Ermenegildo
Bidese sarà al convegno LE PAROLE DEL CUORE, Lingue e appartenenza nella
letteratura delle Minoranze, che si svolgerà a Obra, in Vallarsa, sabato 31
agosto, all’interno del Festival “Tra le Rocce e il cielo”.
Lei ha dedicato lunga parte della sua
carriera accademica allo studio della lingua cimbra e mochena. Come si svolge
una ricerca scientifica incentrata su lingue che fino a pochi anni fa
rimanevano prevalentemente orali?
Devo innanzitutto fare una breve premessa. Il quadro teorico di
riferimento nel quale conduco le mie ricerche è la Grammatica Generativa,
fondata ormai 60 anni fa dal linguista americano Noam Chomsky; assieme allo
Strutturalismo, la Grammatica Generativa o Generativismo rappresenta la più
influente corrente scientifica di studi linguistici del ‘900 e di questo inizio
di 21esimo secolo. L’obiettivo principale di questo approccio, per quanto
riguarda lo studio di una lingua, è la ricostruzione della competenza interna
dei parlanti nativi di una determinata lingua, cioè la formulazione di quelle
regole spesso inconsce che li guidano nel comprendere e nel produrre frasi e
che istintivamente permettono loro di distinguere tra frasi corrette e frasi
sbagliate, anche senza aver seguito alcun corso di linguistica. Ogni parlante
dell’italiano istintivamente sa, per esempio, che una frase come “ho lo visto”
è sbagliata, indipendentemente dal fatto che si abbia o meno conoscenza delle
categorie linguistiche o della grammatica prescrittiva dell’italiano. Per
questo motivo ogni lingua, che si tratti di un dialetto regionale senza alcuna
tradizione scritta o di una lingua nazionale ufficiale con secoli di scrittura
alle spalle, è fondamentalmente interessante e studiabile, in quanto si tratta
appunto di costruire una teoria sulla competenza interna dei parlanti di quella
lingua. In questo modello di ricerca scientifica, per la raccolta di dati empirici,
si usano spesso dei questionari, spesso molto dettagliati, che vengono somministrati ai parlanti, per
vedere quali frasi siano possibili e quali no. Tutto ciò è assolutamente
indipendente dalla codificazione scritta che una lingua ha avuto o ha, dal suo
prestigio in termini di uso pubblico o ufficiale, dalla grammatiche che sono
state scritte per descriverla, ciò è altrettanto indipendente dal numero dei
parlanti che una lingua possiede e dal loro grado di istruzione scolastica in
quella lingua.
Le strutture grammaticali peculiari di ogni
linguaggio tengono traccia di chi parla tale lingua? La lingua e le sue regole,
in altre parole, possono fare luce su come viveva e vive tuttora la comunità
che la parla?
No, non sono tanto le strutture grammaticali a fare luce sulla
condizione sociale dei parlanti e sulla storia della comunità che l’ha parlata
o la parla, quanto, eventualmente, la forma del lessico. Dai termini in uso e
dallo loro struttura si possono dedurre molte cose. Nel lessico del cimbro di
Luserna/Lusérn sono entrati, ad esempio, termini che provenivano dal dialetto
trentino e veneto come “glair” (ghiro) o “glutz” (singhiozzo). La forma, come
si presentano, con il gruppo consonantico “gl”, oggi non più presente così nei
due dialetti suddetti, ci dice che sono entrati nel cimbro in epoca medioevale;
si tratta, quindi, di prestiti antichi che ci fanno pensare ad un contatto
intenso, di molti secoli fa, tra la comunità cimbra e quella romanza. Lo stesso
si dica di altri prestiti lessicali romanzi come “mül” (mulo) o “baül” (baule)
con la metafonia sulla “u”, un tempo presente nei dialetti romanzi limitrofi,
ma oggi scomparsa. Lo stesso ragionamento ovviamente si può fare anche per il
lessico autoctono.
Qual è lo stato attuale della conservazione delle
“lingue minoritarie” di cui si è occupato? Che prospettive ci possono essere
per il futuro prossimo?
La domanda, a mio avviso, va inserita in un
contesto più generale. Secondo il più recente Atlante delle lingue del mondo in pericolo pubblicato nel 2010
dall’UNESCO, si calcola che in Europa ci siano ben 153 tra lingue minoritarie,
varietà locali e regionali, ma addirittura anche lingue ufficiali di piccoli
stati, come ad esempio il faroese, parlato nelle Isole Fær Øer, in pericolo di estinzione.
Basandosi sul criterio della trasmissione intergenerazionale della lingua
l’UNESCO ritiene che l’81.05% di esse, cioè 124, siano in condizioni definite o
di accertato pericolo (57, cioè il 37.25%) o di grave pericolo (55, cioè il
35.95%) o di pericolo critico (12, cioè il 7.84%). Se questa analisi è corretta
se ne ricava che il continente sta correndo filato verso il collasso della sua
ricchezza linguistica nel giro della prossima generazione o della generazione
successiva al massimo. L’Europa, in realtà, è il continente delle lingue che
muoiono! Da questa dinamica non sfuggono, ovviamente, le “lingue minoritarie”,
soprattutto quelle di dimensioni così esigue come il cimbro e il mòcheno, che
anzi ne sono investite in pieno e, in realtà, travolte, sottoposte come sono ad
una fortissima erosione. Secondo alcuni recenti studi presentati all’Università
di Yale nel 2008 e a quella di Zurigo nel 2012 a Luserna, a partire dalla metà
degli anni ’80 sarebbe iniziato un lento e graduale processo di sostituzione
linguistica: dal cimbro all’italiano.
Le prospettive per il prossimo futuro sono, perciò, serie.
Vanno aumentati gli sforzi per contrastare la dinamica di cui dicevamo. La
direzione verso cui andare è da una parte quella di rafforzare e stabilizzare
la trasmissione intergenerazionale della lingua minoritaria attraverso
programmi mirati di sostegno linguistico nell’infanzia prescolare e
l’introduzione della lingua di minoranza veicolare in nuove tipologie di scuole
primarie plurilingui, secondo metodologie già sperimentate nel Nord Europa. Un
altro punto importante è rafforzare il senso di comunità all’interno dei comuni
di minoranza. La coesione tra gli abitanti di un territorio, tanto più se
piccolo e distante dai centri principali, e il loro sentirsi gruppo sono
motivazioni sociali importanti per il mantenimento della lingua, che diventa
così fattore di appartenenza e di distinzione. Bisognerebbe, inoltre, spingere
e mettere a disposizione tutti i mezzi affinché la lingua di minoranza possa essere
usata pubblicamente e diventi a tutti gli effetti lingua ufficiale nei comuni
di minoranza.
Che valore aggiunto possono dare dei codici
linguistici così particolari in un contesto generale in cui si tende sempre più
ad usare lingue di interscambio mondiali, come l’inglese, a scapito perfino
delle lingue nazionali meno parlate a livello globale?
Ci sono molte ricerche
che mettono in evidenza come il plurilinguismo precoce, di qualunque lingua
sia, rappresenti un forte e duraturo arricchimento per il bambino e un chiaro
vantaggio a molti livelli. In realtà, il monolinguismo, sia esso nazionale o
internazionale, è, piuttosto, un deperimento delle capacità tanto cerebrali che
mentali. Esso rappresenta anche nella storia un’eccezione, concepita negli
stati nazionali europei della modernità, che facevano coincidere le nozioni di
stato, popolo e lingua.
Oltre a questi vantaggi
cognitivi dati dal plurilinguismo, tuttavia, vorrei dire anche che ognuno di
noi non si muove mai solo ad un unico livello di interazione linguistica. C’è
senz’altro quello internazionale, che negli ultimi decenni è notevolmente
aumentato, ma altrettanto aumentata è l’esigenza di interazione territoriale
nell’attiva partecipazione alla costruzione della realtà locale, a molti
livelli. In questa prospettiva si inserisce anche il vantaggio dato dalla
conoscenza del codice linguistico locale o particolare e dal suo uso attivo.
Tanto va aumentata e incentivata la conoscenza di codici di interazione
linguistica internazionale, tanto quella dei codici locali.
Linguisticamente e culturalmente, che mondo
si immagina nel futuro prossimo? I nuovi mezzi di comunicazione e aggregazione
digitale possono offrire nuovi strumenti per la sopravvivenza di lingue e
tradizioni locali?
Assolutamente sì. Penso che i nuovi mezzi di comunicazione digitale
offrano degli strumenti nuovi non solo di messa a disposizione di contenuti
attraverso video e giornali digitali in lingue che altrimenti hanno poco spazio
nei mezzi di comunicazione tradizionali, ma anche di “tools” per l’insegnamento
e la trasmissione della lingua stessa. In un interessante articolo del 18
febbraio 2012, ancora reperibile sul sito della BBC (http://www.bbc.co.uk/news/science-environment-17081573) il giornalista scientifico Jonathan Amos
spiega come alcuni scienziati siano convinti che i social networks, gli
I-phones e molte applicazioni digitali stiano rivoluzionando la comunicazione
all’interno di molte comunità di minoranza, le cui lingue erano praticamente
moribonde. E porta alcuni esempi: gli indiani del Nord-America usano, ad
esempio, in modo massiccio le reti sociali per motivare i giovani
all'apprendimento e all'uso della lingua nativa. I Tuva, un popolo nomade tra
la Siberia e la Mongolia usano un'applicazione di I-phone per insegnare
correttamente la pronuncia della loro lingua. I pochissimi parlanti del Siletz
Dee-ni, una lingua nativa in uso in un'area molto ristretta dell'Oregon,
classificata dai linguisti come moribonda, hanno ricominciato ad insegnare la
lingua a giovani e interessati attraverso un dizionario online che raccoglie
più di 14.000 parole. I tre esempi citati sono solo alcuni. Tutti sono
d'accordo nel sottolineare che la lingua si salva parlandola sempre e ovunque
nel rapporto interpersonale, ma questi "tools" possono aiutare molto,
tanto che lingue ormai sulla soglia dell’estinzione hanno riacquistato forza e
parlanti di ritorno. Si tenga presente che le vendite di I-phones hanno ormai
superato quelle dei PC. Purtroppo da noi non sono a conoscenza di esempi di
questo tipo, ma è senz’altro una direzione verso cui andare.
Riccardo Rella
rella_riccardo@yahoo.it
Nessun commento:
Posta un commento