Intervista ad Andrea Anselmi
Andrea Anselmi ha una lunga esperienza in cooperazione internazionale, in particolare cooperazione nel campo dell’assistenza umanitaria: ha lavorato con la Croce Rossa Internazionale in vari scenari fra cui quello siriano, e oggi è coordinatore di progetto per Medici Senza Frontiere a Catania. Con lui parliamo della crisi dei migranti e richiedenti asilo, con quasi 300.000 arrivi nel 2014 e più di un milione nel 2015. Inoltre, nel tentativo disperato di varcare il Mediterraneo, più di 2500 persone l’anno sono morte dal 2014 ad oggi (il dato per il solo 2016, fino a giugno, è di 2500, dati UNHCR). Con Andrea analizziamo le cause e le caratteristiche di questa crisi umanitaria, e l’inadeguatezza delle risposte fin qui messe in campo.
Prima di ogni cosa, di cosa si occupa Medici Senza Frontiere in Italia, e a quale progetto collabori nello specifico?
Medici Senza Frontiere è un’organizzazione non governativa e senza scopo di lucro nata negli anni Settanta e si occupa di cooperazione e assistenza sanitaria. Medici Senza Frontiere si muove in completa indipendenza, economica e organizzativa, dall’agenda politica degli stati: più del novanta per cento dei finanziamenti che MSF riceve sono donazioni private individuali. Fino a qualche settimana fa MSF riceveva fondi europei per alcuni determinati progetti, ma due settimane fa è stata presa la decisione di rifiutare, d’ora in avanti, qualsiasi fondo europeo per via del modo in cui l’Europa sta affrontando le politiche migratorie. Questa scelta ci rende ancora più indipendenti da agende politiche e da interessi che non siano quelli dei pazienti. In Italia Medici Senza Frontiere, a partire dal 2006, sta lavorando soprattutto sull’accoglienza soprattutto in Sud Italia, facendo accoglienza per i migranti in arrivo e fornendo assistenza ai braccianti immigrati nell’agricoltura. In questo momento ci sono cinque progetti aperti su terra: uno a Gorizia che si occupa dei migranti arrivati in Italia attraverso la rotta balcanica e che ora sono bloccati qui per via della chiusura delle frontiere dei paesi confinanti. Un altro centro è a Roma per le vittime di tortura, soprattutto per migranti provenienti dalla Libia: molte persone che vengono da quel paese, appena uscite dalle galere libiche, portano i segni di pesanti traumi inflitti sia dalle forze regolari che dalle milizie autonome e legate allo Stato Islamico. In Sicilia ci sono tre progetti: uno a Trapani di supporto psicologico, uno per mare di cosiddetto “search and rescue”, ovvero di ricerca e salvataggio di migranti in mare, sotto il coordinamento della Marina Militare. Il quinto progetto, infine, è quello che coordino io a Catania.
Parlaci di questo progetto, di cosa ti occupi in particolare?
Il mio progetto ha sede a Catania, e si occupa di richiedenti asilo cosiddetti “post-acuti”, ovvero migranti che, dimessi da strutture ospedaliere, hanno necessità di stare in convalescenza fra le quattro e le sei settimane ma che, ovviamente, non possono andare a casa perché non ne hanno una. Abbiamo sentito l’esigenza di far partire questo progetto perché molti dei migranti in cura, dopo le dimissioni, erano costretti a un secondo ricovero per un improvviso aggravarsi delle loro condizioni perché la convalescenza non si era svolta in modo corretto. La struttura che vogliamo mettere in piedi è gestita da un team misto di psicologi, assistenti sociali e mediatori culturali fino al completo ristabilirsi delle condizioni di salute, per poi entrare finalmente nel sistema di accoglienza.
Dall’anno scorso l’Unione Europea ha introdotto i cosiddetti “hot spot”, ovvero centri di accoglienza e identificazione dei migranti e richiedenti asilo: stanno funzionando o hanno gli stessi problemi dei vecchi Centri di Identificazione ed Espulsione?
In questo momento ci sono quattro hot spot attivi in Italia, ossia Trapani, Pozzallo, Taranto e Lampedusa, che, secondo l’attuale politica migratoria europa, dovrebbero essere le “porte d’ingresso d’Europa per i migranti”. Teoricamente tutti i migranti dovrebbero passare dagli hot spot per essere identificati, essere divisi tra migranti economici e potenziali richiedenti asilo e solo alcuni di questi entrare nel sistema di accoglienza in Italia e in Europa. Questo sistema non sta funzionando per una serie di problemi, oltre al fatto che le procedure stesse in vigore attualmente violano le basi del diritto d’asilo. Tecnicamente gli hot spot dovrebbero essere sette e invece se ne sono attivati solamente quattro. In secondo luogo, le strutture usate sono le stesse dei vecchi Centri, quindi il cambiamento è più di nome che di fatto. Allo stesso tempo, se la politica fosse realmente stata che tutti i migranti passavano effettivamente da questi hot spot, allora sarebbe stato chiaro fin dall’anno scorso che le strutture non era assolutamente adeguate: a Pozzallo, ad esempio, la struttura ha 180 posti, quindi quando arrivano 800 persone, 180 entrano ma le altre vengono trasferite sul resto del territorio nazionale, spesso anche prima dell’identificazione. L’idea iniziale era che, una volta identificati, i richiedenti asilo venissero redistribuiti nelle varie regioni italiane ed europee, ma questa politica evidentemente non sta funzionando.
Medici Senza Frontiere, come dicevi poco fa, ha deciso di rifiutare i fondi europei: perché questa scelta e quali sono le critiche che vengono mosse?
L’idea di Medici Senza Frontiere è che si debbano creare dei corridoi umanitari per far arrivare in sicurezza i richiedenti asilo dal paese di origine direttamente in Unione Europea. L’Europa, invece, si è da subito divisa sulle politiche migratorie, lasciando gli stati più esposti, come Italia e Grecia, a gestire da soli questi flussi. Il fatto che l’Austria chiuda il Brennero o che la Francia chiuda Ventimiglia sono il sintomo più appariscente di una scelta politica chiara di non rispettare la redistribuzione, a livello europeo, delle nazionalità più colpite come Eritrei e Siriani. Il costruire muri, che sta diventando sempre più diffuso in Europa, è una politica che non ferma sicuramente gli arrivi, non ferma la tratta di esseri umani. In più, la politica europea è chiaramente di “esternalizzare” le proprie frontiere: l’accordo con la Turchia di quest’anno è un caso palese, ma altri accordi simili sono stati stretti con paesi extra-europei in cui avvengono gravi violazioni dei diritti umani. Questi accordi, in realtà, puntano a far in modo che altri Stati “risolvano” il problema per noi e che l’opinione pubblica europea non si renda conto della gravità della situazione.
L’accordo fra Unione Europea e Turchia, appena chiuso, ha subito scatenato forti critiche. Di cosa si tratta e perché è stato criticato così tanto?
Prima di ogni caso, questo accordo viola il diritto internazionale e il diritto all’asilo: la convenzione di Ginevra del 1951 e altri trattati stabiliscono che ogni persona che rischi la propria vita, libertà e incolumità in un paese possa fare richiesta d’asilo in un altro paese. Questo accordo, bloccando i richiedenti asilo in Turchia, viola i diritti fondamentali e sottopone queste persone a gravi pericoli, non tanto e non solo per via di violenze o attentati, ma perché crea tensioni sociali dentro alla Turchia, in una situazione in cui anche i mezzi adeguati all’accoglienza vengono a mancare. Nelle tendopoli al confine fra Siria e Turchia la situazione è inumana, viola elementi di base della dignità umana, e impedisce a questi migranti di fare domanda di asilo in Europa. Inoltre, questo accordo è inefficace perché non ferma i flussi ma fa soltanto cambiare rotta, soprattutto coloro che scappano non dalla Siria o dall’Iraq, ma da Pakistan, Afghanistan e Bangladesh. Quello a cui assisteremo quest’anno sarà forse la chiusura della rotta balcanica, ma un intensificarsi dei flussi nel Mediterraneo.
Quando si parla di migrazioni spesso il discorso pubblico si fa trascinare dalle “mode” per non guardare alla complessità. Ora, ad esempio, tutta l’attenzione è destinata a Siriani, Iracheni e Libici, ma ci sono altri flussi che vengono ignorati perché in questa fase l’attenzione è indirizzata altrove.
In Italia nel 2015 sono arrivate 150.000 persone, e la maggior parte di questi arrivavano dall’Africa Occidentale, quindi Nigeria, Mali, Senegal, Gambia; oppure dal Corno d’Africa, quindi Somalia ed Eritrea. Già da questo si vede come il fenomeno sia più complesso e meno legato alle emergenze, ma strutturale. Inoltre, tendiamo sempre a considerare il profugo come una persona che scappa dalla guerra “tradizionale”, quando invece ci sono situazioni più sfumate ma altrettanto terribili. Ad esempio in Eritrea o in Gambia ci sono dittature feroci in cui una banale presa di posizione contro il governo mette una persona e il resto della sua famiglia in pericolo di vita. Ci sono poi altre questioni, di natura economica: le persone sono impossibilitate a sopravvivere nelle condizioni in cui versa il loro paese e sono costrette ad andare altrove. In un certo senso è simile a quando un italiano o un greco decidono di andare in Germania, Inghilterra o Stati Uniti per stare meglio, con la differenza che noi possiamo veramente scegliere, mentre per chi arriva sulle nostre coste spesso non c’è alternativa: o si scappa o si muore.
Negli ultimi due anni stiamo assistendo al ritorno delle barriere e del filo spinato per provare a fermare l’arrivo dei profughi e gestire le migrazioni. Quali impatti possono avere queste scelte sul futuro sia dei profughi che dell’Europa nel suo complesso?
Negare che le migrazioni siano un fenomeno enorme che abbiano un impatto su finanze pubbliche e sulle tensioni sociali dentro agli stati non sarebbe né corretto né onesto. Allo stesso tempo, però, bisogna relativizzarlo: in Europa, fino a che non esce l’Inghilterra siamo più di 500 milioni di persone, anche se arrivasse un milione di migranti ogni anno per cinque anni saremmo comunque all’1% della popolazione. Un 1% che, peraltro, non vive sulle spalle dello stato come un parassita, ma che diventa col tempo forza lavoro e può diventare una risorsa importante in termini di ricchezza. Il risultato vero è che le migrazioni vengono usate come specchietto per le allodole in un momento in cui ci sono problemi di ordine economico: ci si accanisce sui migranti e sui profughi per deviare il malcontento dalle questioni sociali, ci si sfoga sulle categorie più deboli per non guardare ai problemi che ci sono. Bisognerebbe smetterla di veicolare immagini e rappresentazioni semplicistiche dei problemi e, sull’onda emotiva, provare soluzioni di ripiego: in un mondo sempre più interconnesso ripiegarsi negli stati nazione è anacronistico e addirittura masochista.
Ludovico Rella
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