Pioniere dell’alpinismo sia in Europa sia in
Himalaya, Kurt Diemberger nasce a Villach, nella Carinzia Austriaca, e di
recente si è trasferito a Bologna. Ha scalato due ottomila in prima assoluta,
oltre ad aver aperto numerose vie nelle Alpi. È autore dei libri “Da zero a
ottomila”, “Il settimo senso”, “Passi verso l’ignoto” e “Danzare sulla corda”. È
anche stimato documentarista e cineasta: Durante la serata di sabato 22 agosto,
avremo modo di vedere parti di alcuni suoi documentari e film realizzati in
Nepal.
Kurt Diemberger. |
Come si è avvicinato all’alpinismo, cosa l’ha
spinta, e che significato dà all’essere alpinista?
La mia prima curiosità,
quando ho iniziato a fare l’alpinista, è stata la raccolta di fossili, prima, e
poi anche cristalli e rocce. Ne parlo nel mio primo libro, “Da zero a
ottomila”. La mia iniziazione all’alpinismo non è stata, quindi, sportiva, ma
esplorativa. Per esempio nel 1956 ho aperto la via al Gran Zebrù, la cosiddetta
“Meringa di ghiaccio”: io volevo prima di tutto sapere come fosse composta
questa enorme montagna di acqua ghiacciata. Volevo, da un lato, scoprire le
montagne “da dentro”, da cosa erano fatte, cosa nascondevano al loro interno;
dall’altro lato, volevo scoprire se ce la facevo, se ero in grado di
raggiungere la vetta. Anche sul Monte Bianco si trovano cristalli bellissimi,
ma non è permesso prenderli.
Gran Zebrù, 3875 metri. |
Lei parla di “Settimo Senso”: di cosa si tratta?
Il Settimo Senso per me è
la voglia di creare, la voglia di contribuire. Il Settimo Senso è la
convinzione che non conta solo scalare una parete, o superare se stessi:
l’obiettivo è creare e di lasciare qualcosa. Questa nuova motivazione mi ha
portato al film come strumento artistico, e a diventare il cineasta degli 8000.
Anche prima di salire sul “tetto del mondo”, però, ho iniziato a documentare le
ascese tramite film: quando salii sul Monte Bianco feci il mio primo film,
“Monte Bianco: la grande cresta del Peuterey”, girato in cinque giorni di
ascensione.
"Il settimo senso", di Kurt Diemberger, ed. Alpine Studio. |
Com’è arrivato in Himalaya?
Sono andato in quella
zona nei tardi anni cinquanta, subito dopo la “Grande Meringa”. All’epoca
scalare il ghiaccio era il non plus ultra della difficoltà e della sfida,
tecnicamente parlando. Dopo quell’impresa andai sul primo 8000: il Broad Peak
(8047 metri), nel 1957. La mia spedizione era composta da Hermann Buhl, Marcus
Schmuck e Fritz Wintersteller. Questa è stata una prima ascensione, in “Western
Alpenstiel” o stile alpino occidentale: senza portatori d’alta quota, senza
ossigeno e respiratori. Quell’ascensione è stata pionieristica ed è rimasta
nella storia dell’alpinismo. Più tardi sono andato su un’altra cima, fino ad
allora inviolata, degli 8000: il Dhaulagiri (8167 metri), che credo sia rimasta
la cima più alta raggiunta senza respiratori in prima ascensione. In questo
caso ci facemmo aiutare dagli Sherpa. Avevamo anche un piccolo aereo che
atterrava sopra i ghiacciai, attorno ai 5000 metri. Durante l’ascensione, però quest’aereo
si ruppe, quindi alla fine non lo utilizzammo.
Dhaulagiri, 8167 metri. |
Oltre all’ascensione in sé, che rapporto ha avuto
con la cultura locale, con la gente che abita quelle montagne?
La popolazione locale è
sempre indispensabile, un aiuto straordinario: si badi bene che l’ascensione al
Broad Peak è stata eseguita senza portatori di alta quota, ma abbiamo avuto
l’aiuto delle popolazioni locali per portare tutto il materiale fino alla base
delle montagne, dove iniziava la spedizione vera e propria. Senza la gente che
abita quelle montagne e vallate, noi alpinisti non potremmo fare nulla. Questo
rapporto mi ha spinto poi a tornare in quei luoghi con mia figlia, che è
antropologa, per scoprire in maniera più diretta la cultura e la storia di quei
luoghi. Ho, quindi, iniziato anche a fare film e documentari antropologici.
Credo che soprattutto ora, dopo il terremoto, sia importante far vedere questa
cultura, questa storia, questa ricchezza: se si fa vedere solo la distruzione
che il terremoto ha portato, la gente potrebbe pensare che lì non è rimasto più
nulla, che non vale la pena andare lì. Quella è gente, però, che vive anche di
viaggiatori, alpinisti e turisti: se si smette di andare lì, la gente starà
ancora peggio. Io voglio proprio mostrare la ricchezza di quei luoghi, che è
stata colpita dal terremoto ma non distrutta, non rimossa.
Broad Peak, 8611 metri. |
Quali dei suoi documentari sono quelli in cui ha
sentito di avvicinarsi di più alla cultura nepalese?
Uno fra tutti è “Tashi Gang”,
che nella lingua locale vuol dire “il posto tra il mondo degli uomini e quello
degli dei”. In questo documentario faccio vedere i luoghi sacri per gli spiriti
dell’acqua, della terra, e poi i luoghi degli dei e degli antenati, che sono in
montagna. Fra queste montagne ce n’è una molto speciale, che è Ama Puyyuna, che
vuol dire “La madre incinta”, perché ha una forma particolare con una grossa
pancia. Questo posto è un luogo sacro non solo in Nepal ma per tutta la zona
dell’Himalaya, dove le persone vengono in pellegrinaggio per auguri di
fertilità: dalla famiglia, ai campi, al bestiame. Un altro documentario
importante è stato girato durante l’ascensione della cima est dell’Everest, che
si chiama Shartse. Questo documentario è stato girato assieme a uno sherpa, e
fa proprio vedere come si possa esplorare solamente con l’aiuto della gente
locale.
Cosa la affascina di quella cultura?
La profondità, e l’intimo
rapporto di rispetto con la natura. Oggi il rispetto della natura, anche se
singoli individui possono averlo, non è di massa, e anzi sta diventando sempre
meno importante. Questo rapporto con la natura l’ho subito sentito come anche
mio: io sono uno dei fondatori del movimento “Mountain Wilderness”, che si
propone di preservare la natura e la naturalezza della vita in montagna.
Logo di Mountain Wilderness. |
Mountain Wilderness dov’è attivo?
È attivo in tutta la zona
dell’Himalaya, nelle Alpi ma anche in altre zone di montagna. Ad esempio, in
Tirolo mi sono opposto alla costruzione di una funivia che volevano costruire
nel paradiso naturale del Kalk Koegel, e che poi è stato abbandonato come
progetto. La stessa cosa è stata fatta nei Pirenei.
Logo di Eco Himal (sito internet http://www.ecohimal.it/). |
Come ha reagito alla notizia del terremoto del
Nepal?
Ho fatto quello che
potevo, visto che ora non sono nelle condizioni di viaggiare dall’oggi al
domani in Nepal, però ci siamo immediatamente attivati con l’associazione Eco Himal,
che io e la mia prima moglie Maria Antonia Sironi abbiamo fondato nel 1992. Maria
Antonia ora è presidente ed io il presidente onorario. Le attività che Eco Himal
svolge in quella zona sono piccoli interventi strutturali per aiutare la gente
del luogo: costruire scuole, acquedotti e rifugi principalmente. Ora, con
l’aiuto in loco di un gruppo di Sherpa, abbiamo già mandato del materiale e dei
soldi, raccolti durante serate di autofinanziamento.
Scuola promossa da Eco Himal in Nepal (fonte: http://www.ecohimal.it/news.html). |
Che consiglio darebbe a chi vorrebbe aiutare il
Nepal?
Gli aiuti vanno
benissimo, quindi chiunque vuole aiutare donando a delle associazioni è ben
accetto. È anche importante, però, che la gente continui ad andare lì a fare
alpinismo, trekking e a visitare quei posti anche come semplice turista. Per
esempio la rivista [INSERIRE NOME] ha pubblicato una lista dei percorsi che
sono praticabili, e dei nuovi sentieri che sono stati aperti, proprio per
incoraggiare la gente a venire a visitare quei posti, per non spaventarla
all’idea di venire in Nepal. Nella valle del Langtang è un disastro, ma anche
loro stanno lavorando per ricostruire; in più ci sono anche delle zone dove o
non è successo niente o dove la ricostruzione è già avvenuta perché i danni
erano meno ingenti. Per questo motivo non bisogna solo donare, ma anche non
farsi spaventare e andare lì, come si faceva prima, perché senza il contributo
dei viaggiatori, lì starebbero ancora peggio.
Per chi volesse donare a Eco Himal per gli interventi di ricostruzione e sostegno alla popolazione, le coordinate bancarie sono le seguenti: Eco Himal ONLUS, Banca popolare di Milano, filiale 180, via Sanvito Silvestro 45. 21100 Varese. IBAN IT53F0558410801000000000311.
Con Kurt Diemberger, Mario Corradini, Omar Oprandi e Luciano Rocchetti parleremo del terremoto del Nepal, di alpinismo e solidarietà, la sera di sabato 22 agosto, alle ore 21:00, al tendone di Riva di Vallarsa. Coordineranno la serata Roberto Mantovani e Filippo Zolezzi. Arrivederci in Vallarsa.
Pubblicato da Ludovico Rella ludovico_rella@yahoo.it
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