giovedì 4 luglio 2013

Sergio Berardo, "contrabbandiere" di cultura occitana a "Tra le Rocce e il Cielo"





Una cultura antica, che si estende dalle coste di Guascogna alle Alpi Piemontesi, dal centro della Francia fino al Mediterraneo. Ma senza uno Stato. Nei secoli calpestata dai Re di Francia e sempre a rischio di essere “normalizzata” e rimossa, da un lato e dall’altro delle Alpi. E’ la cultura Occitana, presente anche in Italia nelle province di Torino e Cuneo. Ne parliamo con Sergio Berardo, leader storico del gruppo folk (ma non solo) Lou Dalfin, e grande animatore delle Valli Occitane italiane, dove una cultura antica sa reinventarsi, continuare a vivere senza commiserazione e a testa alta…

La cultura occitana non è assolutamente considerata, e noi italiani spesso non sappiamo dell’esistenza di una comunità occitana sul nostro territorio. Ci vuoi parlare un po’ di questa cultura e di cos’è l’Occitania?


L’Occitania è questa strana creatura, una nazione senza Stato, che si estende dai Pirenei alle nostre vallate delle alpi occidentali, dal Massiccio Centrale al Mediterraneo, alla Guascogna e al delta del Rodano, dalla Val d’Aran in Spagna alle vallate occitane dello Stato Italiano.
Siamo un insieme di comunità che, non avendo mai avuto un’entità statale che le riunisse tutte, ha creato non una ma più culture occitane. Potremmo definirle “culture federate”, una sorta di diaspora su un vasto territorio.
L’Occitania ha radici antiche: proprio quest’anno ricorrono gli ottocento anni dalla battaglia di Muret del 1213, dove gli occitani sono stati definitivamente sconfitti dai francesi. Noi vogliamo quest’anno commemorare quell’evento sicuramente con delle canzoni, che probabilmente andranno a comporre un disco, e sicuramente con un concerto che faremo a Muret.
Fra l’altro le valli italiane sono quelle dove l’identità occitana è più forte, forse perché siamo un po’ i "guardiani” della porta orientale dell’Occitania, siamo popolo di frontiera che quindi sente di più l’esigenza di coltivare le tradizioni e le radici.

Sergio, sei polistrumentista e cantante, un po’ la “colonna portante” del gruppo Lou Dalfin, parlaci un po’ di come ti sei avvicinato alla musica in generale e a quella tradizionale in particolare, ai suoi strumenti e alle sue sonorità.

Per me l’avvicinamento  alla musica ha coinciso con l’avvicinamento alla musica tradizionale e popolare. Io inizio a suonare sull’onda del movimento folk e del folk revival, con l’onda lunga proveniente dall’America ma non solo, molto presente durante gli anni settanta. Figure come Giovanna Marini e Michele Straniero in Italia hanno avuto un ruolo importante a far nascere la passione per questo genere musicale. Da questo capisci bene anche che il canto popolare veniva interpretato con una forte connotazione politica.
In seguito mi sono “guardato intorno” e ho visto che vivevo in una vera e propria miniera di cultura, di tradizioni. Nelle valli occitane la gente continua a parlare la Langue d’òc, non è folklore, un orpello ostentato ma non vissuto: è cultura viva. Ecco guardando la realtà in cui ero nato e dove vivevo, ho scoperto un repertorio straordinario di musica, di strumenti, ma anche di immaginario: l’epopea dei suonatori ambulanti di ghironda è ancora viva nei ricordi della nostra gente.
Il mio avvicinamento a queste tradizioni e a questa musica avviene, quindi, in modo molto naturale, familiare. Poi la cultura della mia gente è naturalmente proiettata oltre, nei ricordi e nelle storie: va oltre le valli delle Alpi italiane, va oltre l’arco alpino. C’è nell’aria il sentimento del viaggio, del “contrabbando” di cultura, di suoni, di storie, di poesia.

Parli anche del ruolo sociale, quasi politico, del folk. In che modo vivi questa dimensione nella tua musica? Non solo cantare la montagna e le sue tradizioni, ma anche cantare per riappropriarsi della montagna e del territorio, dunque?

L’identità è strettamente legata al territorio, a elementi di base che non si possono tralasciare: la società, l’economia.
Molto banalmente c’è la rappresentanza, il desiderio di autonomia: il nostro vasto territorio è sparpagliato fra collegi elettorali, la montagna come territorio e quindi come esigenza è dispersa in un mare di altri territori e di altre esigenze. La nostra montagna quindi soccombe e non ha rappresentanza.
Solo con la lingua non si va da nessuna parte, io credo: se la montagna non viene messa nelle condizioni di decidere dei propri destini non si va da molte parti.
A me non va di suonare per le nostre montagne se vuol dire suonare per valli spopolate o asservite. Ad esempio sono a fianco delle rivendicazioni della Valle di Susa contro il TAV, questo lo considero non farsi calpestare.

La ghironda è una tua passione, simboleggia in qualche modo tutto quello che stai dicendo sulle tradizioni, sulla gente, sulle storie. Da un lato l’epopea dei suonatori di ghironda che tu racconti, un po’ come moderni musici erranti, che viaggiano “contrabbandando” una cultura. Dall’altro paragoni questo strumento, per forma e caratteristiche, ad una nave, con la chiglia e la polena, simbolo del viaggio e dell’andare oltre. Parlaci un po’ di questo strumento, così strano e complesso, che ad oggi è caduto un po’ nel dimenticatoio.


Ecco tu dici “è caduto”, ma io cambierei il tempo: ERA caduto nel dimenticatoio. Dalle nostre parti l’ultimo musico di ghironda è morto nel 1935, ma se tu fossi stato qui il 4 di giugno avresti visto il concerto della Grande Orchestra Occitana, avresti visto trenta ghironde suonate da persone fra i dieci e i sessantacinque anni.
E’ uno strumento che si era estinto, ma rimaneva ancorato all’immaginario attraverso storie e ricordi. Così è  stato possibile farlo rivivere, in qualche modo “reinventare” una tradizione.
Qualcuno ha detto che una tradizione è veramente morta quando la si difende invece di inventarla. Ecco, noi la tradizione l’abbiamo inventata: a noi non rimaneva nemmeno una registrazione, su nessun supporto, di come suonavano la ghironda i vecchi suonatori erranti che anche tu citi nella domanda. Ci siamo basati sui ricordi e sui racconti che ancora erano ben presenti quando abbiamo iniziato, negli anni Settanta e Ottanta, e oggi è tornato a pieno titolo nell’immaginario e nella pratica del nostro territorio. Tutto questo nonostante la ghironda sia uno strumento complesso, con cui non puoi fare tutto. Lo stesso vale ad esempio per la cornamusa: non ci puoi fare tutto, ma è importantissima nella musica e nelle tradizioni scozzesi.
Il repertorio della ghironda, però, si è anche evoluto. Noi non facciamo e non vogliamo fare musica "tradizionale”, noi vogliamo fare musica “popolare”: di norma fra gli strumentisti tradizionali avevi soprattutto persone di estrazione sociale alta, alta cultura e provenienza urbana che si mettevano a suonare questi strumenti mentre la gente delle valli ascoltava tutt’altro. Questo esercizio di stile era percepito come la ricerca del “buon selvaggio” da parte di dotti professori. Noi abbiamo cercato di fare una musica per quelli che vogliono andare alle feste, divertirsi, ballare, insomma quelli che volevano usare la musica popolare per lo scopo che più le è proprio: aggregazione e festa.
Insomma tutto si è evoluto: il modo di stare di strumenti come la ghironda assieme ad altri strumenti, sempre nel rispetto degli stilemi della musica popolare e della danza tradizionale, ma si sono rinnovati testi e armonie.

Quindi questa riscoperta e reinvenzione della tradizione vuol dire anche una “riconquista” dei giovani alla musica tradizionale e popolare?

Assolutamente! Da noi si stanno sviluppando tantissimi gruppi che, con ghironde, cornamuse, flauti, fisarmoniche, violini fanno una musica che unisce le sonorità e gli strumenti della musica contemporanea: basso, batteria, chitarra elettrica e musica elettronica. Insomma, questa commistione di stili è normale, è naturale.
Ad esempio a Parigi nell’ottocento la colonia occitana che viveva lì portò con sé le sue cornamuse, addirittura le reinventò come strumento, creando la Cabrette. Ciò è stato importantissimo per la cultura festiva parigina, c’erano centinaia di locali in tutta la città dove i parigini andavano a ballare sul suono della cornamusa. Poi a questo si sono aggiunte le fisarmoniche, strumenti quindi più moderni, creando nuovi generi musicali e nuove sonorità: il Bal Musette, ad esempio, è nato da questa esperienza.
L’importante è avere un’identità e sapere chi si è, a quel punto non si ha più paura di cambiare e di andare avanti.

Ora parlaci un po’ del tuo gruppo, i Lou Dalfin, che tanto sono attivi nelle valli occitane.

Noi siamo nati nel 1982 come gruppo “standard” di folk revival. Io personalmente avevo già qualche idea su come andare oltre la semplice musica tradizionale, legare gli strumenti e l’atmosfera tradizionali a elementi più attuali. Avevamo anche provato a fare un altro gruppo ma abbiamo dovuto smettere in fretta perché rischiavamo il linciaggio, c’è una corrente “purista”, “passatista” nel folk che non accettava questo tipo di commistioni. Quel tipo di musica all’epoca era considerato come unire il diavolo con l’acqua santa.
Quell’idea, che poi è quella che sta alla base dei Lou Dalfin di oggi inizia nel 1990.
L’idea è di vivere la musica come viene, anche se è tradizionale, di divertirsi facendo musica. Ma senza un "progetto”, io detesto il termine “progetto” riguardo alla musica. Quando hanno inventato il blues mica si sono messi a tavolino a pensare di unire la musica nera con le musiche dei bianchi, loro entravano nelle case chiuse e suonavano con le loro idee e sensibilità ed è nato un genere. Noi abbiamo fatto le stesse cose: siamo andati nei bar, nelle piazze, nelle feste della birra, a suonare e a far divertire la gente. E’ nato così un genere, la Danza Canzone, cantata in occitano, con una commistione di vecchio e nuovo, nel rispetto dei canoni della danza tradizionale.

Oggi avete all’attivo anche molte collaborazioni nazionali ed internazionali con artisti affermati: da Roy Paci a Bumma degli Africa Unite, dai Subsonica, ai Massilla Sound System, alle Yavanna.

Sì certamente, noi cerchiamo le collaborazioni e le “contaminazioni” con altri paesi e con altri gruppi, penso ad esempio al vecchio lavoro con i Sustraia, un gruppo basco. Oppure i Massilla Sound System che sono i nostri omologhi marsigliesi, che portano influssi più fortemente “urbani” attraverso un genere come il Raggamuffin, mentre noi rappresentiamo una cultura più rurale.

Quello che mi dici sembra il perfetto antidoto contro i pregiudizi che vengono affibbiati a tutto il mondo tradizionale, di montagna e legato alle minoranze linguistiche: il pregiudizio di essere culture chiuse e morte, indisponibili al cambiamento.

Ecco difatti io sono sempre stato convito che se dobbiamo celebrarci e commiserarci, comunque solo ricordarci di noi stessi, lasciamo perdere. Se si deve vivere si vive con dignità, creatività e a testa alta.
Per carità, mai dimenticare il passato, anzi quello è la base. Ma non pensiamo che il passato sia stato l’età dell’oro, quell’età non è mai esistita. Una tradizione bisogna inventarla continuamente, se no è meglio lasciar perdere.

Dal 2000 siete diventati associazione. Quali progetti avete attivi, e avete qualche prospettiva futura in cantiere?


Per ora quello che facciamo è già moltissimo, fare anche solo questo ci basterebbe: organizziamo corsi nelle scuole, corsi di musica e strumenti tradizionali e di danza, abbiamo creato la Grande Orchestra Occitana che raccoglie un centinaio di musicisti, organizziamo feste e balli, abbiamo una banda di ghironde. Organizziamo seminari e abbiamo dei progetti sul mestiere del liutaio e altri seminari che hanno l’intento di creare nuove professionalità.
Il tutto fatto con pochissimi aiuti da parte del pubblico. Solo recentemente lo Stato Italiano si è interessato a noi, e lo ha fatto mandandoci un’ispezione dell’agenzia delle entrate.

Sergio Berardo con i Lou Dalfin sarà al Festival "Tra le Rocce e il Cielo", in Vallarsa, la sera di sabato 31 agosto. L’accesso al concerto è libero.


 Ludovico Rella
ludovico_rella@yahoo.it

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