martedì 13 luglio 2010

IL RESPIRO DEL BOSCO



Giorgio Broz è un uomo fortunato: ogni giorno esce di casa per svolgere un lavoro che ama appassionatamente. E non si tratta certo di un lavoro comodo, né sicuramente di un compito facile. Calzati gli scarponi, o, quando è inverno, gli sci, ogni giorno, e con qualsiasi tempo, parte per pattugliare il vasto territorio della valle che gli è stata affidata.
Giorgio Broz è il custode forestale della Vallarsa.
E ama percorrerla sotto il sole e la pioggia, con la neve e con il gelo, quando fa caldo e quando le mani diventano insensibili per il freddo, e il naso pare staccarsi dalla faccia sotto i tagli del vento che scende dalle Piccole Dolomiti.
E mentre cammina per incerti tratturi, resi ormai invisibili dal viluppo di piante del bosco che avanza, Giorgio Broz osserva. Fotografa, a volte. Respira fino in fondo ai polmoni il mondo verde, o bianco, che lo circonda. E sempre, sempre, la sua anima intreccia un dialogo fitto e pieno di meraviglia con gli alberi e il cielo, con la neve e le sue innumerevoli forme, con i camosci e le bestie del bosco, con l'acqua dei ruscelli e le pietre del sentiero.
E ogni tanto, quando la gioia di quel che ha visto e attraversato gli trabocca un po' troppo forte dall'anima, decide di regalarcene un pezzetto. A volte sotto forma di fotografia. A volte sotto forma di racconto.

Ecco qui.


"Il respiro del bosco". Di Giorgio Broz.

Le pelli di foca, incollate agli sci, fischiavano trascinate dal mio passo un po’ lento sulla pista di neve battuta, mentre salivo verso il Cheserle. Neve anche sui rami degli alberi. Faggi dello stesso bosco divisi dalla strada, ma che ora si tenevano per mano intrecciando i loro rami bloccati dalla neve gelata. Chissà quali storie si raccontavano in quel paesaggio di fate. I bastoncini, che mi aiutavano nel cammino, bucavano la neve causando un curioso cigolio. Acuto, quasi un lamento che variava di tonalità quando seguivano in avanti il movimento del braccio. Nelle zone aperte a lato strada, la neve era alta, il bosco più lontano, e sulle Coste del Cheserle era arrivata una striscia di sole. Illuminava le piante bianchissime, cariche di neve quasi a farle risplendere. Il freddo si faceva sentire e stringeva questo piccolo mondo nella sua morsa di gennaio. La strada ora pianeggiante aiutava a risparmiare le forze e oramai ero al cimitero militare. Ogni tanto mi fermavo ad ascoltare, ma era solo il silenzio del bosco che dormiva a farmi compagnia. Anche la baita di Roberto dormiva e solo la profonda traccia degli sci era rimasta testimone della mia silenziosa visita. Proseguivo verso Monticello seguendo orme di racchette da neve e anche laggiù mi sembrava che il grande stallone e la baita riposassero. Seguivo queste impronte per comodità, per non scalfire una nuova traccia nell’alto spessore di neve polverosa dove lo sci sprofondava e la fatica si sarebbe presto fatta sentire. Lungo la salita verso le Buse, la neve ricopriva il bosco di mughi con grandiosi accumuli. Rotondi e osservati in controluce, erano illuminati da un continuo alternarsi di bianco e nero. In superficie la neve era ricoperta da uno spesso strato di brina. Non avevo mai visto cristalli di galaverna così grandi. Sotto la neve i mughi respirano; il loro fiato caldo sale, vuole uscire, ma in superficie ghiaccia. La differenza di temperatura fa aumentare continuamente le dimensioni dei cristalli. Mi sono detto che questo era il respiro del bosco. Non si sente, ma si può vedere. Il percorso in mezzo ai mughi era ampio e procedevo bene.
La baita di malga Buse sembrava la casa in cima al mondo. Si vedeva bene e quasi dall’alto, la catena di montagne dallo Stivo al Bondone e, ancora più lontano, il possente e inconfondibile profilo innevato del Brenta.
Poco dopo inizio la salita nell’intreccio di mughi. Per quanto conosciuto, impossibile ricordare la traccia del sentiero e solo grazie alle coraggiose pestole che mi precedono, posso proseguire.
Più volte lo sci sprofonda e s’incastra nei rami sotto la neve intrappolando il mio passo. Su questa neve asciutta e leggera le pelli di foca non aiutano molto e la salita è difficoltosa. Un continuo dibattersi in me tra il rinunciare e la voglia di andare avanti. Decido di continuare perché non vedo pericoli se non gli imprevisti che portiamo sempre con noi. Solo un grande silenzio e i “rotondi” di neve, solo il mio respiro e quello del bosco mi fanno compagnia.

Quasi all’improvviso appare il vuoto dei prati dello Spill, e all’uscita dal riparo del bosco l'aria è carica di invisibili aghi che pungono la faccia. Il freddo non mi lascia riposare e mi avvicino al bordo del grande burrone: mille metri sopra Valmorbia.
Porterò con me uno dei ricordi di oggi, riprendendo qualche immagine tra il vento che spazza la neve sulla sommità della montagna e va a scoprire le erbe secche del pascolo con i mughi bruciati, testimoni di un vecchio incendio.
Sul retro della baita del Dino, una pausa per il caffè d’orzo e per il cambio dei vestiti. Subito un senso di benessere e sono pronto per proseguire nella mia escursione. Mi dico che la parte più difficile è fatta e riprendo con il passo di metà percorso. Pensavo ad una piccola variante verso il Corno Battisti ad una baita conosciuta, ma mi accorgo che nessuno è ancora passato di lì. Davanti a me s’allunga uno scivolo di neve molto pendente, con grandi cumuli portati dal vento. Non è il caso di proseguire e tagliare la neve per primo. Scendo perciò verso malga Zocchi e nello strato nevoso consistente sembra quasi di galleggiare. Mi tengo alto sul costone perché voglio riprendere gli stabili della malga di fronte, dalla mia stessa altezza. Lascio alle mie spalle una traccia profonda e affaticata, ma riesco nell’intento. Ora farò un lungo giro “in piano” avvicinandomi alla cascina per controllare meglio questo stabile comunale e per riposare un po'.
Completamente diversa la neve sull’altro lato del vallone. Esposta al sole, riscaldata e raffreddata presenta duri crostoni. Anche quassù le baite dormono abituate al freddo dei loro moltissimi inverni. Trovo tutto in ordine e solo ora mi accorgo che l'orario è “già avanti”. Non si sentono campane quassù e non c'è l'esigenza di guardare l'orologio. C'è solo il silenzio che riempie l'anima e il colore del cielo da portare nello zaino per i giorni meno fortunati.
Quasi un bivacco la grande tettoia che vedo usata anche da escursionisti non sempre degni di queste quote. Lascio scorrere un po' il tempo e mi godo la vista del vallone che porta a Bocchetta Foxi e alle Corde. Con altro tipo neve sarebbe un’escursione bellissima per sbucare poi verso il rifugio Lancia. Ne ricordo una di qualche tempo fa.

Riprendo il mio passo tra le piante cariche di neve che forse mi guardano, e verso Pozza Orionda sono dentro un paesaggio degno del grande Nord. Mi muovo tra i larici immobili, bloccati dal gelo e mentre cammino osservo i raggi appuntiti del sole che sbucano tra il groviglio dei rami: ad ogni istante in un punto diverso. Mi sento parte di questo mondo incantato, di questo luogo meraviglioso che mi avvolge.Mi sento fortunato.
Come sempre in queste occasioni, quasi un peccato dover scendere a valle, ma la strada battuta e il piacere della discesa mi trascinano giù. Qualche sosta per rivedere e ricordare attimi che… l’attimo dopo sono già passati: il sole che illumina le Pale del Cheserle, la neve che nasconde i Sette Albi e ai lati della strada sempre grandi respiri del bosco pettinati con bellissime felci di ghiaccio.
Mi sono fermato più volte a fotografare il respiro del bosco e i cumuli rotondi in controluce. Avevo già numerose immagini, ma ad ogni sguardo sembrava che quello fosse il rotondo più bello e, più in là, quelle le scaglie più grandi. E mi trattenevo per riprendere ancora altre immagini.Scendendo di quota, sono scivolato in direzione di Giazzera. Qui non era più la neve sugli alberi, ma solo la brina che si stava sciogliendo. Mi colpiva il pulviscolo di ghiaccio che cadeva sulla strada come una pioggia asciutta, accompagnata da un impercettibile rumore: da ascoltare. Quasi una vibrazione che correva tra gli alberi del bosco.
Giunto al parcheggio ancora nell’ombra, è un larice dai “capelli bianchi” ad attirare la mia attenzione. Piccole ciórciole ghiacciate pendevano dai rami e gli facevano compagnia: tutte in fila sembravano i grani di un rosario. Prima che il sole arrivasse a sciogliere quel velo di cipria, li ho ripresi insieme nel loro inverno e li ho portati con me.


Giorgio Broz esporrà le sue fotografie al Museo della Civiltà Contadina di Riva di Vallarsa, dal 19 al 29 agosto 2010.

1 commento:

  1. Grazie mille a Giorgio Broz per averci regalato un po' di profumo freddo di bosco d'inverno. Con questo caldo, che nostalgia...

    RispondiElimina