, e quindi fare una scelta è sempre difficile, quindi ancora non so bene che volto prenderà la mostra, è ancora tutto work in progress. Ti posso dire che molto probabilmente la mostra avrà al suo centro la Vallarsa, intrecciando però questa realtà con altri luoghi, ma ancora una forma ben definita non c’è.

Insomma, ci lasci un po’ di suspense: allora a presto e ci vediamo al festival!
Certamente! A presto!




La rassegna cinematografica sarà proiettata giovedì 29 agosto e venerdì 30 agosto alle 19.30 a Riva di Vallarsa.  

Ludovico Rella

ludovico_rella@yahoo.it

lunedì 15 luglio 2013

Il ritorno alla lingua madre: Gavino Ledda

Cos’è per te la lingua?
La lingua materna è una cosa, il codice linguistico è un’altra. La lingua materna è la lingua di tua madre, dei tuoi avi. Il dialetto chi ce l’ha, lo parla e lo coltiva è fortunato.
In famiglia abbiamo sempre parlato in sardo, che per fortuna è ancora una lingua viva e parlata, e fino a 21 anni ho parlato sempre e solo in lingua materna. Io non sono andato a scuola e sono stato analfabeta fino a quell’età. Io ora posso dire che ho avuto la fortuna di rimanere analfabeta fino a 21 anni, può sembrare strano ma è così, perché ho potuto scolpire dentro di me la lingua materna, che è cresciuta assieme a me.
Il sardo ha un suono magico, è una lingua bellissima. Non avendo fatto le scuole ho vissuto visceralmente il mio rapporto con la lingua materna, cosa che forse non hanno potuto fare quelli che sono andati fin da bambini a scuola. Poi, quando a 21 anni ho avuto la possibilità di recuperare gli anni di scuola, mi è stato possibile riflettere sulla mia stessa lingua, osservarla da un’altra prospettiva.
La lingua materna, quando è vissuta nella carne e nello spirito, fortifica le lingue che poi si sovrappongono, come possono essere l’italiano o l’inglese. Le lingue imparate solo per poter comunicare come l’inglese, sono utili solo per poter comunicare con più persone, ma non sono lingue in cui potremo scrivere un romanzo, o narrare realmente la nostra vita. Non ci appartengono come può appartenerci solo la lingua materna. La lingua madre è la lingua dello spirito.



Che senso può avere tutelare un dialetto o una lingua “minoritaria” in un mondo in cui molte delle lingue nazionali stanno retrocedendo a favore di linguaggi di massa come l’inglese?
Prima di tutto bisogna pensare che i dialetti e le cosiddette lingue minoritarie sono stati giudicati marginali solo per le politiche nazionali. In realtà, come è ovvio, la cosiddetta lingua minoritaria è la lingua materna di una regione o di una popolazione e come tale è la lingua maggioritaria nell’area in cui è parlata e solo per via di politiche a mio parere senza capo né coda dello stato sono state marginalizzate.
Poi, come ho detto prima, solo potendo coltivare veramente la lingua materna, facendola crescere e vivendola nella propria carne ogni giorno si può, successivamente, aggiungere altri linguaggi al proprio bagaglio, ma chi non ha una lingua materna viva e vissuta non riuscirà mai ad esprimersi completamente.

La lingua materna, nel tuo caso il sardo, cosa può fare di più e meglio dell’italiano nel narrare i luoghi e le persone che lo parlano?
Dopo quarant’anni di pratica sto ancora imparando il sardo. È una lingua particolare, unica, come particolari e uniche sono molte altre lingue madri. Tutte le lingue materne, se parlate costantemente, in famiglia come nella vita di tutti i giorni, hanno una serie di costrutti, di concetti, di modi di dire che sono peculiari e difficilmente traducibili, se non impossibili da tradurre. Questi costrutti verbali sono il frutto di secoli di utilizzo di una lingua e come tali sono lo specchio dello spirito e della carne stessa di un popolo. In un certo senso la lingua è la storia culturale di un popolo.
Ad esempio Dante non scrive così bene solo perché è Dante, ma anche e soprattutto perché lui scrive in lingua materna. La lingua di Dante è carne, è sangue, è la sua placenta, se così si può dire, e questa è la sua grandezza.
Io sono quarant’anni che cerco di ricostruire le radici del sardo, e nei miei studi ho cercato di recuperare le opere quasi dimenticate di poeti che scrivevano nella lingua ancora non toscanizzata del 1000- 1100. La “toscanizzazione” ha cambiato molto il sardo, lasciando tracce indelebili, ma questo ho potuto scoprirlo solo dopo aver recuperato gli anni della mia formazione, quando ho potuto riflettere con gli strumenti della linguistica quello che avevo appreso con il corpo nei miei primi vent’anni di vita.



Dopo questa lunga opera di riscoperta cos’è per te il sardo?
Io in questi anni mi sono ricongiunto a quello che è lo spirito della Sardegna, un qualcosa che si era perso e si stava perdendo. È stato un po’ come ricongiungersi con mia madre, senza ovviamente dimenticare e ignorare che assieme a lei ci sono anche Dante, Leonardo da Vinci e tutti i grandi personaggi che hanno contribuito a creare e rafforzare l’italiano. Ma recuperare la propria lingua di origine è prima di tutto un ritorno alla famiglia, alla madre.
L’italiano nei secoli ha perso questo carattere materno, questa capacità di narrare la carne e il sangue di chi la parla. Tutte le lingue del mondo, le lingue davvero parlate, come quella di “Padre padrone” sono in grado di catturare quelli che sono i veri cambiamenti del mondo che viviamo. I dialetti sono la lingua di un popolo, sono il popolo stesso, e come tali sono l’unico modo per narrare nella sua autenticità il popolo stesso. Per me la lingua è l’anthropos  a tutto tondo, e solo i dialetti, le lingue veramente parlate, possono narrarlo e contenerlo interamente.

Potresti anticiparci qualcosa del tuo prossimo libro, che stai completando e che uscirà a breve? Sarà un saggio o un romanzo?
Sarà un poema. Il saggio è troppo facile, non che non sia uno strumento valido per carità, ma mi sono trovato molto più a mio agio a narrare le origini del sardo in forma poetica. Di più non posso dire adesso. Spero di poter portare l’anno prossimo al vostro Festival l’opera completata…

Grazie mille per il tuo tempo e spero che ci si possa vedere al Festival.
Grazie a voi e se tutto va bene ci vedremo in Vallarsa.

Riccardo Rella

riccardo_rella@yahoo.it

sabato 13 luglio 2013

Pasubiana, piccola scuola di disegno a Tra le Rocce e il Cielo

Il Pasubio in punta di matita. Giovani artisti e fumettisti incontrano gruppi di disegnatori e appassionati e li accompagnano con escursioni sul Pasubio. Un modo diverso di vivere la montagna, con il taccuino e il lapis, si acquisiranno i ritmi nascosti del Pasubio, guardando la montagna da un aspetto diverso. A spiegarci di cosa si tratta, la sua ideatrice, Giulia Mirandola.


 

Che cos’è Pasubiana?
Pasubiana è un’esperienza dedicata al racconto del territorio e nello specifico del territorio del monte Pasubio. Prevede il coinvolgimento di una coppia di illustratori e una di fumettisti che per circa 10 giorni saranno in tre residenze sul monte Pasubio. Un’illustratrice si soffermerà sugli aspetti geologico naturalistici e soggiornerà al rifugio Lancia. Un altro illustratore affronterà temi legati all’architettura e ai manufatti della Grande Guerra e soggiornerà al rifugio Papa. La coppia di fumettisti analizzerà l’aspetto antropico legato al Monte Pasubio e tratterà tutti gli aspetti che riguardano il passaggio umano, da chi vi risiede in maniera permanente, ai turisti ecc… e risiederà a Malga Zocchi. Ciascuna residenza si concluderà con un workshop al quale partecipano dei personaggi esterni, non vicini al monte Pasubio ma vicini all’ambito dell’illustrazione e del fumetto. I workshop dureranno tre giorni e saranno condotti in aderenza a quanto ciascun autore avrà svolto in solitaria. Ciascun autore avrà la possibilità, durante il soggiorno, di essere accompagnato da alcuni esperti del territorio, storici o geologi, per una lettura del paesaggio attraverso chi conosce bene quelle specifiche realtà. Il festival “Tra le rocce e il cielo” diventa quindi il momento in cui culmina questa esperienza, perché le tre residenze che iniziano ad agosto terminano proprio in corrispondenza del Festival.
A chi è rivolta questa esperienza? Bisogna saper disegnare? Avere qualche particolare attitudine?
L’iniziativa aldilà degli autori che sono stati invitati in maniera specifica, è rivolta a chi abbia il piacere di osservare e provare a raccontare un territorio più o meno conosciuto, attraverso il linguaggio dell’illustrazione, del disegno, del fumetto. Al termine di questa esperienza ciascun autore sarà tenuto a realizzare un quaderno. Non bisogna essere degli addetti ai lavori per forza, bisogna solo aver voglia di stare in montagna, di camminare, di non stancarsi subito. Anche i workshop non sono laboratori da fermi, si sta fermi ma si cammina molto proprio perché il luogo lo si conosce solo se lo si attraversa camminando.
È la prima volta che viene fatta questa esperienza?
In questa forma, sul monte Pasubio, è la prima volta. L’esperienza del disegno, del workshop rivolto ad illustratori e disegnatori all’aperto, è un’esperienza che già succede. Mi è capitato di partecipare ad un progetto simile ma in città, con l’osservazione di un ambito urbano. In maniera intensiva e specifica non ci sono tante esperienze che scelgono di innestarsi per un periodo, seppur breve, in località di montagna, anche perché la montagna ti chiede di arrivarci. Non è lì già pronta. E questo è spesso un elemento demotivante per chi ha abitudini diverse o è semplicemente più pigro. Tornando al pubblico probabilmente non sarà un pubblico che non ha esperienza del territorio.

Alle residenze degli autori corrispondono tre workshop:

Alicia Baladan
Storie di piante, rocce e animali
da venerdì 23 a domenica 25 agosto

Antonio Marinoni
Storie di architetture, rifugi e guerra
da lunedì 26 a mercoledì 28 agosto

Marina Girardi e Rocco Lombardi
Storie di pastori, camminatori
e recuperanti
da venerdì 30 agosto a domenica 1 settembre

Le iscrizioni si chiuderanno il 15 luglio 2013.
Info sui costi del workshop e iscrizioni all’indirizzo giulia.mir@gmail.com.



Massimo Plazzer
mplazzer@gmail.com

giovedì 11 luglio 2013

Evasione: l'alpinismo secondo Elio Orlandi




Io inizierei parlando di te e di quella che è la tua grande passione: l’alpinismo. Come ti sei avvicinato a questa attività?
Se dobbiamo parlare dei primordi, possiamo dire che mi sono avvicinato all’alpinismo in maniera un po’ “anomala”: venendo da una famiglia povera di montagna, la montagna l’ho imparata a vivere molto presto, e soprattutto attraverso i lavori di fatica, che poi mi hanno formato anche fisicamente, rendendomi pronto poi all’attività di scalata. La fienagione, la cura delle bestie, l’attività di sussistenza necessaria per una famiglia contadina. Si doveva vivere di montagna, tirarne fuori le risorse per vivere. Diciamo che queste sono le mie origini.
Poi è venuta l’adolescenza, la sete di conoscenza, il gruppo di amici, tutte cose che mi hanno spinto verso le pareti, l’alta montagna, l’alpinismo in senso stretto, quindi tutti quegli aspetti della montagna che vanno oltre la necessità per la sopravvivenza.
Questa sete di conoscenza col tempo mi ha portato a girare il mondo con la voglia di conoscerlo. Nella prima parte in assenza completa di soldi, addirittura le mie prime spedizioni in Patagonia le ho fatte aprendo mutui in banca, tanto forte era il desiderio di conoscere, di vedere. Poi è iniziata la mia attività imprenditoriale, che mi ha permesso di autofinanziarmi e di sostenere questa attività di alpinismo.
Ci tengo molto a dire che non ho mai accettato un contratto con uno sponsor, per me è molto importante vivere la “mia” montagna, dove “mia” è da intendersi in senso largo, senza condizionamenti di entrate economiche o di valori.



Mi interessa molto questo passaggio dalla montagna più “faticosa”, fatta di privazioni di lavoro, e questa sete di conoscenza che conduce all’alpinismo. Per te la tua attività alpinistica è una sorta di “altra faccia della medaglia” della montagna, oppure nasce da un desiderio di evasione dai lati negativi della montagna?
La parola “evasione” mi piace moltissimo, va bene. Anche oggi spesso vivo l’alpinismo come un’evasione. Evasione dalle responsabilità legate al lavoro, dalle fatiche quotidiane, dalle incombenze ed impegni burocratici.
Uno dei piaceri legati all’alpinismo è proprio che attraverso esso posso “staccare la spina”, conoscere il mondo, le tante sfaccettature della realtà della montagna, ma in più l’alpinismo fornisce anche risorse non solo fisiche, anche mentali e psicologiche, per affrontare i problemi nella vita comune.



Hai parlato anche del tuo lavoro, che ti permette di sostenere economicamente l’attività di alpinista. Che lavoro fai, e quali problemi di conciliare lavoro e alpinismo?
Io ho sempre voluto dare al mio alpinismo un’impostazione diversa, “normale”, che quindi non prevedendo sponsor, richiede anche più impegno nel coniugarla con un’attività che ti dia le risorse per vivere e per andare in montagna.
In questo ho cercato di darmi anche sotto il profilo lavorativo un collegamento con la “verticalità”, con la montagna: il mio lavoro sostanzialmente, oltre alla guida alpina, consiste nella messa in sicurezza delle pareti rocciose.
Ovviamente per il tipo di lavoro che facciamo, la parte burocratica è quella che crea più difficoltà, rende più oneroso il lavoro e, quindi, più difficile coniugarlo con l’alpinismo. La burocrazia si sta facendo asfissiante e questo non aiuta a tenere assieme lavoro e montagna.
Però la dimensione del lavoro, della responsabilità anche nei confronti della famiglia, è essenziale, permette di vivere anche le altre cose appieno: avere una propria professionalità permette di vivere la montagna senza condizionamenti né morali né materiali poi, per carità, per altri forse è giusto che accada visto che gli sponsor aiutano, ma se sei una persona sensibile alla responsabilità il condizionamento è inevitabile, e io questo non lo voglio.
Ritengo che l’alpinismo sia una delle ultime libertà che ci sono rimaste di vivere un’esperienza “in solitaria”, in maniera personale, in un’ottica, come si diceva prima, di “evasione” dal quotidiano. Per questo motivo credo che questa libertà non vada limitata, che si debba evitare ogni condizionamento. Poi per carità, si può vivere la montagna in molti modi e ognuno ha il suo.


Relativamente presto rispetto all’inizio della tua attività, ti sei avvicinato a destinazioni un po’ più insolite, come le Ande, aprendo fra l’altro molte vie nuove, sperimentando nuovi percorsi. Definiresti “pionieristico” il tuo alpinismo? La scoperta e la novità, l’imprevisto, sono ancora vivi nell’alpinismo, o si ha l’impressione che si sia “scoperto tutto”?
No, non si è scoperto tutto, non si finisce mai con la scoperta. Io vivo proprio l’alpinismo come fonte inesauribile di novità, di ricerca. Questo desiderio dell’ignoto credo che sia insito in ogni individuo, ogni persona che si mette in cerca.
Anche io sono passato e spesso ripasso dalle ripetizioni di percorsi miei, da scalate sulle orme di chi è venuto prima di me, soprattutto con grande rispetto perché le vie che conosciamo sono state aperte da chi ci ha fatto avvicinare all’alpinismo, dai nostri “maestri”. Sono loro che ci hanno insegnato ad entrare per gradi nella montagna e nell’alpinismo.
Io credo che non si debba mai dare confini o limiti a fantasia e immaginazione.



A questa edizione del Festival “Tra le rocce e il cielo” tu presenti la tua ultima “fatica” letteraria: “Il richiamo dei sogni. La montagna in punta di piedi”. Ecco, quando ho letto il titolo mi ha colpito soprattutto la seconda frase, perché sembra quasi un “programma” di un’altra idea di alpinismo. E’ così? Ci vuoi parlare della tua idea di alpinismo?
Guarda, in questo primo periodo dalla pubblicazione sono meravigliato da quante telefonate mi arrivano, ogni giorno, di persone che sono d’accordo su come scrivo di montagna e di alpinismo.
Io nel libro ho cercato di raccogliere vicende e racconti, ma non ho inteso fare un libro solo sulla vita di montagna o sull’esperienza della scalata. La più grande fatica e il mio obiettivo in questo libro era provare a portare a galla la mia interiorità. Le mie emozioni, i miei sentimenti, cercare di descriverli e di parlare di quelle piccole cose che fanno grande l’esperienza di montagna.
Intendiamoci, piccole cose che fanno grandi non solo le grandi scalate, i grandi viaggi, ma anche le esperienze più minute: l’ombra, le nebbie, le origini, una passeggiata nel bosco, cose umili ma importanti.
Credo e spero di aver creato qualcosa di diverso, di un po’ “fuori dalla norma”. Difatti sono felice quando questo libro viene definito un “quaderno o diario dell’anima”, come qualcuno ha fatto. Questo conferma l’idea che animava il libro quando ho pensato di scriverlo, e che è passata a chi lo ha letto.



Infine parliamo di un’altra tua attività e passione, che è collegata al tuo libro: quella del documentarista. Da quanto fai questa attività, come ti ci sei avvicinato e che cosa vuoi trasmettere con i tuoi documentari?
Diciamo che cerco di evitare di parlare solo dell’atto della scalata: non voglio descrivere il mio andare in vetta, la grande impresa, i grandi rischi. Sono cose che, anche nel nostro mondo, ormai sono scontate.
Ci sono anche dei canali televisivi che a volte trattano di alpinismo e non, ma alla fine non fanno altro che “gossip” o enfatizzazione sull’alpinismo e la sua storia.
Cerco soprattutto, come ho cercato anche nel libro, di far emergere le sensazioni, le emozioni, non tanto il grado di difficoltà o la bravura degli alpinisti.

Vuoi ripercorrere un po’ la tua attività attraverso qualche titolo che, a tuo parere, esprime meglio quello che cerchi di fare?
Nei miei documentari voglio ogni volta rappresentare una faccia diversa della montagna, esplorare tutte le sfaccettature di questo mondo.
Fra i primi potrei citare “Cuore di Ghiaccio” che cerca di trasmettere l’umanità, la crescita, la costruzione di valori che possono derivare anche da un’esperienza negativa, quando non tutto va per il verso giusto.
Poi c’è il documentario che ho fatto in ricordo di Cesarino Fava, in cui trasmetto la voglia di vivere e di conoscere di una persona che aveva già passato la soglia degli ottant’anni e che comunque era in grado di trascinare con sé altre persone.
Uno degli ultimi lavori che è “Bambini di Hushe”, invece è un’esortazione alla solidarietà, al fatto che essa può ancora essere un valore, attraverso questi villaggi del Karakorum che hanno un’incredibile necessità di aiuto, di sostegno.
Poi ho realizzato anche filmati che si concentrano sulla salita in vetta vera e propria, ma anche in questi casi dietro la salita c’è il racconto del rapporto umano e dei veri valori che la montagna è in grado di trasmettere.

Perfetto, io ti ringrazio per il tuo tempo, e ci vediamo al Festival!
Certamente, a presto!

 Ludovico Rella

ludovico_rella@yahoo.it