giovedì 30 giugno 2016

La giustizia non è decimare il nemico

Intervista a Carlo Ancona

Nato in Abruzzo nel 1948, il giudice Carlo Ancona è arrivato Trento a inizio carriera. Si è occupato del caso della Sloi (1978) e del disastro di Stava (1985). Il dott. Ancona è un appassionato di storia e di montagna. È socio SAT e tra i membri del consiglio direttivo del Trentino Film Festival.





Giudice Ancona, davanti all’invito a parlare del processo a Battisti ha subito accettato. Cosa l’ha spinta a partecipare a questo evento?

La forza di un territorio non sono le sue disponibilità finanziarie o la perfezione dei suoi ordinamenti, ma la passione civile collettiva, il desiderio di partecipazione, discussione, chiarezza; ed allora è importante un incontro sulla memoria collettiva di un territorio, sulle ragioni dello stare insieme da cittadini. È meglio parteciparvi, che semplicemente assistervi. 


Quali sono gli aspetti che come giudice trova più interessanti riguardo la vicenda del processo a Battisti?

Come giudice, un ulteriore monito a quale povera cosa si riduca la giustizia, quando si trasforma in esemplare desiderio di ammonizione, in strumento di decimazione nei confronti di chi viene additato come nemico. Negli anni del terrorismo, abbiamo vinto perché non l’abbiamo stravolta, trasformata in “giustizia del nemico”, diventando “gli uomini dell’ira”; ma spesso mi chiedo anche oggi se questo sia davvero chiaro a molti miei colleghi, pubblici ministeri o giudici. 


E come appassionato di storia?

La compassione e il rimpianto; come per Carlo Rosselli nel 1936, come per alcuni giudici uccisi negli ultimi decenni, la constatazione che la morte violenta colpisce i migliori, quelli che avrebbero potuto dare qualcosa di più agli altri, lasciando soli ed impotenti noi poveri e deboli testimoni della loro avventura; oltre naturalmente a tutti gli altri, tra cui i molti che richiamano il loro nome ad alibi delle loro povertà.


Lei si interessa soprattutto di storia militare della Grande Guerra. Quali sono gli aspetti che più attraggono i suoi interessi su questo tema?

La storia militare mi interessa perché scava a fondo, esprime l’essenza di una situazione storica, il momento più cruento e la prova più difficile di una nazione; a cominciare dalla Roma repubblicana dopo Canne, o meglio ancora dopo le forche caudine. La Grande Guerra ha visto passare in pochissimo tempo la guida della storia altrove, allontanando dall’Europa e dalle sua cadenti aristocrazie il governo del mondo; grande affresco di ecatombe ad effetti maltusiani, rottura di equilibri da tanto tempo in bilico. Non vi sono paragoni nella storia.





Nicola Spagnolli



Domenica 17 luglio a Forte Pozzacchio alle ore 17 Appello alla storia: Il processo a Cesare Battisti



martedì 28 giugno 2016

Donna e comunità ladina, tra tradizione e contemporaneità

Intervista a Olimpia Rasom


Il lavoro di Gana Magazine racconta la donna e la donna ladina con modernità ed entusiasmo. La redazione sceglie la promozione e non la tutela della lingua e della cultura ladina con un approccio nuovo e fresco.

Non capita spesso di parlare con una persona e di comprenderne subito la passione e la motivazione che la muove. Chiacchierando con Olimpia Rasom, redattrice di Gana, la passione e la motivazione viene subito fuori, è centrale nel suo impegno, è determinante nelle sue scelte. 
Dalle sue parole e dai suoi silenzi, dalle pause di riflessione che l'autrice si riserva prima di dare alcune risposte, salta fuori un quadro complesso ed eterogeneo come complesso ed eterogeneo è ogni quadro che ritrae una donna. La sua attività di scrittura, si coniuga con gli impegni professionali e familiari e si connota di un impegno civico tutto incentrato sulla donna e sulla comunità ladina. Il suo impegno, portato avanti con consapevolezza e coraggio, viene raccontato con la leggerezza e l'entusiasmo che solo la passione e il divertimento riesce a dare.

Sul sito di Gana, di cui avremo modo in seguito di parlare più approfonditamente, Olimpia Rasom scrive, nella sua breve presentazione: “Da quando ho iniziato la ricerca per il mio dottorato sulle donne ladine, non ho più smesso di scrivere con loro”. Le abbiamo chiesto di spiegarci questo “con” che è carico di significato e lei ci specifica che la sua scrittura è una “scrittura corale” totalmente volta “a dare voce” alle donne che così diventano protagoniste assolute dei sui testi. Come sarà più chiaro dalle sue risposte, l'attività della Rasom è volta ad un impegno costante e entusiasta nella promozione della figura della donna e della comunità ladina, a discapito, verrebbe quasi da dirsi, dall'egocentrismo tipico di alcune firme della letteratura più incentrate a scrivere testi che non solo altro che un riflesso narcisistico della loro essenza. 

Ma procediamo con ordine e iniziamo a conoscere la studiosa Rasom.



Ha svolto un dottorato sulle donne Ladine. Cosa ha indagato e con quale finalità e metodologia?

L'idea era di vedere che tipo di pensieri hanno le donne ladine quando si parla di lingua ladina, cultura ladina e ladinità. L'obiettivo era dare voce ai pensieri delle donne sui temi discussi dalla politica, sui temi di tutela della minoranza e della cultura ladina. Ho realizzato numerosi focus group e interviste nella Val Gardena, Val di Fassa e Val Badia, suddividendo le intervistate secondo varie categorie, l'età, la professione e il ruolo nel processo di promozione culturale e linguistica. È stata una ricerca molto interessante per me e per le donne coinvolte perché ci ha costrette a cercare dei significati sull'identità ladina. L'identità è implicita nel nostro essere, ma essere una minoranza ci obbliga ad un'autoriflessione, alla presa di coscienza del sé e alla ricerca del senso di essere ladini. Il mio obiettivo era andare oltre le dinamiche riduttive che vedono una cultura rappresentata e rappresentarsi solo tramite caratterizzazioni per certi versi liminali, come il mero vestito tradizionale. Volevo esplorare quanto l'apporto femminile avesse giovato, migliorato o semplicemente modificato la politica di tutela che viene, di norma, portata avanti solo da uomini. 


Quali sono stati i risultati della sua ricerca? 

Sicuramente è emerso un forte legame con il territorio. Il fatto che questa comunità abbia fatto sopravvivere una lingua come il ladino per duemila anni è sintomo che il legame con questa lingua e con la cultura che questa rappresenta, molto ci spiegano della suo radicamento. La cosa interessante è stato vedere come le donne rappresentano se stesse come “ladine”. Avevo chiesto loro di portare un oggetto che le facesse sentire legate al mondo ladino e sono rimasta molto sorpresa dalla libertà che le donne si sono prese: chi ha portato delle fotografie di famiglia, chi una tesi di dottorato, chi un documento programmatico per la tutela dei ladini degli anni ’70, chi un fiore del cappello dei coscritti del padre. È stato interessante osservare come le donne si rappresentano e soprattutto come liberamente si situano nella realtà ladina. Il risultato più importante è però quello di aver provocato un piccolo cambiamento qualitativo nella realtà delle donne che hanno partecipato alla ricerca. E questa è stata una bella soddisfazione. 


Quando è stato difficile coinvolgere le donne in questo lavoro di ricerca? 

Il coinvolgimento in sé non è stato difficile, le donne hanno voglia di raccontare e di raccontarsi. Se c'è stata una difficoltà c'è stata nella misura in cui la donna ha una vita molto frenetica e piena di responsabilità che spesso le ostacolava nella partecipazione attiva alla ricerca stessa.


Partecipare ad una ricerca come questa, però, mette la donna quasi in un ruolo pubblico, che di solito non le è concesso. Quanto questa presa di posizione è stata difficile? 

Le donne non la vedono in questo modo. Tutta la politica rimane gestita dagli uomini e questo, se da una parte è un aspetto negativo e limitante per il ruolo delle donne, dall'altra le libera da qualsiasi restrizione di sorta. Non sentono la responsabilità di parlare a nome di... ma si sentono libere di potersi raccontare senza dover scendere, necessariamente, sul terreno delle politiche. 
Tuttavia, la sola partecipazione ad un lavoro di questo tipo riveste la donna di un ruolo nuovo...
Indubbiamente! Ma non so quanto ne sia consapevole. 


E quanto perdiamo di questa mancata consapevolezza? 

È una medaglia con due facce. Da un lato questa inconsapevolezza la rende libera, dall'altro le rende non soggetto. Pensando alle donne che hanno lavorato con me a questa ricerca, però, non posso non notare come proprio il processo di autoriflessione sul proprio sé sociale le abbia rese maggiormente consapevoli della loro peculiare cifra culturale e proprio in ragione di questo le abbia rese soggetto, parte attiva nella promozione e salvaguardia della cultura. Inevitabilmente, l'interrogarsi procede coscienza e la coscienza modifica la realtà. 
Tuttavia, la consapevolezza è ancora poca, queste chiacchiere o modi di pensare rimangono cose 'da donne', la politica rimane ancora troppo un affare da uomini.


Gana è sicuramente un progetto ambizioso, una rivista complessa e moderna che pone proprio la donna al centro del suo focus e tramite le sue parole e i suoi occhi racconta la cultura ladina, ma non solo, anzi, Gana tradisce proprio quello che potremmo aspettarci da una rivista scritta in una lingua madre come il ladino. Qual è l'idea di base che vi ha ispirato? 

Noi volevamo trattare argomenti che era possibile trovare solo in altre lingue, volevamo guardare la società ma con una prospettiva femminile.


Ci fa un esempio? 

Tutti gli articoli presenti su Gana, tutti scritti in ladino, non avrebbero avuto spazio da nessuna parte. Forse alcuni avrebbero trovato posto sul settimanale ladino “La Usc”, che è la rivista più diffusa in ladino, che però ha più un taglio legato alla realtà e alla cronaca. Mentre con Gana cerchiamo di coprire una fetta della letteratura che al momento è priva di un canale di comunicazione, infatti, i nostri articoli spaziano dalla ricetta di cucina, al reportage di viaggio, alla critica letteraria o artistica fino a giungere agli articoli più accademici e scientifici. 


Gana è terribilmente contemporanea, è una rivista che tutela e promuove la cultura ladina senza, nei fatti, mai vincolarsi alle pratiche di tutela delle lingue minoritarie. Quando è difficile portare avanti un progetto di questo di tipo? Quanto è complicato farsi promotore di una lingua e di una cultura minoritaria senza mai prestare il fianco a pratiche che potrebbero portare alla cristallizzazione della cultura stessa e all'anacronismo? 

Il nostro obiettivo era proprio quello. Il fatto di poter scrivere di qualsiasi cosa che succede in valle o nel mondo mette il ladino allo stesso piano di una qualsiasi altra lingua, che sia l'italiano, il tedesco o l'inglese. Infatti noi [la redazione di Gana] senza volerlo non parliamo mai di minoranza etnolinguistica, il ladino, in Gana, è una lingua come le altre, e come tutte le altre lingue viene impiegata per parlare di quanto coinvolga il mondo e le donne. Il nostro approccio parte proprio dalla presa di coscienza che il ladino è una lingua con cui si può vivere nel mondo, il nostro approccio è finalizzato alla promozione dell'uso del ladino, non alla sua mera tutela. Il lavoro di Gana è culturale, è un lavoro che va oltre il lavoro di tutela della lingua e della cultura che c'è già e che viene sempre fatto. 


Quanto è difficile fare un lavoro di questo tipo? 

Difficile non è, ci vuole solo tanto tempo. La quotidianità è ricchissima di fatti da raccontare. Ma abbiamo tutte un lavoro, una famiglia e anche altre passioni. Se una difficoltà può esserci è quella, il fatto che noi portiamo avanti Gana con la passione e la volontà di fare una cosa che ci stimola e ci diverte ma che non è l'unica cosa che caratterizza le nostre vite e i nostri impegni.


Qual'è la storia di Gana? 

Gana nasce nel 2007, parte con una certa incoscienza, dalla volontà mia e delle mie colleghe di creare una cosa carina ma senza nessuna pretesa di diventare quello che poi è diventata. Gana parla di donne ma è il frutto della volontà di un gruppo di donne che davanti ad un caffè o al bar davanti ad un aperitivo iniziano a pensare e a creare qualcosa, a buttare giù delle idee. Gli sviluppi successivi, però, sono stati inattesi e così abbiamo avuto la necessità di fermarci e di fare il punto della situazione. Gana stava crescendo e meritava che anche noi come redazione chiarissimo intenti, finalità e modalità. 
Oltre a tutta la parte più tecnico-burocratica abbiamo dovuto anche soppesare il carico di lavoro che gravava sulle nostre collaboratrici in un progetto che cresceva e crescendo si complicava e si ampliava.


Come è cresciuta, cambiata Gana? 

Gana nasce come rivista cartacea e vengono pubblicati 21 numeri. Le pubblicazioni si fermano per circa un anno e mezzo, durante la pausa riorganizzativa strutturiamo e inauguriamo il sito web e decidiamo di affiancare alla rivista on-line una pubblicazione annuale cartacea. Naturalmente essendo un'attività che facciamo per passione, tutto il coordinamento e la parte burocratica è la parte del lavoro più gravosa ma, fortunatamente, abbiamo numerose persone che hanno voglia di collaborare con noi e di dare il loro contributo alla crescita di Gana.
Il numero cartaceo pubblicato dopo la pausa delle pubblicazioni è un numero monografico sulla guerra, azzarderei a dire che è un numero maturo, ha un carattere ben preciso. In quel numero Gana mostra la sua piena identità.


Come avete indagato il fenomeno della guerra rimanendo centrate sulla donna e sulle questioni di genere? Ci racconti un po' l'ultimo numero di Gana? 

L'idea di questo numero è di qualche anno fa, avevamo iniziato a parlarne nel 2012 o 2013. Avevamo voglia di fare qualcosa sulla Grande Guerra, visto che si avvicinava il centenario, ma per il momento accantonammo il progetto. Dovevamo chiarirci su cosa volevamo in questo numero, su come trattare l'argomento senza cadere nella retorica, nell'anacronismo o in un mitizzazione dell'impero asburgico. Volevamo staccarci da un rimando eccessivamente territoriale e focalizzare l'attenzione sulle donne dell'area di confine, che è proprio l'area ladina. 
Non potevamo, però, non tener conto del fatto che è tutto connesso quindi abbiamo preso in considerazione studi di carattere più generale, tralasciando naturalmente gli studi accademici sui conflitti, la politica e la diplomazia, e ci siamo incentrate sul ruolo femminile e sulle vite delle donne che il conflitto l'hanno vissuto. 
Apriamo il numero con il contributo di Luciana Palla che è per noi la storica ladina di riferimento che ha svolto studi sul popolo ladino con particolare attenzione per il periodo che va dalla fine dell'800 ai primi del '900. Dopodiché abbiamo spaziato in vari ambiti concentrandoci sempre sul ruolo della donna, letto e osservato da vari punti di vista. 
In quest'ottica si trova il contributo di un ricercatore di Vienna che ha fatto la tesi di dottorato sulle donne e la Prima Guerra Mondiale; l'intervista alla storica Siglinde Clementi che si occupa di emancipazione femminile prima e dopo la Grande Guerra; abbiamo dato spazio alle storie del quotidiano, a quelle magari tramandate oralmente; abbiamo sviluppato tutta una ricerca iconografica recuperando moltissime fotografie di donne durante la Prima Guerra Mondiale, la maggior parte delle quali recuperate al museo storico di Rovereto e su queste abbiamo scritto dei piccoli articoli didascalici; Ingrid Runggaldier ha fatto un gran lavoro sulla Bertha von Suttner che è stata una grande pacifista austriaca, derisa da tutti ma col senno di poi si può dire che aveva tutta la ragione di questo mondo a lottare per fermare la guerra; io ho studiato la corrispondenza epistolare che Maria Piaz inviava alla famiglia dopo essere stata internata per tre anni in un campo di internamento vicino a Vienna. Maria Piaz fu la prima donna che puntò tutto sul turismo, aprendo un rifugio al Passo Pordoi già agli inizi del Novecento. Questa è una cosa molto importante perché la donna ladina, proprio tramite l'investimento nel settore turistico riesce, il più delle volte, ad emanciparsi e in questo Maria Piaz fu una pioniera. Il turismo ha segnato tutta la storia del nostro territorio, che riuscì a svilupparsi proprio grazie al settore turistico. C’è poi un bellissimo articoli di Matteo Ermacora sulle donne dei territori italofoni dell’Impero asburgico che venivano mandate lontano da casa dal Governo italiano (dopo che questi avevano occupato i territori al confine). Sono storie tragiche e tremende che finalmente possiamo conoscere.
Nell'analisi delle lettere di Maria Piaz ho analizzato come questa donna riuscisse, anche a distanza e tramite la scrittura, ad essere comunque una figura presente ed educativa per i suoi figli. A questi articoli più di impianto storico ci sono quelli, invece, collegati alla contemporaneità, quindi, penso a quello di Lucia Gross su Teresa Sarti e Cecilia Strada e il ruolo di promozione sociale della donna che porta avanti Emergency o quello di Anna Mazzel sulle figure di Ilaria Alpi e Anna Politkovskaja e sul ruolo della donna in contesto di guerra, sui rischi che queste donne corrono per poter testimoniare la storia e il sacrifico della vita stessa per testimoniare la verità. 


La storiografia ci ha abituati a trattare la guerra come un affare solo degli uomini. Tendenzialmente la donna nei conflitti è meramente e passivamente vittima. Che quadro avete dato della donna ladina nel Primo Conflitto Mondiale? 

Nel bene, ma in questo caso. Nel male la guerra è molto democratica nella sua atrocità e su questo non si può fare un distinguo tra donna ladina e non. Il conflitto si è abbattuto su queste donne disgregando le loro famiglie e costringendole a farsi pilastro unico della famiglia e in qualche modo della società stessa. Le donne, private dei loro mariti, hanno dovuto sopperire anche alla mancanza fisica dei loro congiunti, facendo le loro veci, facendosi più forti per coltivare la terra ma senza la possibilità di migrare, possibilità che avevano gli uomini in tempo pace, perché nonostante tutto rimanevano legate e fondamentali per il nucleo familiare e i bambini.


Quanto materiale storiografico abbiamo in nostro possesso che ci permette di ricostruire le vite quotidiane delle donne durante i conflitti armati? 

Poco per quanto riguarda la storia delle donne ladine durante il primo conflitto mondiale. Proprio con Gana abbiamo avuto l'obiettivo di far riflettere uomini e donne su quelle storie. Molta memoria è andata persa, molta memoria storica collettiva non è sopravvissuta fino ai giorni nostri anche perché gli studi di genere sono iniziati molto tardi. È sopravvissuto qualche diario che ci da uno spaccato della vita che conducevano queste donne ma questo tipo di testimonianza perde di valore quando viene accostata alle testimonianze degli uomini impiegati al fronte. 
Sicuramente un approccio alla storia che potrebbe essere definito maschilista ha ed ha avuto il suo peso.
Sicuramente, ma va aggiunto il fatto che nelle valli Ladine, un tipo di ricerca di questo tipo è tuttora molto scarsa e molto recente. La strutturazione di un lavoro di questo tipo è un lavoro da costruire, è un percorso in divenire in cui siamo solo all'inizio.


E le donne, ladine e non, hanno voglia di farlo? Sono motivate a svolgere una ricerca finalizzata alla costruzione della loro identità storica femminile? 

Le donne lo fanno già. Le donne sanno che devono lavorare per far riconoscere uguale dignità al loro punto di vista e alla loro storia nei confronti degli uomini. Negli ultimi anni, questa corsa alle pari opportunità, questa corsa a diventare come i maschi porta molte donne ad interrogarsi sulla femminilità, femminilità che non è lo specchio della mascolinità, non deve essere identica alla mascolinità, ma deve riuscire a far riconoscere la sua unicità. La donna vive, al momento, una fase di transizione, una fase caratterizza anche dalla grande eterogeneità e dalla mancanza di un movimento unitario di matrice femminista.


Non pensa che in una società come la nostra che è indubbiamente maschilista, il pericolo per le donne siano, in alcuni casi, alcune donne stesse?

Sicuramente. Il ruolo e la figura della donna è spesso vilipesa da una forma mentis peculiarmente maschile, ma anche la mancata indignazione di molte donne per la situazione attuale porta a risultati disastrosi. Attualmente le nostre strade sono tappezzate da una pubblicità sulla sicurezza stradale di cui mi sono occupata personalmente su Gana. I manifesti raffigurano una motociclista in shorts, tacco 12 e giubbottino di pelle con una protesi alla gamba a seguito di un incidente. Di quella vittima non si sa nulla e non si vede neanche il viso, ma solo gli abiti provocanti. Non riesco a pensare ad altro che la donna debba farsi complice di questo gioco maschilista e debba percepirsi e farsi percepire solo come oggetto erotico.


Carissima Olimpia, rimandiamo allora alla lettura del numero di Gana di cui abbiamo presentato solo alcuni degli argomenti trattati ma le chiediamo curiosi cosa c'è in programma per il prossimo. 

Idee, per fortuna o per sfortuna, ne abbiamo sempre tante. Stiamo ragionando principalmente su due filoni che potrebbero essere il fil rouge del prossimo numero. Il primo riguarda la donna all'interno dei processi migratori e il secondo, su idea della mia collega Ingrid Runggaldier, potrebbe essere incentrato sulla passione. Quindi su quello che muove ogni singola donna. Il secondo riguarda il tema delle migrazioni, in particolare di donne, di questo fenomeno che sta cambiando i nostri orizzonti e cambierà l’idea che ci eravamo fatte del nostro futuro.
Siamo ancora in fase di valutazione quindi dovrete aspettare il nuovo numero di Gana per scoprire quale tema avremo scelto e come lo avremo sviluppato.


Andrea Distefano





venerdì 24 giugno 2016

Siria, a sei anni dai primi movimenti di rivolta il conflitto persiste immutato e atroce

Intervista ad Asmae Dachan


La giornalista Asmae Dachan ci presenta il suo punto di vista sul conflitto, la sofferenza del popolo, le ambiguità della Comunità Internazionale e il ruolo attivo ed eroico della comunità civile che lotta per il futuro del suo Paese.

La guerra in Siria, scoppia il 15 marzo 2011. Inizia con dei moti pacifici di protesta contro il regime autoritario e diviene, in breve tempo, un conflitto nazionale che coinvolge l'intero Paese, genera milioni di profughi e uno dei genocidi più gravi degli ultimi tempi. Parliamo di quanto sta accadendo con Asmae Dachan, che abbiamo avuto già il piacere di avere come nostra ospite nell'edizione precedente e che ritorna per parlarci del suo popolo di origine e di quello che sta accadendo in Siria e nelle nazioni limitrofe in questo periodo. 


Dottoressa Dachan, come scrittrice e giornalista sta raccontando il dramma della guerra in Siria, ci racconta il suo ultimo anno professionale? 

Dopo un periodo di interruzione per motivi personali ho ripreso a scrivere con costanza e a gennaio sono partita per recarmi sul confine turco-siriano. Il mio intento era entrare in Siria ma non è stato possibile. 


Cosa hai potuto vedere lì?

In quella terra di confine ho visto una piccola Siria. Il numero dei profughi siriani in quei territori è elevatissimo e ci sono cittadine di confine in cui la popolazione è maggiormente costituita da siriani. 


Quale zone di confine hai visitato? E per quanto tempo?

Sono stata principalmente nella zona di Reyhanli e in una serie di villaggi lì vicino. Ho visitato principalmente siriani che non vivono nei campi profughi “istituzionali” che sono ormai al collasso e che invece si sono autoorganizzati e cercano di sopravvivere basandosi sulle proprie forze.

Quali sono le condizioni dei profughi siriani in Turchia?

In Turchia vi sono diversi campi profughi allestiti già nel 2011 a cui ne sono stati aggiunti altri quest'anno successivi all'ondata di profughi scaturita dall'offensiva di Aleppo. Chi ha la possibilità di accedervi benefici sicuramente di una situazione migliore rispetto a chi ne rimane fuori. Essendo campi gestiti in collaborazione tra le autorità turche e l'Unhcr, i profughi accolti lì hanno la possibilità di avere assistenza medica e un minimo di copertura economica. È sempre una vita precaria e terribile ma hanno sicuramente maggiore assistenza. Cosa ben diversa per chi si deve arrangiare con i mezzi propri al di fuori dei campi profughi.
In quei territori sono entrata in contatto con una rete di donne che hanno creato dal nulla un gruppo di solidarietà che, tramite il passaparola, riesce ad accogliere e seguire le nuove donne che arrivano sul territorio e che non sono accolte o non voglio essere accolte in una campo profughi. Si tratta di una rete di donne siriane, soprattutto vedove, che danno tutte le informazioni utili necessarie alle nuove arrivate. Questa rete di donne può segnalare la presenza di una donna, nella maggior parte delle volte, donne sole con bambini, alle Ong siriane presenti sul territorio e così innescare i percorsi di accoglienza e presa in carico. 


Com'è il rapporto tra il popolo turco e i profughi siriani in quei territori?

Questo rapporto io l'ho visto evolvere. Va detto che il conflitto in Siria dura da sei anni, un periodo di tempo più lungo perfino del secondo conflitto mondiale, per cui se nei primi anni i turchi provavano tanta solidarietà, accoglienza e pure un senso di pena nei confronti dei vicini siriani che non erano mai stati costretti a fuggire dal loro Paese, anzi, avevano accolto profughi armeni, palestinesi, iracheni, ecc. da quest'anno mi sono resa conto che con più di 3 milioni di profughi siriani registrati e migliaia di profughi clandestini si è arrivati ad una situazione di insofferenza. Nei villaggi di confine i siriani sono in maggioranza rispetto agli autoctoni, come dicevo, e inevitabilmente diventano un peso sociale. I siriani hanno in media un numero maggiore di figli rispetto ai turchi e questo ha messo in grave difficoltà il sistema scolastico e quello dell'assistenza pediatrica. C'è un clima di insofferenza ma allo stesso tempo mi sono resa conto che per quei villaggi di confine i siriani sono diventati una fonte di arricchimento. Per esempio, le Ong che operano in quelle zone hanno l'obbligo di assumere personale turco e poi, per quanto riguarda l'accoglienza, sono stati costruite palazzine fatiscenti che vengono comunque affittate a prezzi esorbitanti. Tuttavia, la presenza dei siriani mette a rischio l'incolumità dei turchi in quanto sono state bombardate le zone di confine e a seguito di questi bombardamenti sono stati numerose le vittime di nazionalità turca.


Lo sfruttamento dei siriani è anche da un punto di vista lavorativo?

Purtroppo molti siriani anche minori lavorano in nero e non hanno nessun tipo di garanzia sindacale. La situazione di sfruttamento coatto dei siriani è la medesima in Turchia, in Libano e in Giordania. Lo sfruttamento riguarda anche gli aiuti internazionali che, nella maggior parte dei casi, raggiunge i profughi solo in parte.


Ben coscienti che la situazione è molto lontana da una pacifica conclusione, cosa pensi che si dovrebbe fare per migliorare la situazione attuale in merito all'accoglienza e alla convivenza 'forzata' tra i popolo?

C'è da prende atto, innanzi tutto, che la situazione attuale non durerà per settimane o per mesi. Il conflitto in Siria, anche se non viene più coperto da un punto di vista mediatico, prosegue ed è terribile. Solo negli ultimi giorni sono stati bombardati ad Aleppo altri due ospedali di cui uno pediatrico. Il conflitto prosegue e quindi, non solo aumenterà il numero di profughi ma non si può sperare in un ritorno in patria dei siriani che sono fuori dai confini nazionali. Questo fa sì che si debbano cambiare le politiche dei paesi che stanno accogliendo i siriani. 
Per periodo così lunghi non si può pensare solo ad un'accoglienza assistenzialistica ma si deve pensare a dare a questi siriani gli strumenti per ricominciare a ricostruire una vita degna di questo nome. Offre delle opportunità lavorative, riportare i bambini sui banchi di scuola, molti hanno perso molti anni di studio, molti altri non sono mai stati alfabetizzati, dare alle donne la possibilità di riprendere in mano le loro vite sono le uniche strade percorribile per traghettare la situazione attuale da una condizione emergenziale ad una più stabile e duratura che possa portare ad una vera e propria integrazione e convivenza tra i popoli. Non più assistenza ma possibilità di accedere a percorsi mirati di formazione e di reinserimento socio-economico. Per esempio, molti di loro hanno delle qualifiche in Siria che, non essendo riconosciute nei paesi di arrivo, non gli permettono di lavorare. Questa è una grande perdita sia per i profughi sia per i Paesi ospitanti che perdono un enorme potenziale di risorse umane. 


Come definisci le scelte diplomatiche e politiche dell'Occidente in merito al conflitto in Siria? 

Rispetto a tutto quello che sta accadendo dobbiamo prendere atto che l'Europa ha accolto molti profughi siriani, pensiamo alla Germania, alla Svezia e al lavoro delle isole del sud Italia. In Italia non abbiamo assistito ai risvolti drammatici che abbiamo visto nei Balcani, non ci sono barriere, non c'è filo spinato, non ci sono i militari con i kalashnikov puntati ma ci sono le mani tese degli operatori delle coste. 
C'è da un lato da riconoscere che l'Europa sta accogliendo a differenza dei paesi del Golfo che, pur avendo in comune con la Siria una vicinanza culturale e linguistica, stanno facendo molto, troppo, poco. Dall'altro lato, però, c'è da dire che la comunità internazionale, quindi sia l'Occidente che i Paesi del Golfo, non si sono impegnati sul piano politico e diplomatico. 
Il conflitto in Siria va avanti, come dicevo prima, da sei anni e non è stata firmata una sola risoluzione dell'Onu che garantisca la fine delle ostilità, c'è sempre stato il veto della Cina e della Russia. Non c'è, secondo me, la volontà politica di porre fine alla mattanza dei siriani. La conseguenza di tutto questo è che, non solo i siriani stanno perdendo la propria patria, la propria storia, la propria identità ma è l'umanità stessa che sta perdendo moltissimo. Questo conflitto sta spazzando via l'esempio di una convivenza che era emblematica ed ispiratrice per il resto del Mondo. Una convivenza costruttiva e pacifica tra religioni ed etnie diverse.


Quali sono, secondo te, gli interessi per non finire questa guerra? 

Il fatto stesso che in un conflitto che stava già mietendo molte vittime sia entrato l'Isis ci fa capire che la guerra in Siria non poteva essere solo un conflitto che coinvolgeva un popolo e la sua lotta per rivendicare la propria libertà ed autonomia. L'entrata in scesa dell'Isis ha totalmente distolto l'attenzione da quella che era la causa del popolo siriano e ha creato degli scenari terrificanti che hanno di fatto allontanato quella parte dell'Europa che era solidale con l'iniziativa del popolo siriano. Le cause sono tante e diverse. 
La prima, sicuramente, è geografica. La Siria è un paese che ha dei confini molto importanti, da un lato c'è la Turchia, dall'altro l'Iraq e poi c'è la Terra Santa. Qualsiasi cosa si muova in Siria ha delle ripercussioni anche sui Paesi vicini e questo complica l'attività della comunità internazionale perché diventa faticoso vedere ri-disegnato un nuovo profilo per questo Paese. 
Poi c'è sicuramente da fare una riflessione sul petrolio e il gas naturale. Non fu un caso che la Russia decise, svariati anni fa, di sostenere Assad. Le era necessario avere una colonia nel Mediterraneo e quella colonia era la Siria. Per questo motivo, le navi russe sono al porto di Tartus già dal 2011. C'è un interesse che la Russia vuole tutelare e questo non porterà ad instaurare delle alleanze, ogni nazionale nello scacchiere globale farà di tutto per tutelare i propri interessi in una zona così importante e strategica.


In questo inferno che è la guerra in Siria, l'Italia ha un minuscolo primato positivo che è la realizzazione dei primi corridoi umanitari, cosa ne pensi?

Il gesto del Papa di andare sull'isola di Lesbo e di abbracciare sia i profughi sia chi li sta accogliendo tra mille fatiche è stato molto bello e molto significativo. È stato un fulmine a ciel sereno rispetto ad una Europa che sta costruendo muri e che srotola filo spinato ovunque e rispetto alla insensibilità dei Paesi arabi che non stanno accogliendo nessun profugo siriano. Quello è stato un gesto per dire che l'accoglienza si può fare e si deve fare. 
Ho trovato altrettanto simbolico, ma molto forte il gesto di portare in Italia 12 siriani. Il numero è emblematico, 12, come il numero degli apostoli. Quello è stato un messaggio di pace e di speranza; un gesto proteso ad umanizzare il volto di queste persone; c'era la volontà di non considerare i profughi come un problema ma di empatizzare con loro e con la loro storia. Quello che ha voluto fare il Papa è stato spingere la chiesa ad interrogarsi sul fatto che, se un popolo sta fuggendo e se sta fuggendo in quelle condizioni e per quelle vie disperatissime, è perché in Siria ormai non si può più vivere senza rischiare continuamente la vita. 
In Italia, con l'impegno della Comunità di Sant'Egidio, si stanno realizzando questi corridoi umanitari tramite i quali stanno arrivando le prime famiglie di siriani e proprio in quest'ultimo periodo sono stata molto impegnata a formare le comunità che si preparano ad accogliere le famiglie siriane. Partecipo frequentemente a degli incontri in cui parlare della Siria e della situazione attuale. 
Ho notato che le comunità che stanno accogliendo queste famiglie si stanno preparando al meglio perché non vogliono limitarsi all'assistenza, ma vogliono che la loro accoglienza sia anche un modo per riconoscere la sofferenza dei profughi e la ricchezza culturale che i siriani portano con sé.


I profughi siriani sono milioni, i corridoi umanitari sono l'unica possibilità per evitare i viaggi della speranza, ma secondo te, quanto sono praticabili percorsi di questo tipo su larga scala, visto che finora hanno impegnato solo realtà private?

I corridoi umanitari sono l'unica strada non solo per evitare le pericolosissime traversate in mare che tante vittime hanno mietuto ma anche sono l'unica strada per contrastare efficacemente i trafficanti di esseri umani perché dobbiamo renderci conto che i siriani, per passare da una città all'altra della Siria, e poi per oltrepassare i confini nazionali e infine per giungere alle coste libiche o turche o greche, hanno pagato e hanno pagato miliardi. Mi chiedo perché abbiamo fatto finta di non sapere, di non sapere che esistono gli scafisti, di non sapere che esiste la mafia del traffico degli esseri umani, perché non abbiamo permesso a queste persone di viaggiare e fuggire legalmente. Abbiamo lasciato questi disperati in mano alla criminalità organizzata e poi siamo pronti a commuoverci davanti alla foto di Aylan, siamo solo degli ipocriti. Perché Aylan non è stato né il primo né l'ultimo bambino vittima del mare e di questa guerra. 
Non c'è molta coerenza nel nostro agire e nel nostro pensare. Come dici tu, la comunità civile, le associazioni, le singole parrocchie sono più attive delle istituzioni che sono in stallo. Questo è un aspetto positivo che mostra la solidarietà e la sensibilità che caratterizza gli esseri umani, dall'altro però, l'indecisione delle istituzioni è allarmante. 
Per lavoro giro molto l'Italia e frequento numerosi convegni e lì noto come le persone hanno bisogno di guardare l'altro negli occhi e hanno bisogno di riscoprire la propria natura solidale, hanno bisogno di capire che se questo popolo continua a fuggire c'è sicuramente qualcosa che non è stato raccontato come doveva. Il fatto che siano stati bombardati altri ospedali in questi ultimi giorni e che questo non è stato riportato da nessun giornale è sconcertante. Non riesco a capire questa quasi omertà. Non possiamo parlare di assuefazione solo perché la guerra in Siria dura da sei anni, quando viene bombardato un ospedale pediatrico l'umanità dovrebbe essere sempre sgomenta e indignata. 


Qual'è il rischio di comunicare la guerra? Il filo sottile tra diritto di cronaca e morbosità è molto sottile. Nella comunicazione della guerra, nella fruizione delle notizie di un conflitto sanguinario come questo qual'è il tuo giudizio sul popolo italiano e sulla stampa italiana? 

Devo fare una premessa. Le notizie della Siria oggi arrivano da due canali. Il primo è quello degli ordini di stampa ufficiale e quindi dei media del regime che non sono liberi e che non racconteranno mai che l'aviazione del governo ha bombardato un campo profughi o un ospedale, ma faranno la solita tiritera per raccontare che sono state bombardate postazioni dell'Isis come se l'Isis fosse in qualsiasi angolo del mondo e della Siria. Dall'altro, c'è la stampa straniera che ha come unica possibilità, per raccontare il conflitto, quella di entrare in Siria come giornalisti embedded. In quel caso i giornalisti hanno le mani legati. Sono molto pochi coloro che riescono ad entrare nel territorio siriano come embedded e poi riescono a raccontare all'utente finale la vera realtà in tutta la sua complessità. Ai giornalisti è permesso muoversi solo a seguito delle truppe e da queste sono controllati a vista. L'unico modo efficace per avere notizie veritiere e approfondite è quello di seguire gli scritti dei freelance siriani ma questa è un'attività molto difficile e complessa che può fare un giornalista ma che sicuramente non è alla portata dell'utente finale comune. C'è proprio un problema oggettivo nel raccontare la Siria perché un giornalista indipendente, in particolar modo negli ultimi due anni, non riesce ad entrare in Siria, quindi, c'è la difficoltà ad avere informazioni autorevoli. 
Il secondo problema riguarda il fatto che il lettore di un giornale o l'usufruitore di un programma televisivo, il ragazzo che naviga tra siti e blog va educato e che la mancanza di questo sicuramente ne deresponsabilizza le scelte e le opinioni. Ogni giorno si parla dell'Isis ma mai questa organizzazione terroristica viene contestualizzata con accuratezza. Dalle notizie che ci giungono dai canali ufficiali sembra quasi che l'Isis si sia materializzato dal nulla, come dei marziani che sono atterrati sulla terra, e il continuo parlarne [decontestualizzato] permettere a questa organizzazione di monopolizzare le nostre menti e le nostre paure.
Quello che ne deriva è che l'ascoltatore più distratto ritiene che in Siria ci sia una guerra tra governo e Isis e ci si dimentica del popolo e della società civile. Questo porta a dimenticarsi dei moti di solidarietà nei confronti del popolo siriano che caratterizzano i primi periodi e porta a quello che è una vera e propria assuefazione alla guerra. Il fatto che in Siria ci sia una guerra rende normale il bombardamento di un ospedale pediatrico, è un danno collaterale che non scandalizza più di tanto. Il bombardamento di un ospedale che viola tutte le convenzioni internazionali, proprio per la sua gravità, dovrebbe essere sempre in prima pagina anche se diventasse, drammaticamente, routine. Come genere umano non possiamo abituarci, annoiarci, alla morte e alla distruzione della guerra. Così perdiamo pezzi della nostra umanità e in fine, noi stessi.
Il giornalismo deve andare oltre i fatti e i numeri, deve riportare le storie e le persone per riuscire a non rendere mai un conflitto e una strage, come quella che si perpetua in Siria, abitudine. 


L'Esercito Libero Siriano è un attore sociale in questo conflitto che con il passare degli anni si sta caratterizzando per luci ed ombre. Come è nato e come si sta evolvendo?

Proprio in questo mio viaggio ho avuto la possibilità di incontrare e intervistare, in una località segreta, uno dei fondatori dell'Esercito Libero. Lui è un uomo che è scampato a diversi attentati e nell'ultimo ha perso una gamba. È un morto che cammina perché su di lui pendono condanne a morte sia da parte dell'esercito del regime che dell'Isis ma è un uomo che non ha mai smesso di lottare. Mi raccontava che quando hanno fondato l'Esercito Siriano Libero il loro intento non era di uccidere ma di difendere i civili. Quello che è avvenuto in questi anni, però, è stato il frammentarsi della matrice originaria dell'esercito di opposizione e spesso, alcune di queste matrici hanno avuto derive violente e sanguinarie, gettando discredito e incertezze sull'intera opposizione siriana. 
Ad esempio, se parliamo di Jabhat al-Nusra parliamo di un'organizzazione molto discussa, entrata nella lista delle organizzazioni terroristiche, che si proclama come ente di opposizione ma che in realtà ha provocato la morte di migliaia di civili e il suo operato non sempre è riconducibile alle azioni di un popolo che si difende. Anche nell'Esercito Libero ci sono, poi, molti infiltrati. Ritengo comunque che ogni uomo che imbracci un arma non possa essere considerato un santo, anzi. Benché tutt'oggi le posizioni dell'Esercito Libero e i suoi moti ispiratori siano perfettamente condivisibili sono fermamente convinta che gli uomini che lo compongono, dopo anni di violenza, siano cambiati e siano diventati macchine da guerra, allontanandosi da quello che erano un tempo, militari disertori che si oppongono al regime totalitario a favore e a tutela dei civili. 
Ti faccio un parallelismo con l'Italia che forse è un po' forzato. L'Italia del secondo dopo guerra riparte sicuramente appoggiando le sue radici sull'esempio eroico dei suoi partigiani. Quanto l'Esercito Libero Siriano possa essere ispiratore per la nuova Siria che prima o poi risorgerà dalle sue ceneri.
Sicuramente i principi ispiratori da cui nasce l'Esercito Libero Siriano saranno ispiratori della nuova Siria. I principi sono i medesimi di sei anni fa, di quando ebbe inizio tutto e sono principi di grande forza e dignità. L'Esercito Libero nasce per frapporsi all'esercito del regime e per lasciare fuori dal conflitto i civili. Secondo la loro idea doveva essere una partita che andava giocata tra militari (disertori e non) tutelando l'integrità e la sicurezza del popolo e sempre secondo le loro idee la partita avrebbe avuto un epilogo veloce, tutto si sarebbe concluso nel giro di alcune settimane o alcuni mesi. 
Loro erano militari che avevano giurato si servire il popolo siriano e quello, disertando, volevano fare. Partivano dal paradosso che il popolo siriano era l'unico popolo al Mondo bombardato con le armi che avevano permesso di comprare con le proprie tasse. 
Io stessa, nelle mie riflessioni, faccio molti parallelismi con i partigiani italiani e quel preciso periodo storico ma penso che la nuova Siria, che risorgerà dopo il conflitto, lo farà partendo dalla società civile, quella società civile che è rimasta in Siria o che opera nei campi profughi e che, anche sotto i bombardamenti, continua a prestare il proprio servizio negli ospedali, nella protezione civile, nelle scuole. Quella parte del popolo che nonostante le atrocità e la morte ha scelto la non violenza, la cultura, la tradizione, la solidarietà. 
Queste persone non fanno rumore ma esistono e proprio queste persone stanno portando avanti la Siria. Ci sono donne che partoriscono nelle tende e possono farlo solo perché al loro fianco ci sono altre donne che le assistono e si prendono cura di loro. Ci sono medici e infermieri che lavorano senza sosta anche se privi di mezzi. Ci sono maestre che non hanno smesso di insegnare anche se le scuole sono state rase al suolo. I principi ispiratori della nuova Siria dopo tanti anni di regime e tanti anni di guerra verranno dal basso e fonderanno il Paese sulla tolleranza, la solidarietà e il pluralismo. 
Forse pensare a tutto questo oggi è un 'suicidio' ma io ci credo fortemente perché ho visto il popolo siriano lottare contro tutto quello che sta accedendo e l'ho visto mettere in campo il meglio che può essere generato dalla società civile.


Parli spesso di donne, quant'è difficile essere donna, madre, moglie in un conflitto?

Posso dirti che, e non penso sia un luogo comune, le donne pagano maggiormente il fatto di essere donne in un conflitto. Così come gli uomini le donne subiscono i bombardamenti, gli spari dei cecchini, l'assedio delle città che fa morire di fame interi quartieri e poi subiscono un'altra cosa terribile, di cui non abbiamo ancora parlato, che sono gli stupri. Dati di associazioni siriane che operano sul territorio parlano di centinaia di migliaia di casi di stupri contro le donne e contro le bambine. Sia dentro le carceri del regime, sia ad opera dell'Isis. L'arma dello stupro, come in molti altri conflitti nella storia, è un'arma potente. Sono numerosissimi i casi di stupri reiterati e i casi di gravidanze successive alle violenze. Mi chiedo sempre con quale forza queste donne riusciranno a portare avanti queste gravidanze e a crescere questi figli. Ed è terrificante pensare che per la quasi totalità di loro non ci sia la possibilità di usufruire di un sostegno psicologico, ma in un momento in cui in Siria mancano perfino gli antibiotici, figuriamoci se ci possono essere le risorse per assistere queste donne da un punto di vista psicologico. Al confine, invece, sono sempre più numerosi i centri di ascolto e le associazioni che prendono in carico i bambini che le madri non riescono a tenere. 
Allo stesso tempo, però, le donne stanno dando prova di una forza eccezionale. Nel territorio siriano sono molte le donne che hanno imparato il mestiere di soccorritore e collaborano con la protezione civile o quello di infermiera per lavorare negli ospedali da campo.
In un conflitto, specie in un conflitto lungo come quello siriano, la maternità diviene l'unica arma che una madre mette in campo per tutelare i propri figli dalla violenza e dalla devastazione che diviene la norma...
Quest'anno mi ha colpito molto l'incontro con donne che hanno preso in mano la situazione quando si sono rese conto che i figli venivano 'violentati' sistematicamente dalla guerra. In questi casi le donne hanno sacrificato loro stesse per normalizzare una situazione che di normale aveva ben poco. Molte di esse hanno iniziato a lavorare per permettere alla famiglia di tornare ad una routine pseudo-normale, molte si sono trovate costrette a subentrare al ruolo maschile per il bene del nucleo familiare. Capita, però, che in questi casi le donne si possano trovare prive del sostegno dei compagni che demoralizzati e sconfitti dal conflitto non trovano in loro né le risorse per reagire e rialzarsi, né la volontà di sostenere le loro consorti. 
È come se si creassero binari paralleli. Da una parte le donne, che cercano di trovare una soluzione a tutti i costi e dall'altra gli uomini, che non riescono a reagire e che non accettano che è la donna ad assumere un ruolo di primaria importanza per la sopravvivenza della famiglia. 
Le donne non hanno nessuna volontà di arrendersi. In un campo profughi, che ho visitato, ho conosciuto delle donne che hanno scritto un progetto, approvato e finanziato, per apprendere la professione da infermiera. Questo progetto ha coinvolto molte di loro, tutte giovanissime, che poi sono tornate in Siria a lavorare negli ospedali da campo.


L'ultima domanda di questa lunga chiacchierata. Lo hai accennato prima ma volevo chiederti di specificarlo meglio. Nei siriani c'è una sorta di risentimento nei confronti dei fratelli arabi che hanno avuto un ruolo più marginale, nel sostegno e nell'accoglienza, rispetto alla parte occidentale del Mondo. Quali sono i sentimenti del popolo siriani in merito?

Molti di loro si danno come giustificazione che molti popoli arabi sono nei guai fino al collo. Ad esempio molti siriani avevano trovato rifugio in Egitto e in Libia, poi queste nazioni sono cadute nel caos. Molti siriani si sentono abbandonati, specie dai paesi del Golfo. Sanno bene che arrivano fondi per l'assistenza e le tendopoli ma quello che vorrebbero dai fratelli arabi sarebbe un maggior coinvolgimento politico e diplomatico. Quello che loro percepiscono come tradimento e abbandono è proprio il fatto che molte nazioni arabe che hanno un peso di rilievo nei tavoli internazionali non si siano fatte portavoce delle necessità e delle rivendicazioni del popolo siriano.
I siriani, per esempio, riconoscono che il Libano, un paese molto piccolo, ha fatto sforzi disumani per accogliere un numero enorme di profughi mentre in Giordania i campi sono stati attrezzati in zone disumane e totalmente desertiche. La delusione siriana è continuata poi durante la rotta balcanica quando il loro cammino verso la salvezza è stato ostacolato da ogni sorta di barriera.
Il sentimento più generalizzato oggi tra i siriani è una sensazione di tradimento a livello mondiale, un sentimento che coinvolge sia i potenti Stati arabi ma anche e soprattutto il mondo Occidentale libero e democratico che non ha trovato la forza e la volontà di assistere e sostenere un popolo in fuga da un regime totalitario e da una guerra fratricida.


Andrea Distefano


venerdì 17 giugno 2016

Ci resta un nome | aperte le iscrizioni allo spettacolo di Cristicchi

La guerra e i suoi caduti. Le guerre passate e quelle in corso, e gli esseri umani che in questi conflitti hanno perso le loro vite. Sarà questo il tema della prima assoluta dello spettacolo “Ci resta un nome”, che vedrà in scena Simone Cristicchi come cantante e attore, nel suggestivo anfiteatro della Campana Dei Caduti.
Lo spettacolo andrà in scena domenica 21 agosto alle 21.15, sul colle di Miravalle di Rovereto e sarà l'evento di chiusura del festival Tra Le Rocce e il Cielo, il festival della montagna vissuta con consapevolezza che si svolge in Vallarsa e a Rovereto dal 18 al 21 agosto 2016. 

Già qualche anno fa, nel corso di una sua visita alla Campana dei Caduti, colpito dalla suggestione e dal valore simbolico di quel luogo, Simone Cristicchi  aveva espresso il desiderio di poter realizzare uno spettacolo da allestire in quello spazio.
Assieme a Tra le Rocce e il Cielo potrà finalmente concretizzare questo desiderio, mettendo in scena una rappresentazione da lui appositamente ideata per l'occasione, dal titolo “Ci resta un nome”. Uno spettacolo che parla delle guerre e dei caduti in conflitto, proprio all’ombra di Maria Dolens, campana dedicata ai caduti di tutte le guerre.

Cristicchi sarà in scena con il suo chitarrista Riccardo Corso, e con il Coro Pasubio di Vallarsa, con il quale condividerà l'esecuzione di alcuni brani legati al tema della guerra tratti dal repertorio della  tradizione alpina. 


Si parlerà delle guerre del passato e di quelle che ancora oggi sono presenti nel mondo, che sono la prima causa del fenomeno, quanto mai attuale di questi tempi, delle grandi migrazioni a cui assistiamo quotidianamente. 

Alle esecuzioni musicali si alterneranno, durante lo spettacolo, alcune parti recitate dall’artista, che in questi ultimi anni ha evidenziato doti da attore e narratore davvero straordinarie. I brani recitati si ispireranno a testi scritti per l'occasione dallo stesso Cristicchi, oltre che a testi a lui particolarmente cari che trattano il tema delle guerre.
Simone Cristicchi è da tempo impegnato nell'affrontare il tema delle guerre, basti pensare alle due pièces teatrali da lui scritte “Mio nonno è morto in guerra” e “Li romani in Russia”, per non menzionare la sua ultima produzione “Magazzino 18”, un bellissimo e struggente spettacolo che tratta lo spinoso e ancora controverso tema degli esuli istriani, spettacolo che negli ultimi tre anni ha ottenuto uno straordinario successo, registrando il sold-out in tutte le numerosissime repliche messe in scena  nei più importanti teatri italiani. 


Lo spettacolo CI RESTA UN NOME è gratuito e avrà inizio alle 21.15 con i rintocchi della Campana dei Caduti.
Per info e prenotazioni: Azienda per il Turismo di Rovereto in Piazza Rosmini 16, tel. 0464 430363.
Ingresso su prenotazione e comunque fino a esaurimento posti.

In caso di maltempo o condizioni meteo incerte lo spettacolo potrà essere spostato al Teatro Zandonai di Rovereto (500 posti), con inizio alle 21. Potranno accedere a teatro i primi 500 prenotati. L'informazione dell'eventuale spostamento dalla Campana al Teatro Zandonai  sarà resa nota sul sito e sulla pagina Facebook del Festival Tra le Rocce e il Cielo, oltre che presso l'Apt di Rovereto, a partire dalle ore ore 15.00 del 20 agosto.

Attenzione: visti i pochi parcheggi disponibili invitiamo caldamente a fare car pooling e salire al Colle di Miravalle con il minor numero di auto possibile (utilizzate l’evento FB per trovare un passaggio verso la Campana)

mercoledì 15 giugno 2016

Quali Stati e quali frontiere nell'Europa di oggi: intervista a Roberto Louvin

Intervista a Roberto Louvin


Roberto Louvin è docente di Diritto Costituzionale, e ha ricoperto ruoli istituzionali sia come Presidente della Regione Valle d’Aosta, sia come membro del Parlamento Europeo. In particolare, ha studiato approfonditamente l’evoluzione dello Stato e le sfide che questa organizzazione sociale sta subendo recentemente, e il ruolo delle autonomie locali come nuova frontiera del diritto e del governo.




Quali problemi si trova di fronte il diritto, specialmente il diritto pubblico e costituzionale, quando deve pensare e governare le aree di frontiera? In che modo il governo del confine è cambiato in Europa?

La durezza e la rigidità delle frontiere si è molto attenuata in Europa occidentale a partire dalla metà del secolo scorso. L’integrazione europea e la successiva caduta del Muro di Berlino hanno radicalmente cambiato la condizione dei popoli e delle regioni di confine, aiutando a superare le contrapposizioni a cui avevano portato i nazionalismi.
Abbiamo visto, quindi, avanzare politiche di cooperazione che hanno attenuato le rivalità e avviato logiche di sistema nella cooperazione trasfrontaliera. Le iniziative delle euroregioni e le strategie macroregionali sarebbero state semplicemente inimmaginabili mezzo secolo fa, mentre oggi sono ormai, in alcune parti d’Europa, una realtà consolidata e estremamente positiva.
A dimostrazione che però nessuna conquista politica e amministrativa è definitiva, abbiamo avvertito dolorosamente nei mesi scorsi, per effetto soprattutto dei recenti fenomeni migratori, un nuovo irrigidimento della frontiera, come immediata conseguenza del ripiegamento e della chiusura di molte nazioni europee. È un campanello d’allarme molto inquietante.


In particolare, che ruolo ha assunto e assume la montagna come luogo di confine? Quali problemi e possibilità presenta?

Rispetto ai progressi registrati in termini di cooperazione e condivisione delle politiche territoriali, la montagna ha assunto un ruolo di primo piano e ha dato vita ad alcune esperienze molto significative: penso in particolare alla Convenzione delle Alpi e alla costituzione dell’Euregio Tirolo Alto Adige Trentino come ad alcuni dei momenti più esemplari da cui altri territori, con analoghe storie di conflitto alle spalle, potranno trarre ispirazione.
Ci sono comunque ancora, anche da noi, ampi margini di miglioramento e mi auguro che la dimensione popolare di queste iniziative cresca ancora. Dobbiamo evitare di confinarle nello spazio di procedure e istituzioni di carattere esclusivamente ‘tecnico’, appannaggio solo della burocrazia e degli esperti. Ricucire gli strappi secolari dovuti all’assurda rivalità tra le nazioni tra Otto e Novecento prenderà ancora molti decenni, ma l’unità culturale, ambientale e di vocazione economica della montagna può prevalere già oggi rispetto al suo connotato di barriera.



Parliamo di contesto Europeo: che ruolo ha avuto l’Unione Europea nella gestione degli spazi di confine, e in particolare degli spazi di montagna? E’ stato sufficiente o insufficiente? In che modo la montagna e la sua storia possono “insegnare” all’Europa come uscire dall’enpasse in cui si trova ora?

L’Unione europea è stata un attore decisivo nel sostegno alla montagna negli ultimi trent’anni. 
Il suo ruolo non è stato tanto quello di ‘gestore’ degli spazi di confine – l’Unione non sviluppa in questo senso un’azione diretta come possono fare gli enti territoriali nazionali e regionali - quanto piuttosto come ‘regista’ e finanziatore di politiche tese a compensare squilibri e promuovere coesione sociale e territoriale.
Penso che abbia già fatto molto, ma naturalmente si sarebbe potuto fare di più.
Oggi, con l’articolo 174 del Trattato sul funzionamento dell’Unione in tema di coesione economica, sociale e territoriale, l’Unione ha una bussola ben precisa sapendo che «tra le regioni interessate, un’attenzione particolare [deve essere] rivolta (…) alle regioni che presentano gravi e permanenti svantaggi naturali e demografici, quali le regioni più settentrionali con bassissima densità demografica e le regioni insulari, transfrontaliere e di montagna».

La storia della montagna è da sempre una storia di solidarietà: di fronte ai tempi difficili che stiamo vivendo e che probabilmente conosceremo ancora in futuro, l’insegnamento maggiore rimane quello di una solidarietà costruita nel rapporto  con un territorio a volte ostile e calata in istituzioni con forti connotati di cooperazione. Nel triangolo liberté – égalité - fraternité, il lato della fratellanza è sicuramente il più trascurato. Ridando lustro alla tradizione comunitaria alpina, che nei secoli ha forgiato istituzioni solidaristiche in ogni campo, offriamo spunti interessantissimi e smentiamo il luogo comune secondo cui le nostre terre alte sarebbero luoghi sempre ‘al rimorchio’ delle aree pianeggianti e metropolitane. Sono luoghi più lenti forse nella loro trasformazione, ma certamente anche più stabili e maturi di altri.


Nei tuoi testi hai spesso sottolineato il fatto che i confini nazionali, e lo stato nazione in se stesso, stanno cambiando radicalmente. In che modo e perché, a tuo avviso, sta avvenendo questo cambiamento?

La mia è prima di tutto una percezione diretta, da uomo nato alla frontiera e che ha sempre vissuto su un territorio di confine, toccando con mano i segni di questo cambiamento.
Oggi i fattori che lavorano ‘contro’ le frontiere sono molti: la mobilità personale, finanziaria e delle merci che si è moltiplicata, la comunicazione televisiva disponibile su scala mondiale, internet ... Il senso acuto di estraneità che si percepiva un tempo è molto diminuito. Al tempo stesso, perdono di significato alcuni segni tradizionali di appartenenza e di radicamento; c’è molta più vicinanza e complicità fra le élites di paesi anche distanti. Paradossalmente, le vere frontiere sono oggi molto di più quelle interne, sociali più che nazionali.
Il cittadino vive sempre più intensamente la dimensione di consumatore che lo omologa a milioni di altre persone, piuttosto che sentirsi prioritariamente cittadino e parte di un popolo. 
Siamo entrati, in pratica, in una nuova era di nomandismo, segnata da condizioni meno stanziali e con gli Stati che stentano a riprodurre i loro schemi tradizionali di governo della società e dell’economia: sono ormai le grandi corporations transnazionali e gli organismi sovranazionali come l’Organizzazione Mondiale per il Commercio (OMC) a tracciare il solco nel quale i vecchi Stati si muovono con margini sempre più ristretti di autonomia.
Le vecchie frontiere, a cui alcuni si aggrappano disperatamente, sono in parte superate nei fatti, ma questo non basta a rassicurarci: un ordine nuovo, pacifico e armonioso è ben lontano, purtroppo, dall’essersi costituito in sostituzione dell’ordine della statualità che ci aveva consegnato il Trattato di Westfalia nel 1648 e che è comunque durato quasi quattro secoli.



Ludovico Rella