mercoledì 19 agosto 2015

Raccontare la guerra: dalla memoria, lezioni per un futuro di convivenza. Intervista con Svetlana Broz

Cardiologa di guerra e attivista per i diritti umani, Svetlana Broz, nipote di Josip "Tito" Broz, è un fiume in piena. Dall'inizio del suo impegno come cardiologa di guerra nel 1992 al fronte fra Serbia e Bosnia, fino alla raccolta di testimonianze riguardo alla pulizia etnica e genocidio avvenuti in quegli anni, analizza con lucidità le cause della guerra, il modo in cui si è sviluppata, e la situazione attuale. Da questa ricostruzione, ne ricaviamo importanti lezioni, per l'Europa ed il mondo.
Svetlana Broz.
Quando hai deciso di andare volontaria come cardiologa di guerra?
Sono andata al fronte nel dicembre 1992, quando iniziò la guerra in Bosnia. Fino ad allora, lavoravo come cardiologa a Belgrado. Non avevo mai sentito prima la necessità di andare volontaria in scenari di guerra, non finché è scoppiata la guerra: ero una cittadina jugoslava, e quello che stava succedendo coinvolgeva i miei concittadini. Ho capito che non potevo stare nella mia comoda poltrona davanti alla televisione, assistendo a stragi che avvenivano a cento chilometri da dove vivevo. Non potevo stare in silenzio davanti a bambi, ad innocenti massacrati. Ho deciso così di andare volontaria al fronte come medico, ho sentito che se avessi potuto aiutare anche solo una persona, avrei potuto fare la differenza. Dopo quei fatti ho mantenuto il mio impegno, solo che questa volta senza le apparecchiature mediche ma con il mio registratore e il blocco per gli appunti in tasca, raccogliendo testimonianze. Ho raccolto i racconti di quello che è successo, le dimostrazioni di coraggio civile: non si può raccontare soltanto il male, bisogna raccontare tutti gli episodi di coraggio e di umanità. Ogni conflitto è destinato a finire ad un certo punto, anche la guerra dei cent’anni è finita.

Parliamo della guerra: vista da fuori, la guerra fu quasi inaspettata. Tu che l’hai vista scoppiare in prima persona, che cosa hai capito di quel conflitto? Com’è scoppiato, e come si sarebbe potuto evitare?
Prima della guerra in Jugoslavia, non potevo credere che la guerra raggiungesse il mio paese. Mi ricordo che, quando studiai medicina a Belgrado, mi rifiutai di frequentare il corso di chirurgia di guerra, che era un esame opzionale: non credevo mi sarebbe mai servito quell’esame, il mio paese non avrebbe mai dovuto affrontare una guerra. I miei concittadini la pensavano nello stesso modo. Il problema, però, è che i politici dell’epoca non la pensavano così. Queste persone hanno meticolosamente preparato la guerra fomentando il nazionalismo, mettendo in moto una macchina di propaganda e odio. Lentamente, la paura si è insinuata fra i miei concittadini, hanno iniziato ad aver paura gli uni degli altri. Nonostante questa propaganda e questa diffidenza, però, nessuno sentiva che le varie etnie si sarebbero dovute combattere da loro. In oltre novanta testimonianze che ho raccolto, tutte le persone hanno detto la stessa cosa: che non si vedeva un motivo per cui si sarebbe dovuto combattere fra concittadini. Infatti, il conflitto cominciò con un incontro fra  Franjo Tuđman, il presidente croato, e Slobodan Milošević, nel 1991. In quell’incontro venne pianificata la guerra, e la spartizione della Bosnia secondo linee etniche.

Quali lezioni si possono imparare dalla guerra in Jugoslavia?
Prima di tutto che bisogna restare vigili, perché a un certo punto i politici, o alcuni di loro, vedere conveniente il fomentare un conflitto, il seminare paura e odio. In quel caso, le persone, i cittadini, dovrebbero essere vigili e critici fin dall’inizio, mostrare coraggio civile e resistere alla tentazione di seguire i leader lungo il sentiero dell’odio. Una massa critica di cittadini consapevoli è necessaria in ogni società in modo da evitare escalation nella violenza. Per questo, oggi, il mio primo impegno è educare al coraggio civile le giovani generazioni.

Cos’è, per te, il coraggio civile?
A Garden of the Righteous Worldwide - GARIWO (il Giardino dei Giusti) chiamiamo coraggio civile la volontà e la capacità di disobbedire, resistere ed opporsi, e di interrompere con mezzi non violenti l’abuso di potere da parte di qualsiasi autorità pubblica, privata o da parte di individui. Questo abuso di potere può derivare dal fatto che queste persone o istituzioni vengono meno deliberatamente ai loro doveri nei confronti della società, oppure usano illegalmente il loro potere politico, economico o sociale violando i diritti umani, che sia nel contesto dei mezzi di comunicazione di massa, nell’università e nell’istruzione, nei contesti religiosi o familiari.

Secondo te, come si può insegnare il coraggio civile alle giovani generazioni?
Certamente insegnare il coraggio civile è un percorso lungo. Un elemento fondamentale sono i modelli di riferimento. Quando racconti esempi, esperienze reali di donne e uomini che hanno aiutato altre persone durante la pulizia etnica, tu mostri un differente modello di riferimento ai ragazzi. Specialmente se gli alunni incontrano dal vivo queste persone che hanno mostrato coraggio civile rischiando la propria vita per salvare quella degli altri, tu mostri che questi non sono esempi astratti, ma sono cose reali e praticabili. Se un modello di riferimento si diffonde e diventa comune, allora ad un certo punto inizieranno a emergere leader che si comporteranno come quel modello di riferimento. Tutto, quindi, dipende da quale modello di riferimento si riesce a diffondere. Per questo stiamo pubblicando un libro su modelli di riferimento e didattica, organizziamo seminari e incontri nelle scuole, e altre attività che potete trovare sul nostro s
ito www.gariwo.org, in inglese. In più, mettiamo molta attenzione sull’uso dei media, visto che, come ho detto, radio e televisione sono stati così importanti per seminare l’odio prima della guerra. Per questo abbiamo fatto una serie di documentari da mezz’ora l’uno, che illustrano esempi di coraggio civile. Cambiare la mente è sempre un percorso lungo, e gli esiti sono sempre imprevisti. La nostra esperienza, tuttavia, mostra che la gente vuole imparare e cambiare, e questo è incoraggiante.

GARIWO: Garden of the Righteous Worldwide.

Parlaci di GARIWO – Garden of the Righteous Worldwide (Il Giardino dei Giusti). Quando ti sei unita? Quali progetti avete in programma?
GARIWO è una organizzazione non governativa fondata a Milano, in Italia, nel 2001. L’idea si ispira al Giardino dei Giusti di Gerusalemme, dove ogni persona che abbia aiutato degli ebrei a sfuggire all’olocausto ha un albero di ulivo a ricordarlo piantato in quel giardino. La nostra idea è che in ogni paese che abbia subito pulizia etnica e genocidio abbia un Giardino dei Giusti a ricordare gli esempi di coraggio civile. Il progetto che volevamo portare avanti era di costruire un Giardino dei Giusti a Sarajevo, una città simbolica, per via delle sofferenze patite durante la guerra. Venne costituito un comitato di cui ero la presidente. Tuttavia, abbiamo fallito in questo sforzo, ma non per colpa nostra: fin da subito molti dei politici locali, alcuni dei quali coinvolti in crimini commessi durante la guerra, hanno iniziato a minacciare di tagliare gli alberi se fossero stati dedicati a dei Giusti di una etnia diversa dalla loro, e cose simili. Io non volevo creare il parco per interessi di parte, fossero essi di etnia o di partito. Io volevo creare il Giardino per le famiglie, i bambini e i nonni, perché potessero andare lì a divertirsi, leggere i nomi delle persone a cui erano dedicati gli alberi, e andare al museo dentro al parco a leggere la loro storia. Non c’erano le condizioni per realizzare questo tipo di progetto, quindi lo abbiamo accantonato, è chiaro che i politici di Sarajevo hanno ancora da maturare, per essere pronti per la riconciliazione e la memoria.

A che punto è la riconciliazione? La situazione è migliorata o peggiorata in questi anni?
Come dice von Clausewitz, “la guerra è politica proseguita con altri mezzi”. In Bosnia, ora, la vita pubblica è “guerra proseguita con altri mezzi”, con quelli della politica. Questo vuol dire che la riconciliazione è, oggi, allo stesso punto di dove si trovava vent’anni fa, alla fine della guerra: Serbia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Macedonia e Kosovo, hanno tutti ancora gli stessi politici che avevano all’epoca della guerra, gli stessi che sono connessi con crimini di guerra, o che hanno approfittato delle condizioni del dopoguerra. Pensate a cosa sarebbe successo alla Germania se, dopo la seconda guerra mondiale, i nazisti fossero rimasti al potere: questo è precisamente lo scenario che abbiamo ora in tutti i paesi dell’ex Jugoslavia. Fino a quando non si sostituiscono i politici nazionalisti e fascisti con altri politici, la riconciliazione è ferma, perché un signore della guerra non si trasformerà mai in un custode di pace.

Quale ruolo ha avuto l’Unione Europea, e che ruolo dovrebbe avere?
L’Europa è stata silenziosa: nessuno ha parlato per la Jugoslavia quando il mio popolo sanguinava e veniva massacrato. Alexander Langer ha lottato a lungo per avere giustizia per la mia gente, ed è arrivato fino a sacrificare la sua vita quando ha capito di aver fallito nel tentativo di spingere la comunità internazionale a prendere una posizione. Ma Langer è rimasto un’eccezione: l’idea dell’Europa, nella maggioranza dei casi, è stata “il popolo elegge i politici, poi noi trattiamo con chi è stato eletto”, mentre dovrebbero fare pressioni perché i nazionalisti e i fascisti non siano più sul palcoscenico della politica. Le Nazioni Unite, tramite il loro Alto Rappresentante in Bosnia-Erzegovina, hanno i cosiddetti “Poteri di Bonn”: possono imporre leggi o di revocare quelle contrarie agli Accordi di pace di Dayton. In più, l'Alto Rappresentante può rimuove dai loro posti i funzionari a tutti i livelli o anche interdirli dalla vita pubblica. Solo che le Nazioni Unite non usano questi poteri, e lasciano al loro posto le persone coinvolte nei crimini di guerra e contro l’umanità.

Quale consiglio daresti all’Europa per costruire una società multietnica che non caschi a pezzi al primo segnale di tensione?
Credo che la lezione più importante da imparare dall’ex Jugoslavia sia che mai e poi mai si devono fare stati, costituzioni e confini basati sull’etnia e sul sangue. Gli stati sono e devono essere dei loro cittadini, ognuno con uguali diritti. Abbiamo visto cos’ha portato la divisione della Jugoslavia su basi etniche: la Bosnia-Erzegovina fra tutti ha una costituzione su base etnica, scritta a Dayton (in Ohio, Stati Uniti), e questa costituzione, semplicemente, non funziona. Questa è una lezione che deve essere capita anche dall’Europa: uno stato etnico, soprattutto nel ventunesimo secolo, semplicemente non funziona.

La tua famiglia e il tuo cognome sono certamente “ingombranti”: sei la nipote del maresciallo Tito, che ha governato la Jugoslavia dal 1945 al 1980. Questo ti ha aiutato o ostacolato nella raccolta delle testimonianze di guerra?
Nella raccolta delle testimonianze il mio cognome mi ha notevolmente aiutato. Le persone hanno sempre identificato il cognome Broz, e il nome di Tito, con l’antifascismo, con lo sforzo di mio nonno di togliere il nazionalismo dal dibattito pubblico, di costruire una Jugoslavia realmente multietnica. Loro tutti sapevano che non avrei mai potuto essere una nazionalista: tutte le etnie, tutte le comunità dell’ex Jugoslavia, le sento mie, sono parte di me. Tutte le persone che ho intervistato hanno detto la stessa cosa: “al tempo in cui Tito era il presidente della Jugoslavia, avevamo una vita dignitosa”. Ovviamente, un discorso a parte vale per i politici ex-jugoslavi: erano nazionalisti, odiavano Tito e, quindi, odiavano me. Hanno sempre cercato di fermare questa mia attività, mi hanno minacciata, ma questo è un problema loro, non mio.

Come forse saprai, ci sono teorie storiche che dicono che Tito, o i suoi genitori, nacquero in Vallarsa e poi si trasferirono, durante gli ultimi anni dell’Impero Austroungarico, in Croazia. Cosa ci puoi dire di questa teoria? Hai fatto delle ricerche riguardo all’origine della tua famiglia?

Mi sono imbattuta in questa teoria una decina di anni fa, quando venni in Trentino per la prima volta, mi è stato dato un libro sull’argomento. Posso dire oggi la stessa cosa che ho detto allora: sarei onorata di avere anche radici italiane nella mia famiglia. Dopo tutto, io ho già sei diverse radici etniche e nazionali, provenienti da tutti gli angoli dell’ex Jugoslavia e d’Europa, grazie ai miei antenati, quindi sarei felice di poter mettere l’Italia fra le mie origini. Purtroppo, devo dire che questa teoria è solo una teoria: ho prove documentate che mio nonno è nato esattamente nel villaggio croato di Kumrovec, come riporta la sua biografia ufficiale. Non posso però né negare né confermare niente riguardo ai suoi antenati: può darsi benissimo che fossero nati in Vallarsa e da lì si siano spostati successivamente, su questo non ho notizie. Dopo tutto, il cognome Broz non è comune in nessuna zona dell’ex Jugoslavia, mentre è molto comune lì, quindi può darsi.

Con Svetlana Broz parleremo di raccontare la guerra, di comecome è cambiato il modo di parlare dei conflitti. Appuntamento alle ore 15:30 di Domenica 23 agosto, al Teatro di Sant'Anna di Vallarsa. Introduce Giuseppe Ferrandi, Con Raffaele Crocco – Atlante delle Guerre e dei conflitti del mondo, Fausto Biloslavo - raccontare la guerra oggi, Davide Sighele – Le armi tacciono ma il racconto continua, Svetlana Broz – I giusti al tempo del male, Alain Mata Mamengi – Strisce di guerra: raccontare il conflitto a fumetti.



Pubblicato da Ludovico Rella ludovico_rella@yahoo.it

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