venerdì 19 luglio 2013

"Il mondo perduto" di Vittorio De Seta: intervista a Lucia Marana

Il Festival “Tra le Rocce e il Cielo” ospiterà una rassegna documentari di Vittorio De Seta, il regista scomparso nel 2011 e di cui ricorre quest’anno il novantesimo dalla nascita. Questi documentari sono raccolti da Feltrinelli sotto il titolo “Il mondo perduto”. Vuoi parlarci un po’ di De Seta, e che cos’è questo mondo perduto di cui parla?
Per parlare del mondo narrato da De Seta, bisogna prima parlare del personaggio e della sua biografia. E’ nato nel 1923 e morto nel 2011, quindi possiamo immaginarci quale spettro di vicende storiche e di mutamenti, quante realtà diverse ha potuto vedere durante questa lunga vita. Nato in Sicilia, in un contesto urbano come quello di Palermo, e di “buona famiglia”, ma la sua attività di regista è tutta mirata a “dare voce” ai pescatori siciliani, sardi e calabresi, ai minatori sardi, al mondo agro-pastorale del meridione d’Italia. Realtà marginali, e che erano già marginali quando, nel 1954, inizia a lavorare a questi documentari.
Lui per primo, in interviste che ha rilasciato durante la sua vita, ha detto che è stata la prigionia di guerra l'esperienza che più di tutte lo ha formato nella sua attività di documentarista, mettendolo in contatto con le persone che poi sarebbero diventate i protagonisti delle sue opere. Egli ha sempre sottolineato il “debito di gratitudine” che lo lega a quella gente, perché lo ha messo in contatto con una cultura così distante da quella metropolitana da cui veniva.
Questo “debito di gratitudine” si sostanzia in un metodo nuovo, anche rivoluzionario, di fare documentario: egli abolisce la voce narrante, non parla ma dà voce a chi ha una storia da raccontare. Non solo abolisce la voce narrante, ma anche la sceneggiatura: il suo lavoro è quello di mettere assieme le storie dopo averle ascoltate, non ha binari prefissati su cui far scorrere il lavoro.
I suoi documentari non sono commentati, hanno solo dei sottotitoli didascalici che fanno da cornice, ma la storia è fatta delle voci, dei canti, della musica, dei rumori. L’oggetto che viene filmato è veramente il soggetto del documentario, senza filtri.
De Seta affermava che, non sapendo nulla delle culture che andava a documentare, egli si rifiutava di andare a svolgere il suo lavoro con bagagli pregressi, non voleva avere questa supponenza, e l’unico modo per farlo era far parlare solo la cultura locale.




Quindi un cinema che “parla poco” e invece “fa parlare” molto?
Sì, lui stesso diceva che non riusciva a svolgere l’attività cinematografica in modo “classico”, con un team  di specialisti che concorrevano a realizzare un “prodotto”. Ci aveva provato, ma non era riuscito a farlo. No, lui concepiva per intero la sua opera, e la realizzava con pochissimi aiuti: non c’era uno sceneggiatore, un tecnico luci, un tecnico del suono e così via, e questo non per supponenza, ma per il tipo di opera che vuole mettere in atto.

Torniamo invece all’oggetto di questi documentari: qual è il “mondo perduto” di cui De Seta parla, quali sono le sue caratteristiche?
Questi documentari sono girati fra il 1954 e il 1959, quindi è la realtà dell’Italia del sud, prevalentemente contadina, progressivamente messa ai margini dal boom economico che di lì a poco si sarebbe sviluppato.
Il suo intento non è né agiografico né denigratorio: semplicemente racconta di un mondo con delle caratteristiche e che ha subito un’evoluzione lunghissima e lentissima nei secoli, che però viene radicalmente soppiantato nel giro di poco tempo.
La lentezza di quel mondo, della sua evoluzione faceva pensare che non sarebbe finito mai, che quelle tradizioni, quei mestieri, quelle comunità sarebbero rimasti in eterno, invece De Seta si chiede come sia stato possibile che tutto sia finito da un momento all’altro.
Quel mondo non va rimpianto, era un mondo anche di fatica e sofferenza, ma tutta quella cultura che quel mondo comportava non va buttata a mare, dimenticata, rimossa. Quel mondo comprendeva anche un modo di lavorare, di stare insieme e fare comunità che poi è andato perduto assieme alla fatica e alla sofferenza.



Il mondo di cui De Seta parla è molto distante, nel tempo e nello spazio, dal territorio dove ci troviamo. C’è un filo rosso che ci unisce, e se sì, quale?
Sì, la cifra comune può essere trovata nel lavoro: nel lavorare nella natura e con la natura, e nel modo in cui questo lavoro si svolge, o almeno si svolgeva in passato.
Oltre al lavoro stesso, c’è una modalità di svolgere il lavoro che è, o è stato, un’esperienza in comune: un  lavoro scandito da ricorrenze, feste, dai ritmi e dai cicli della natura, in primo luogo l’alternarsi delle stagioni. Questi ritmi e cicli si sostanziavano, come già detto, in una serie di ricorrenze e di ritualità che sono comuni, pur con modalità diverse, delle realtà agricole e in cui il lavoro si svolge all’interno dell’ambiente naturale.

Il lavoro nella natura, che è un po’ anche il filo rosso più in generale di questa edizione del festival. Una modalità di lavoro con la natura ma soprattutto stando dentro alla natura, che progressivamente rischia di essere marginalizzato, sostituito da un lavoro che sta sempre meno nei ritmi e nelle “regole” dell’ambiente naturale.
Infatti dai documentari traspare chiaramente quanto sia preponderante il ruolo della natura per i "protagonisti”, si vede come la presenza della natura sia così centrale. Intendiamoci: centrale nel bene e nel male. Perché nello svolgere le proprie attività in un modo così profondamente radicato nella natura, la vita deve adattarsi ad essa, anche soccombere ad essa quando la natura mostra più fortemente il suo volto di sofferenza, di fatica e di privazioni.
In questo la vita in montagna può avere, ed ha avuto certamente, questi punti in contatto, questa comune esperienza di una natura centrale nella vita e per la vita delle persone.
Di nuovo De Seta ha capito quanto, da un lato, si debba ringraziare di essersi “salvati” da una vita così aspra, così faticosa come quella che conducevano le popolazioni che lui riprende. Dall’altro lato, non tutto è andato perduto a ragion veduta, è scomparsa una sintonia sana con i ritmi della natura, un rapporto rispettoso per l’ambiente e la vita, che oggi va decisamente riscoperto, va ripreso in mano un modo di stare nella natura che sia, sì, più vivibile e sostenibile per l’uomo, ma che sia sostenibile anche per il mondo che ci circonda.
Pensiamo, per uscire dall’argomento, a tutto quello che di quel mondo c’era a livello culturale: a livello linguistico i dialetti, che con il fascismo prima e la televisione poi sono andati persi, dimenticati.

Ora parliamo delle altre attività che hai in programma per questa edizione del Festival: partiamo con il laboratorio di fotografia che tu curi dall’anno scorso. Di cosa si tratterà quest’anno?
Il laboratorio di fotografia quest’anno cambia argomento: mentre l’anno scorso era centrato sulla fotografia naturalistica e di paesaggio, quest’anno avrà come titolo “fotografia di reportage: storie vissute e storie raccontate”.
Vogliamo mettere in luce come la figura del fotografo, del reporter, costituisca un nesso, attraverso l’immagine, con la realtà che documenta. Il modo di porsi con ciò che si intende fotografare, quindi, è essenziale per questa attività. E’ importante, tornando a De Seta, che all’oggetto sia lasciato spazio, in modo che diventi a tutti gli effetti soggetto della propria attività di reportage, il reporter non deve debordare oltre un certo confine.
Come l’anno scorso, i partecipanti dovranno realizzare un proprio progetto fotografico, che io suggerirò abbia al centro il territorio dove ci troveremo, quindi Vallarsa, e la sua gente.
La trattazione degli argomenti partirà comunque dalla natura come punto di partenza. In fondo, perché la fotografia e l’immagine sono mezzi così potenti per veicolare un messaggio e una storia? perché sono immagini che senza la realtà non esisterebbero. Sono un’impronta del reale, anche se poi possono essere interpretate, in certo modo “piegate” alle proprie esigenze espressive, ma è la naturalità, la realtà il punto di partenza obbligato per la fotografia.
Faremo poi una carrellata sulla storia della fotografia documentaria: si parlerà quindi delle tecniche e degli strumenti di cui il reporter si serve per raccontare le sue storie, e che evoluzione hanno subito.
Il laboratorio si volgerà fra sabato e domenica. La sede la stiamo ancora decidendo, anche se probabilmente sarà il Museo della Civiltà Contadina.

E’ previsto un momento a disposizione dei partecipanti per presentare il proprio lavoro?
Certamente. Una volta assegnato un progetto, ci saranno vari momenti di discussione sulle fotografie realizzate, fra un giorno e l’altro.

Anche quest’anno il festival ospiterà una mostra fotografica di tue immagini: parlaci un po’ di questa mostra.

Guarda, come al solito le idee sono tante, anche le immagini sono molto numerose, e quindi fare una scelta è sempre difficile, quindi ancora non so bene che volto prenderà la mostra, è ancora tutto work in progress. Ti posso dire che molto probabilmente la mostra avrà al suo centro la Vallarsa, intrecciando però questa realtà con altri luoghi, ma ancora una forma ben definita non c’è.

Insomma, ci lasci un po’ di suspense: allora a presto e ci vediamo al festival!
Certamente! A presto!




La rassegna cinematografica sarà proiettata giovedì 29 agosto e venerdì 30 agosto alle 19.30 a Riva di Vallarsa.  

Ludovico Rella

ludovico_rella@yahoo.it

2 commenti:

  1. Complimenti per la bella e densa intervista e auguri di buon lavoro con tutto il cuore, Marco

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  2. Grazie mille a Marco Romano, autore e regista e caro amico del festival.

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