Intervista a Andrea Scartabellati
Andrea
Scartabellati, di famiglia operaia, ha studiato Storia (Università di Trieste,
1999) e Scienze Antropologiche ed Etnologiche (Università di Milano Bicocca,
2014). Con una borsa pubblica ha svolto un semestre di perfezionamento
all’estero (Université Paris X/Nanterre, 2000), conseguendo il dottorato di
ricerca in Storia sociale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia (2005). È
autore e curatore di saggi e monografie dedicati alla storia della povertà e
della follia, tra cui: L’umanità inutile (Angeli 2001), Intellettuali nel
conflitto (Goliardica 2003), Prometeo inquieto. Trieste 1855-1937 (Aracne
2006), Dalle trincee al manicomio (Valerio, 2008), Fronti interni (Esi 2014).
Quando ha
cominciato a interessarsi della sofferenza mentale dei soldati della Prima
Guerra Mondiale?
Ho avuto la fortuna e la possibilità di studiare
storia a Trieste, un contesto culturale e cittadino che – è forse superfluo
dirlo – grazie all’esperienza basagliana (Franco Basaglia, lo psichiatrico
ispiratore della legge 180 che portò alla chiusura dei manicomi, ndr) ha maturato una straordinaria e peculiare
sensibilità per i temi della follia. Sensibilità, grazie alla mia qualità di “forestiero”,
avvertita, apprezzata ed interiorizzata con maggior consapevolezza rispetto ai
residenti (diciamo così).
L’insegnamento e lo studio con storiche come
Simonetta Ortaggi e Bruna Bianchi, prima con la tesi di laurea e poi di
dottorato, mi hanno sollecitato ad approfondire le tematiche sociali inerenti
la storia della Grande guerra. Da qui, in breve, l’incontro con i temi della
follia bellica e, vorrei sottolineare, con gli archivi della follia. Un
incontro non solo intellettuale, ma direi soprattutto emozionale, al cospetto
di centinaia e centinaia di cartelle cliniche traccia di esistenze imbruttite o
devastate dal conflitto.
Che cos’è lo
“shell shock”?
Lo shell shock è il termine medico con cui la
medicina psichiatrica anglosassone durante il corso del conflitto intese
descrivere ed esplicare – avendo alle spalle una sintomatica epistemologia –
una serie di reazioni dei soldati sottoposti al bombardamento continuo di
artiglierie micidiali, via via perfezionate nella loro capacità di produrre
stragi.
Si tratta di una categoria nosografica sfuggente,
che come storici dobbiamo storicizzare e leggere alla luce del know how delle
differenti medicine nazionali. Un quadro diagnostico non privo di confusioni o
ambiguità più o meno manipolabili, con fini spesso contrastanti, da medici e
pazienti proprio in ragione della sua necessità di descrivere un repertorio di
situazioni anomale differenti.
Com’è noto, lo shell shock è un po’ la matrice del
moderno Post Traumatic Stress Disorder, apparso (scoperto/riscoperto/inventato/reinventato?)
con la guerra del Vietnam.
A tacere dello sfuggente contenuto stricto sensu medico,
lo shell shock è, tuttavia, tornato grandemente utile a storici e sociologi
come sorta di metafora della Prima guerra mondiale nella sua qualità di primo
conflitto industriale e dei materiali della storia. Lo shell shock ha
rappresentato, se mi si passa lo schematismo, il riflesso e l’incarnazione
concreta, nei corpi e nella mente dei soldati, dell’inquietante e nello stesso
tempo affascinante erompere della modernità applicata alle tecnologie di morte.
Che entità
ha avuto il fenomeno della sofferenza mentale dei soldati impegnati nella
Grande Guerra?
In un piccolo libretto pubblicato anni fa, Carlo
Cipolla, storico di prima grandezza, commentando alcuni dati statistici,
affermò che i soli indici certi erano le date… Ciò premesso, la storiografia ha
oggi raggiunto un consenso di massima su queste cifre: si parla di 40.000
individui sofferenti per l’Italia, 300.000 per la Francia, 400.000 per la
Germania e tra gli 80.000 ed i 200.000 (sic!) per la Gran Bretagna.
A proposito del caso italiano – modesto nei numeri
– vorrei aggiungere due note, la prima di carattere interpretativo, la seconda
quantitativa. Innanzi tutto, c’è stata la tendenza anche per ragioni retoriche
inerenti la costruzione dei testi storiografici, a far dipendere eccessivamente
i disturbi dalle modalità moderne del guerreggiare (bombardamenti, le fatiche
da talpa della vita di trincea,
tragici eventi rivelatori come i seppellimenti temporanei, l’odore acre dei
corpi bruciati, la vista di amici e compagni smembrati, ecc.). Tipologie
d’innesco dei disturbi (mi si passi l’espressione) che, in realtà, coprono solo
in parte, e forse nemmeno la metà dei casi all’epoca riscontrati. In secondo
luogo è utile rammentare, senza per questo voler sminuire le sofferenze e la
portata dell’episodio dei folli di guerra – veri e propri mutilati
dell’esistenza – la reale dimensione della vicenda. I matti rappresentarono per
le autorità mediche, militari e politiche, un problema non particolarmente pressante.
La follia non coinvolse che lo 0,73% degli arruolati nelle forze armate, e lo
0,79% degli incorporati nel Regio Esercito. Rispetto ai 517/564.000 morti e
dispersi e ai 950/1.050.000 feriti, i 40.000 folli di guerra apparvero una questione
secondaria, in Italia gestita dalla psichiatria militare e civile senza il
ricorso a misure straordinarie, e prescindendo dalla rivisitazione dei
consolidati paradigmi della cultura psichiatrica.
Come fu
trattata dai medici militari e come fu considerata dagli ufficiali militari?
Limiterei la risposta al contesto nazionale, che
conosco meglio e di cui ho esperienza di ricerca diretta. Le sindromi belliche
furono trattate dai medici militari né più né meno che alla stregua delle
follie registrabili nella vita civile. Certo non mancarono osservazioni e
proposte innovative per un contesto ancora fortemente intriso d’influenze evoluzioniste
alla Haeckel e dal lessico antropologico dei vari Enrico Ferri, Cesare Lombroso
ed Enrico Morselli. Tuttavia, esse restarono voci isolate e marginali. Individuazione
preventiva, controllo e custodia dei folli rimasero gli aspetti dirimenti
l’impegno psichiatrico, mentre l’intervento terapeutico, nella cornice di un
disegno curativo antecedente gli sviluppi della psicofarmacologia e delle
terapie da shock, risultava estemporaneo, affidato a prassi inefficaci quali la
forzata tranquillità della segregazione del malato, i bagni prolungati, la somministrazione
di olio di ricino, l’utilizzo di unguenti e tinture di origine vegetale, docce
di acqua gelata alternate a quella calda…
Da parte degli ufficiali superiori alieni di
nozioni psichiatriche, la follia fu vista soprattutto attraverso la lente della
simulazione e del disimpegno dai doveri patriottici. Un tentativo del soldato,
da reprimere duramente, di fuggire i pericoli del conflitto. Per ironia della
storia, questa lettura del fenomeno sembrerebbe dar ragione agli storici di
oggi i quali, indagando il tema del dissenso, intravvedono nella follia bellica
senz’altra specificazione proprio un rifiuto degli obblighi militari.
Nel quadro complessivo dei rapporti tra ufficialità
e truppa, anche la follia di guerra può essere interpretata come l’ennesimo
capitolo di quella pervicace estraneità culturale che rese difficoltosi, se non
impraticabili, il dialogo e la condivisione del significato bellico tra élite
militare e un esercito formato dall’irreggimentazione prevalente di contadini.
Che impatto
ebbe quel fenomeno sul successivo sviluppo della psicanalisi e della
psichiatria?
Paradossalmente nella guerra la psicoanalisi vide
una sorta di conferma ex-post rispetto a quanto da Freud e dai suoi seguaci sostenuto
e ribadito fin dal primo Novecento in tema di trauma ed istinti di violenza e
morte. Si trattò, naturalmente, di una lettura interessata, non priva di credibilità.
Bisognerebbe però riformulare la risposta osservando la fortuna della
psicoanalisi nei differenti contesti nazionali, iniziando da quello italiano
particolarmente sordo al verbo psicoanalitico.
Per quanto riguarda la psichiatria vale, a grandi
linee, lo stesso discorso. Mentre in Gran Bretagna, ed in parte in Francia e
Germania, la disciplina seppe con maggior consapevolezza far tesoro delle
esperienze belliche, in Italia, ennesima ironia, la fortuna perdurante goduta
presso i circoli medici dall’evoluzionismo antropologico e da un rigido biologismo-organicistico,
si rivelò un freno solo in parte aggirato dalle nuove leve psichiatriche. Le
sindromi belliche vennero lette e liquidate all’interno dei paradigmi
prebellici. È sintomatico che il volume di psichiatria sul quale generazioni di
medici si formeranno, il “Trattato delle malattie mentali” di Tanzi e Lugaro,
potesse affermare nell’edizione del 1923, sulla scorta della letteratura di
patologia bellica passata in rassegna, l’inesistenza di psicosi generate dal
conflitto.
Nel 1918
Ernst Simmel scrisse “Nevrosi di guerra e trauma psicologico” dove,
coerentemente con le interpretazioni psicanalitiche del tempo, la nevrosi di
guerra veniva spiegata come una sorta di “diserzione inconsapevole”. Che
conseguenze pratiche e terapeutiche ebbe questa interpretazione?
Quella di Ernst Simmel, va ricordato innanzi tutto,
fu una figura atipica in Germania, non esemplificativa della psichiatria
tedesca. Ciò detto, l’interpretazione di Simmel rammentata, insieme a pagine di
Freud, Ferenczi, Abraham (e altri), è genealogicamente a monte di una lettura
del fenomeno della patologie di origine bellica tanto trascurata nel dominio
medico quanto, probabilmente, sopravvalutata in ambito storiografico italiano
sulla scia del volume di Leed, No Man’s Land (1979).
Il tema della diserzione inconsapevole indirizza il
focus del discorso verso un territorio minato (è proprio il caso di dire!) dove
simulazione, strategie dei soldati di determinare il proprio destino nelle
condizioni date, strategie di controllo e custodia della psichiatria, malattia,
dissenso alla guerra e desiderio di sfuggirle s’intrecciano in matasse
difficilmente sbrogliabili. Matasse interpretative e di significati che solo il
confronto cauto e diretto con la documentazione individuale (cartelle e diari
clinici in primis) permette di affrontare e sciogliere, al di fuori sia di
poietiche del rifiuto collettivo più vive nell’immaginazione degli studiosi che
effettive all’epoca, sia di sineddoche trasfiguranti in forme elementari casi
originali nella controprova di esperienze esperite massivamente.
A che punto
è la ricerca storica in Italia su questo tema rispetto agli altri paesi?
Cosa rimane
ancora da studiare del fenomeno?
La ricerca italiana paga lo
scotto della lingua, risultando sostanzialmente gregaria a livello di
riconoscimento internazionale. Peccato doppio poiché – e lo dico non volendo
fare della retorica nazionalista – un confronto tra la saggistica italiana e
quella internazionale dimostra come la prima abbia in termini di analisi e
disponibilità delle fonti, capacità interpretative e aggiornamento metodologico
degli studiosi, ben poco da invidiare alla seconda. Anzi, in qualche modo il
clima intellettuale creato da noi dall’esperienza basagliana ha avuto e
continua ad avere ancora oggi, specie per quanto riguarda i giovani storici che
si affacciano alla ricerca partendo dalla tesi di laurea, un effetto
“fertilizzante”.
Cosa rimane da studiare del fenomeno? Molto direi,
e non solo a livello quantitativo (detto en passant: le esperienze manicomiali del
meridione, durante e dopo la guerra, risultano salvo rare ed ottime eccezioni
ancora poco indagate). Più in generale ritengo per la storiografia italiana
maturo il tempo per un arricchimento paradigmatico e metodologico, muovendo da
un’attenzione non superficiale, estemporanea o esclusivamente terminologica
alle riflessioni dell’antropologia (culturale, sociale) contemporanea.
Ritornando alla lettura delle fonti, e lontani da
ogni inclinazione romanzata – il tema della follia è tradizionalmente un invito
a nozze in questo senso… – credo abbiamo come storici la necessità, a livello
di ricerca, di superare il meccanicismo interpretativo che ha guidato la nostra
comprensione degli stati patologici, per un confronto più meditato con la
dimensione esistenziale degli uomini in guerra impazziti (o creduti tali),
recuperandone le vicissitudini, i valori, le conoscenze, le idiosincrasie, le esperienze
ed i legami col mondo del di fuori
militare.
Decostruire, verificare e riformulare,
con una visione più complessa e articolata dei temi del rifiuto e del dissenso
alla guerra, le poietiche attraverso le quali gli storici hanno narrato fino ad
oggi delle trasformazioni dei mondi mentali collettivi muovendo dalle situazioni
individuali rappresentate dalle esperienze borderline vissute dei folli di
guerra, è il compito difficile e insieme affascinante che potremmo proporci.
Nicola Spagnolli
Scartabellati interverrà alla
conferenza SOPRAVVIVERE AL TRAUMA. LA SOFFERENZA MENTALE DALLA GRANDE GUERRA AI
CONFLITTI D’OGGI che si terrà SABATO 22 AGOSTO alle ore 15 AL TEATRO DI S.
ANNA.
Nessun commento:
Posta un commento