sabato 29 agosto 2015

Obiettivo Forte: i risultati

Ecco a voi i risultati del concorso Obiettivo Forte.

Premi della giuria


1∞ classificato
Forte Dosso delle Somme - Ettore Broz
La prospettiva che non sembra lasciar scampo trasporta l'osservatore dal manufatto al rado bosco, il cielo e le sue nuvole enfatizzano la drammaticit‡ dello scatto, l'uso sapiente del bianconero valorizza le forme e la composizione.

2∞ classificato
Orizzonti di gloria - Daniele Piggio
Nella fotografia "Orizzonti di gloria" sono ben coniugati tutti i piani dell'osservazione, dal primissimo piano che crea quasi una cornice fino al punto di luce in fondo alla galleria. Un composizione coinvolgente e ben riuscita.

3∞ classificato
Ultime luci sulle batterie di Monte Feste - Ivo Pecile
La luce radente che valorizza la vegetazione e lo sfondo è egregiamente catturata e resa al meglio dall'autore, che sembra voler comunicare il contrasto tra la durezza del soggetto e la quiete del paesaggio che lo circonda.

Premio foto social
Profumo colori del Ricordo. Non dimentichiamo. Trincee Nagià Grom - Virginia Trinco
La foto più votata sul social network Facebook

Premio foto in mostra
Orizzonti di gloria - Daniele Piggio
La foto più voatat alll'interno della mostra esposta al museo della civiltà contadina.





Un ringraziamento speciale ai membri della giuria e a tutti i partecipanti.

mercoledì 26 agosto 2015

Un grazie ai nostri sponsor



A qualche giorno dal termine del Festival della montagna TRA LE ROCCE E IL CIELO nel tirare un bilancio di questa manifestazione non possiamo fare a meno di ringraziare i nostri sponsor, grazie al contributo dei quali abbiamo potuto realizzare il Festival.


Ve li presentiamo:


Cantine Vivallis. Vivallis è il marchio che nasce raccogliendo l’eredità secolare della Società Agricoltori Vallagarina - Vallis Agri Scarl. Esprime la forza delle sue radici, che risalgono al lontano 1908, raccogliendo e trasformando le uve provenienti da oltre 700 ettari di vigneti, posti in zone altamente vocate, sapientemente coltivati da 730 soci, guidati da un preparato team tecnico di agronomi ed enologi. L’obiettivo è racchiudere nei loro vini cultura, storia e passione del passato e, attraverso l’uso misurato di tecnologie avanzate, offrire contenuti più moderni, per continuare ad essere espressione vera e dinamica del territorio della Vallagarina.
www.vivallis.it


Distilleria Marzadro, La distilleria, a conduzione familiare nasce a Brancolino di Nogaredo in Vallagarina, dall'intuizione di nonno Attilio e della sorella Sabina, appassionati dell'antica arte della distillazione della vinaccia, a quel tempo limitata per lo più alla soddisfazione di fabbisogni familiari. Con gli anni l'azienda si è evoluta e sono subentrati figli e nipoti di Attilio, pilastro insostituibile della famiglia, che hanno puntato sempre di più all'adeguamento dell'azienda per soddisfare le esigenze del mercato internazionale, contando sulla qualità nella produzione di acqueviti, grappe e liquori.
www.marzadro.it


Grafiche Futura è un’azienda che ha oltre 20 anni di esperienza nel settore tipografico. Offre un servizio completo, dalla progettazione grafica, alla stampa offset o digitale.
«Negli anni, siamo riusciti a formare un gruppo di lavoro motivato che opera in sintonia. Le tecnologie e le procedure sono collaudate da anni di esperienza diretta. Il rapporto con i clienti è una collaborazione attiva. La continua ricerca e il “mettersi in gioco” è alla base della nostra filosofia aziendale e ci permette di offrire soluzioni ottimali, certe e affidabili nella qualità e nei tempi richiesti.»
www.grafichefutura.it


Montura L'idea come ricerca che anticipa il futuro: è da qui che nasce Montura, dalla voglia di guardare oltre i confini dell'esperienza per ricercare sempre nuove soluzioni, proprio come l'alpinista che alimenta i suoi sogni esplorando gli orizzonti.
www.montura.it


Calliari Fiori nasce tutto nel 1978 da una felice e fortunata idea di Mariano Calliari che, appassionato di piante decise di far costruire alcune serre di 600 mq per dedicarsi alla coltivazione di piante da interno, stagionali, piante fiorite, oltre naturalmente alla sua vera passione, le piante da orto. Il garden center vero e proprio viene aperto nel 1985. Nel nuovo spazio si possono acquistare attrezzature per giardinaggio, fertilizzanti, fiori recisi, vasi, bulbi, sementi oltre a qualificatissimi servizi di addobbi floreali per ogni occasione. Attualmente l'azienda dei fratelli Calliari (Mario, Ugo e Luca) occupa una superficie complessiva di 8.000 mqUn negozio di circa 500 mq. è dedicato alla vendita di fiori recisi, piante da interno, fertilizzanti, tutti i prodotti per la cura e la manutenzione di piante e spazi verdi.
www.calliarifiori.com


Trinco Automobili Concessionaria Suzuki Trinco Automobile è concessoniaria esclusivista moto Guzzi per il Trentino Alto Adige.
«I tempi oggi, anche se cambiati non cambiano la passione, che è la stessa di nostro padre Ugo Trinco che per la Vallarsa ha sempre avuto una simpatia per gli abitanti e un riguardo speciale verso questa terra, Io e mio fratello Alberto crediamo e portiamo avanti con la stessa forza che nostra padre Ugo ci ha lasciato» -Alessandro Trinco.
www.trinco.it


Concast Controllo qualitativo, promozione e commercializzazione dei prodotti caseari tipici del Trentino sono i campi d'azione di Trentingrana Concast, il consorzio di secondo grado nato nel 1993 dalla fusione di Trentingrana e il Consorzio dei Caseifici Sociali e dei Produttori latte Trentini. Più di 1400 soci fanno capo ai 22 caseifici cooperativi distribuiti sul territorio.
Oggi Trentingrana ha deciso di riunire i due centri operativi commerciali Trentingrana e Formaggi Trentini in un unico polo commerciale, denominato Gruppo formaggi del Trentino.
www.concast.tn.it

lunedì 24 agosto 2015

Chiusura col botto per Tra le Rocce e il Cielo



Si è concluso con gli applausi di un migliaio di persone ieri l’edizione 2015 del festival tra le Rocce e il Cielo. Alla Campana dei Caduti nella suggestiva cornice dell’anfiteatro all’aperto di fronte a Maria Dolens si è raccolto un folto pubblico.


Prima dello spettacolo sono intervenuti Lorenzo Baratter per la Provincia Autonoma di Trento, Alberto Robol, reggente dell’Opera Campana dei Caduti, Giuseppe Ferrandi, direttore del Museo Storico di Trento, Cristina Azzolini, vicesindaco di Rovereto, Massimo Plazzer, sindaco di Vallarsa e Fiorenza Aste, organizzatrice del festival.

I profondi rintocchi della Campana, ascoltati in silenzioso raccoglimento, hanno dato inizio allo spettacolo, scritto, diretto e sceneggiato da Paolo Fanini “I crocevia delle coscienze, storia di un disertore”.

Lo spettacolo ha messo in scena una profonda e sofferta riflessione sul ruolo della storia e della memoria nel costruire una cultura di pace e riconciliazione, e sul coraggio della diserzione e della responsabilità individuale per opporsi a soprusi ed ingiustizie, il tutto accompagnato da intermezzi di immagini di repertorio, musiche, letture, e con il contributo del Coro Pasubio di Vallarsa. Il pubblico, commosso dalla rappresentazione, è più volte esploso in applausi a scena aperta, e ha tributato una lunghissima ovazione agli attori, musicisti, all’autore Paolo Fanini e all’organizzazione del festival.

Un coronamento di questa edizione che ha trattato in convegni, conferenze concerti e spettacoli i temi dell’om selvadeg, delle migrazioni e della guerra dalla Grende Guerra ai conflitti in corso.


Tutta l’organizzazione del festival, lo staff e Accademia della Montagna vogliono ringraziare tutti coloro che hanno reso il festival e questo spettacolo possibile: la Provincia Autonoma di Trento, la Regione Trentino Alto Adige-Sudtirol, la Comunità della Vallagarina, i Comuni di Vallarsa, Trambileno e Rovereto, il CAI, la SAT, i musei gli enti e le associazioni che hanno collaborato con noi e gli sponsor che ci hanno sostenuti.

Vogliamo inoltre esprimere la più profonda gratitudine verso il pubblico per una partecipazione tanto calorosa ed entusiasta.

mercoledì 19 agosto 2015

Wildermann di Theo Teardo



Teardo è reduce dalla vittoria al Pula Film Festival, rassegna cinematografica croata che gli ha
conferito il “Golden Arena” per la colonna sonora realizzata per You Carry Me di Ivona Juka. Il
riconoscimento va ad aggiungersi al premio vinto, lo scorso febbraio agli Irish Theatre Awards, per le musiche dello spettacolo Ballyturk del drammaturgo Enda Walsh, da cui Teardo ha tratto l’album
omonimo. Di recente il musicista pordenonese è tornato in Irlanda, ospite dell’International Arts Festival di Galway, come unico artista italiano in cartellone insieme a St. Vincent, Damien Rice e
Sinead O’Connor.

Una toccante opera musicale nella quale il musicista di origini friulane sublima le immagini del fotografo francese guardando a un passato perduto, lontano dal torpore contemporaneo.
La musica di Teardo attrae e si lascia attrarre liberamente da altre forme d’arte, delineando, in “Music for Wilder Mann”, una nuova relazione tra gli strumenti della tradizione e l'elettronica.



Forte dell’apporto dato, e che continua a dare, al cinema con le colonne sonore di film come Diaz, Il Divo, Denti e, non ultimi, i documentari La Nave Dolce di Vicari, e Noi non siamo come James Bond, il compositore Teho Teardo si accosta questa volta a un altro tipo di immagini: le fotografie di Charles Fréger contenute nel libro Wilder Mann, la figura dell’Uomo Selvaggio - Peliti Associati 2012).

A ispirare le composizioni di Teardo sono i ritratti di uomini che indossano costumi fatti con pelli animali e che rappresentano, in modo rituale, la trasformazione in selvaggi, divenendo orsi, cinghiali,
mostri e diavoli che terrorizzano, esseri che sbalordiscono, sormontati da corna o palchi di cervo per
celebrare il ciclo della vita e delle stagioni che cambiano.

Commozione è lo stato d'animo che pervade l'intero lavoro, dove l'aspetto emozionale è sempre in
primo piano, sia nei momenti di maggior rarefazione della musica, sia nei crescendo ipnotici in cui
tutto esplode.

La collaborazione tra il compositore e il fotografo francese è incentrata sulla necessità di scavare
nella mai sopita aspirazione dell’uomo di tornare a ciò che è più vero, istintuale, primitivo, liberandosi dalla pigrizia che caratterizza la moderna era tecnologica. Ed è proprio nella tecnologia
che la componente elettronica della musica di Teardo mette in discussione se stessa, attraverso il
confronto con creature terrorizzanti e misteriose. Il presente elettronico, che determina anche la musica, necessita di trovare punti di contatto con il passato, senza nostalgia, senza retorica; la
capacità evocativa della musica che riuscirà a manifestare presenze inquietanti nel torpore contemporaneo.


Teho Teardo presenta Wildermann al Festival Tra le Rocce e il cielo giovedì 20 agosto alle 21.30 al tetaro di S.Anna a conclusione della giornata dedicata all'Om selvadeg.
L'ingesso è libero

Raccontare la guerra: dalla memoria, lezioni per un futuro di convivenza. Intervista con Svetlana Broz

Cardiologa di guerra e attivista per i diritti umani, Svetlana Broz, nipote di Josip "Tito" Broz, è un fiume in piena. Dall'inizio del suo impegno come cardiologa di guerra nel 1992 al fronte fra Serbia e Bosnia, fino alla raccolta di testimonianze riguardo alla pulizia etnica e genocidio avvenuti in quegli anni, analizza con lucidità le cause della guerra, il modo in cui si è sviluppata, e la situazione attuale. Da questa ricostruzione, ne ricaviamo importanti lezioni, per l'Europa ed il mondo.
Svetlana Broz.
Quando hai deciso di andare volontaria come cardiologa di guerra?
Sono andata al fronte nel dicembre 1992, quando iniziò la guerra in Bosnia. Fino ad allora, lavoravo come cardiologa a Belgrado. Non avevo mai sentito prima la necessità di andare volontaria in scenari di guerra, non finché è scoppiata la guerra: ero una cittadina jugoslava, e quello che stava succedendo coinvolgeva i miei concittadini. Ho capito che non potevo stare nella mia comoda poltrona davanti alla televisione, assistendo a stragi che avvenivano a cento chilometri da dove vivevo. Non potevo stare in silenzio davanti a bambi, ad innocenti massacrati. Ho deciso così di andare volontaria al fronte come medico, ho sentito che se avessi potuto aiutare anche solo una persona, avrei potuto fare la differenza. Dopo quei fatti ho mantenuto il mio impegno, solo che questa volta senza le apparecchiature mediche ma con il mio registratore e il blocco per gli appunti in tasca, raccogliendo testimonianze. Ho raccolto i racconti di quello che è successo, le dimostrazioni di coraggio civile: non si può raccontare soltanto il male, bisogna raccontare tutti gli episodi di coraggio e di umanità. Ogni conflitto è destinato a finire ad un certo punto, anche la guerra dei cent’anni è finita.

Parliamo della guerra: vista da fuori, la guerra fu quasi inaspettata. Tu che l’hai vista scoppiare in prima persona, che cosa hai capito di quel conflitto? Com’è scoppiato, e come si sarebbe potuto evitare?
Prima della guerra in Jugoslavia, non potevo credere che la guerra raggiungesse il mio paese. Mi ricordo che, quando studiai medicina a Belgrado, mi rifiutai di frequentare il corso di chirurgia di guerra, che era un esame opzionale: non credevo mi sarebbe mai servito quell’esame, il mio paese non avrebbe mai dovuto affrontare una guerra. I miei concittadini la pensavano nello stesso modo. Il problema, però, è che i politici dell’epoca non la pensavano così. Queste persone hanno meticolosamente preparato la guerra fomentando il nazionalismo, mettendo in moto una macchina di propaganda e odio. Lentamente, la paura si è insinuata fra i miei concittadini, hanno iniziato ad aver paura gli uni degli altri. Nonostante questa propaganda e questa diffidenza, però, nessuno sentiva che le varie etnie si sarebbero dovute combattere da loro. In oltre novanta testimonianze che ho raccolto, tutte le persone hanno detto la stessa cosa: che non si vedeva un motivo per cui si sarebbe dovuto combattere fra concittadini. Infatti, il conflitto cominciò con un incontro fra  Franjo Tuđman, il presidente croato, e Slobodan Milošević, nel 1991. In quell’incontro venne pianificata la guerra, e la spartizione della Bosnia secondo linee etniche.

Quali lezioni si possono imparare dalla guerra in Jugoslavia?
Prima di tutto che bisogna restare vigili, perché a un certo punto i politici, o alcuni di loro, vedere conveniente il fomentare un conflitto, il seminare paura e odio. In quel caso, le persone, i cittadini, dovrebbero essere vigili e critici fin dall’inizio, mostrare coraggio civile e resistere alla tentazione di seguire i leader lungo il sentiero dell’odio. Una massa critica di cittadini consapevoli è necessaria in ogni società in modo da evitare escalation nella violenza. Per questo, oggi, il mio primo impegno è educare al coraggio civile le giovani generazioni.

Cos’è, per te, il coraggio civile?
A Garden of the Righteous Worldwide - GARIWO (il Giardino dei Giusti) chiamiamo coraggio civile la volontà e la capacità di disobbedire, resistere ed opporsi, e di interrompere con mezzi non violenti l’abuso di potere da parte di qualsiasi autorità pubblica, privata o da parte di individui. Questo abuso di potere può derivare dal fatto che queste persone o istituzioni vengono meno deliberatamente ai loro doveri nei confronti della società, oppure usano illegalmente il loro potere politico, economico o sociale violando i diritti umani, che sia nel contesto dei mezzi di comunicazione di massa, nell’università e nell’istruzione, nei contesti religiosi o familiari.

Secondo te, come si può insegnare il coraggio civile alle giovani generazioni?
Certamente insegnare il coraggio civile è un percorso lungo. Un elemento fondamentale sono i modelli di riferimento. Quando racconti esempi, esperienze reali di donne e uomini che hanno aiutato altre persone durante la pulizia etnica, tu mostri un differente modello di riferimento ai ragazzi. Specialmente se gli alunni incontrano dal vivo queste persone che hanno mostrato coraggio civile rischiando la propria vita per salvare quella degli altri, tu mostri che questi non sono esempi astratti, ma sono cose reali e praticabili. Se un modello di riferimento si diffonde e diventa comune, allora ad un certo punto inizieranno a emergere leader che si comporteranno come quel modello di riferimento. Tutto, quindi, dipende da quale modello di riferimento si riesce a diffondere. Per questo stiamo pubblicando un libro su modelli di riferimento e didattica, organizziamo seminari e incontri nelle scuole, e altre attività che potete trovare sul nostro s
ito www.gariwo.org, in inglese. In più, mettiamo molta attenzione sull’uso dei media, visto che, come ho detto, radio e televisione sono stati così importanti per seminare l’odio prima della guerra. Per questo abbiamo fatto una serie di documentari da mezz’ora l’uno, che illustrano esempi di coraggio civile. Cambiare la mente è sempre un percorso lungo, e gli esiti sono sempre imprevisti. La nostra esperienza, tuttavia, mostra che la gente vuole imparare e cambiare, e questo è incoraggiante.

GARIWO: Garden of the Righteous Worldwide.

Parlaci di GARIWO – Garden of the Righteous Worldwide (Il Giardino dei Giusti). Quando ti sei unita? Quali progetti avete in programma?
GARIWO è una organizzazione non governativa fondata a Milano, in Italia, nel 2001. L’idea si ispira al Giardino dei Giusti di Gerusalemme, dove ogni persona che abbia aiutato degli ebrei a sfuggire all’olocausto ha un albero di ulivo a ricordarlo piantato in quel giardino. La nostra idea è che in ogni paese che abbia subito pulizia etnica e genocidio abbia un Giardino dei Giusti a ricordare gli esempi di coraggio civile. Il progetto che volevamo portare avanti era di costruire un Giardino dei Giusti a Sarajevo, una città simbolica, per via delle sofferenze patite durante la guerra. Venne costituito un comitato di cui ero la presidente. Tuttavia, abbiamo fallito in questo sforzo, ma non per colpa nostra: fin da subito molti dei politici locali, alcuni dei quali coinvolti in crimini commessi durante la guerra, hanno iniziato a minacciare di tagliare gli alberi se fossero stati dedicati a dei Giusti di una etnia diversa dalla loro, e cose simili. Io non volevo creare il parco per interessi di parte, fossero essi di etnia o di partito. Io volevo creare il Giardino per le famiglie, i bambini e i nonni, perché potessero andare lì a divertirsi, leggere i nomi delle persone a cui erano dedicati gli alberi, e andare al museo dentro al parco a leggere la loro storia. Non c’erano le condizioni per realizzare questo tipo di progetto, quindi lo abbiamo accantonato, è chiaro che i politici di Sarajevo hanno ancora da maturare, per essere pronti per la riconciliazione e la memoria.

A che punto è la riconciliazione? La situazione è migliorata o peggiorata in questi anni?
Come dice von Clausewitz, “la guerra è politica proseguita con altri mezzi”. In Bosnia, ora, la vita pubblica è “guerra proseguita con altri mezzi”, con quelli della politica. Questo vuol dire che la riconciliazione è, oggi, allo stesso punto di dove si trovava vent’anni fa, alla fine della guerra: Serbia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Macedonia e Kosovo, hanno tutti ancora gli stessi politici che avevano all’epoca della guerra, gli stessi che sono connessi con crimini di guerra, o che hanno approfittato delle condizioni del dopoguerra. Pensate a cosa sarebbe successo alla Germania se, dopo la seconda guerra mondiale, i nazisti fossero rimasti al potere: questo è precisamente lo scenario che abbiamo ora in tutti i paesi dell’ex Jugoslavia. Fino a quando non si sostituiscono i politici nazionalisti e fascisti con altri politici, la riconciliazione è ferma, perché un signore della guerra non si trasformerà mai in un custode di pace.

Quale ruolo ha avuto l’Unione Europea, e che ruolo dovrebbe avere?
L’Europa è stata silenziosa: nessuno ha parlato per la Jugoslavia quando il mio popolo sanguinava e veniva massacrato. Alexander Langer ha lottato a lungo per avere giustizia per la mia gente, ed è arrivato fino a sacrificare la sua vita quando ha capito di aver fallito nel tentativo di spingere la comunità internazionale a prendere una posizione. Ma Langer è rimasto un’eccezione: l’idea dell’Europa, nella maggioranza dei casi, è stata “il popolo elegge i politici, poi noi trattiamo con chi è stato eletto”, mentre dovrebbero fare pressioni perché i nazionalisti e i fascisti non siano più sul palcoscenico della politica. Le Nazioni Unite, tramite il loro Alto Rappresentante in Bosnia-Erzegovina, hanno i cosiddetti “Poteri di Bonn”: possono imporre leggi o di revocare quelle contrarie agli Accordi di pace di Dayton. In più, l'Alto Rappresentante può rimuove dai loro posti i funzionari a tutti i livelli o anche interdirli dalla vita pubblica. Solo che le Nazioni Unite non usano questi poteri, e lasciano al loro posto le persone coinvolte nei crimini di guerra e contro l’umanità.

Quale consiglio daresti all’Europa per costruire una società multietnica che non caschi a pezzi al primo segnale di tensione?
Credo che la lezione più importante da imparare dall’ex Jugoslavia sia che mai e poi mai si devono fare stati, costituzioni e confini basati sull’etnia e sul sangue. Gli stati sono e devono essere dei loro cittadini, ognuno con uguali diritti. Abbiamo visto cos’ha portato la divisione della Jugoslavia su basi etniche: la Bosnia-Erzegovina fra tutti ha una costituzione su base etnica, scritta a Dayton (in Ohio, Stati Uniti), e questa costituzione, semplicemente, non funziona. Questa è una lezione che deve essere capita anche dall’Europa: uno stato etnico, soprattutto nel ventunesimo secolo, semplicemente non funziona.

La tua famiglia e il tuo cognome sono certamente “ingombranti”: sei la nipote del maresciallo Tito, che ha governato la Jugoslavia dal 1945 al 1980. Questo ti ha aiutato o ostacolato nella raccolta delle testimonianze di guerra?
Nella raccolta delle testimonianze il mio cognome mi ha notevolmente aiutato. Le persone hanno sempre identificato il cognome Broz, e il nome di Tito, con l’antifascismo, con lo sforzo di mio nonno di togliere il nazionalismo dal dibattito pubblico, di costruire una Jugoslavia realmente multietnica. Loro tutti sapevano che non avrei mai potuto essere una nazionalista: tutte le etnie, tutte le comunità dell’ex Jugoslavia, le sento mie, sono parte di me. Tutte le persone che ho intervistato hanno detto la stessa cosa: “al tempo in cui Tito era il presidente della Jugoslavia, avevamo una vita dignitosa”. Ovviamente, un discorso a parte vale per i politici ex-jugoslavi: erano nazionalisti, odiavano Tito e, quindi, odiavano me. Hanno sempre cercato di fermare questa mia attività, mi hanno minacciata, ma questo è un problema loro, non mio.

Come forse saprai, ci sono teorie storiche che dicono che Tito, o i suoi genitori, nacquero in Vallarsa e poi si trasferirono, durante gli ultimi anni dell’Impero Austroungarico, in Croazia. Cosa ci puoi dire di questa teoria? Hai fatto delle ricerche riguardo all’origine della tua famiglia?

Mi sono imbattuta in questa teoria una decina di anni fa, quando venni in Trentino per la prima volta, mi è stato dato un libro sull’argomento. Posso dire oggi la stessa cosa che ho detto allora: sarei onorata di avere anche radici italiane nella mia famiglia. Dopo tutto, io ho già sei diverse radici etniche e nazionali, provenienti da tutti gli angoli dell’ex Jugoslavia e d’Europa, grazie ai miei antenati, quindi sarei felice di poter mettere l’Italia fra le mie origini. Purtroppo, devo dire che questa teoria è solo una teoria: ho prove documentate che mio nonno è nato esattamente nel villaggio croato di Kumrovec, come riporta la sua biografia ufficiale. Non posso però né negare né confermare niente riguardo ai suoi antenati: può darsi benissimo che fossero nati in Vallarsa e da lì si siano spostati successivamente, su questo non ho notizie. Dopo tutto, il cognome Broz non è comune in nessuna zona dell’ex Jugoslavia, mentre è molto comune lì, quindi può darsi.

Con Svetlana Broz parleremo di raccontare la guerra, di comecome è cambiato il modo di parlare dei conflitti. Appuntamento alle ore 15:30 di Domenica 23 agosto, al Teatro di Sant'Anna di Vallarsa. Introduce Giuseppe Ferrandi, Con Raffaele Crocco – Atlante delle Guerre e dei conflitti del mondo, Fausto Biloslavo - raccontare la guerra oggi, Davide Sighele – Le armi tacciono ma il racconto continua, Svetlana Broz – I giusti al tempo del male, Alain Mata Mamengi – Strisce di guerra: raccontare il conflitto a fumetti.



Pubblicato da Ludovico Rella ludovico_rella@yahoo.it

Alpinismo e Solidarietà #4: Intervista a Kurt Diemberger.

Pioniere dell’alpinismo sia in Europa sia in Himalaya, Kurt Diemberger nasce a Villach, nella Carinzia Austriaca, e di recente si è trasferito a Bologna. Ha scalato due ottomila in prima assoluta, oltre ad aver aperto numerose vie nelle Alpi. È autore dei libri “Da zero a ottomila”, “Il settimo senso”, “Passi verso l’ignoto” e “Danzare sulla corda”. È anche stimato documentarista e cineasta: Durante la serata di sabato 22 agosto, avremo modo di vedere parti di alcuni suoi documentari e film realizzati in Nepal.

Kurt Diemberger.

Come si è avvicinato all’alpinismo, cosa l’ha spinta, e che significato dà all’essere alpinista?

La mia prima curiosità, quando ho iniziato a fare l’alpinista, è stata la raccolta di fossili, prima, e poi anche cristalli e rocce. Ne parlo nel mio primo libro, “Da zero a ottomila”. La mia iniziazione all’alpinismo non è stata, quindi, sportiva, ma esplorativa. Per esempio nel 1956 ho aperto la via al Gran Zebrù, la cosiddetta “Meringa di ghiaccio”: io volevo prima di tutto sapere come fosse composta questa enorme montagna di acqua ghiacciata. Volevo, da un lato, scoprire le montagne “da dentro”, da cosa erano fatte, cosa nascondevano al loro interno; dall’altro lato, volevo scoprire se ce la facevo, se ero in grado di raggiungere la vetta. Anche sul Monte Bianco si trovano cristalli bellissimi, ma non è permesso prenderli.

Gran Zebrù, 3875 metri.

Lei parla di “Settimo Senso”: di cosa si tratta?

Il Settimo Senso per me è la voglia di creare, la voglia di contribuire. Il Settimo Senso è la convinzione che non conta solo scalare una parete, o superare se stessi: l’obiettivo è creare e di lasciare qualcosa. Questa nuova motivazione mi ha portato al film come strumento artistico, e a diventare il cineasta degli 8000. Anche prima di salire sul “tetto del mondo”, però, ho iniziato a documentare le ascese tramite film: quando salii sul Monte Bianco feci il mio primo film, “Monte Bianco: la grande cresta del Peuterey”, girato in cinque giorni di ascensione.

"Il settimo senso", di Kurt Diemberger, ed. Alpine Studio.

Com’è arrivato in Himalaya?

Sono andato in quella zona nei tardi anni cinquanta, subito dopo la “Grande Meringa”. All’epoca scalare il ghiaccio era il non plus ultra della difficoltà e della sfida, tecnicamente parlando. Dopo quell’impresa andai sul primo 8000: il Broad Peak (8047 metri), nel 1957. La mia spedizione era composta da Hermann Buhl, Marcus Schmuck e Fritz Wintersteller. Questa è stata una prima ascensione, in “Western Alpenstiel” o stile alpino occidentale: senza portatori d’alta quota, senza ossigeno e respiratori. Quell’ascensione è stata pionieristica ed è rimasta nella storia dell’alpinismo. Più tardi sono andato su un’altra cima, fino ad allora inviolata, degli 8000: il Dhaulagiri (8167 metri), che credo sia rimasta la cima più alta raggiunta senza respiratori in prima ascensione. In questo caso ci facemmo aiutare dagli Sherpa. Avevamo anche un piccolo aereo che atterrava sopra i ghiacciai, attorno ai 5000 metri. Durante l’ascensione, però quest’aereo si ruppe, quindi alla fine non lo utilizzammo.

Dhaulagiri, 8167 metri.

Oltre all’ascensione in sé, che rapporto ha avuto con la cultura locale, con la gente che abita quelle montagne?

La popolazione locale è sempre indispensabile, un aiuto straordinario: si badi bene che l’ascensione al Broad Peak è stata eseguita senza portatori di alta quota, ma abbiamo avuto l’aiuto delle popolazioni locali per portare tutto il materiale fino alla base delle montagne, dove iniziava la spedizione vera e propria. Senza la gente che abita quelle montagne e vallate, noi alpinisti non potremmo fare nulla. Questo rapporto mi ha spinto poi a tornare in quei luoghi con mia figlia, che è antropologa, per scoprire in maniera più diretta la cultura e la storia di quei luoghi. Ho, quindi, iniziato anche a fare film e documentari antropologici. Credo che soprattutto ora, dopo il terremoto, sia importante far vedere questa cultura, questa storia, questa ricchezza: se si fa vedere solo la distruzione che il terremoto ha portato, la gente potrebbe pensare che lì non è rimasto più nulla, che non vale la pena andare lì. Quella è gente, però, che vive anche di viaggiatori, alpinisti e turisti: se si smette di andare lì, la gente starà ancora peggio. Io voglio proprio mostrare la ricchezza di quei luoghi, che è stata colpita dal terremoto ma non distrutta, non rimossa.

Broad Peak, 8611 metri.
Quali dei suoi documentari sono quelli in cui ha sentito di avvicinarsi di più alla cultura nepalese?

Uno fra tutti è “Tashi Gang”, che nella lingua locale vuol dire “il posto tra il mondo degli uomini e quello degli dei”. In questo documentario faccio vedere i luoghi sacri per gli spiriti dell’acqua, della terra, e poi i luoghi degli dei e degli antenati, che sono in montagna. Fra queste montagne ce n’è una molto speciale, che è Ama Puyyuna, che vuol dire “La madre incinta”, perché ha una forma particolare con una grossa pancia. Questo posto è un luogo sacro non solo in Nepal ma per tutta la zona dell’Himalaya, dove le persone vengono in pellegrinaggio per auguri di fertilità: dalla famiglia, ai campi, al bestiame. Un altro documentario importante è stato girato durante l’ascensione della cima est dell’Everest, che si chiama Shartse. Questo documentario è stato girato assieme a uno sherpa, e fa proprio vedere come si possa esplorare solamente con l’aiuto della gente locale.

Cosa la affascina di quella cultura?

La profondità, e l’intimo rapporto di rispetto con la natura. Oggi il rispetto della natura, anche se singoli individui possono averlo, non è di massa, e anzi sta diventando sempre meno importante. Questo rapporto con la natura l’ho subito sentito come anche mio: io sono uno dei fondatori del movimento “Mountain Wilderness”, che si propone di preservare la natura e la naturalezza della vita in montagna.

Logo di Mountain Wilderness.

Mountain Wilderness dov’è attivo?

È attivo in tutta la zona dell’Himalaya, nelle Alpi ma anche in altre zone di montagna. Ad esempio, in Tirolo mi sono opposto alla costruzione di una funivia che volevano costruire nel paradiso naturale del Kalk Koegel, e che poi è stato abbandonato come progetto. La stessa cosa è stata fatta nei Pirenei.

Logo di Eco Himal (sito internet http://www.ecohimal.it/).

Come ha reagito alla notizia del terremoto del Nepal?

Ho fatto quello che potevo, visto che ora non sono nelle condizioni di viaggiare dall’oggi al domani in Nepal, però ci siamo immediatamente attivati con l’associazione Eco Himal, che io e la mia prima moglie Maria Antonia Sironi abbiamo fondato nel 1992. Maria Antonia ora è presidente ed io il presidente onorario. Le attività che Eco Himal svolge in quella zona sono piccoli interventi strutturali per aiutare la gente del luogo: costruire scuole, acquedotti e rifugi principalmente. Ora, con l’aiuto in loco di un gruppo di Sherpa, abbiamo già mandato del materiale e dei soldi, raccolti durante serate di autofinanziamento.

Scuola promossa da Eco Himal in Nepal (fonte: http://www.ecohimal.it/news.html).

Che consiglio darebbe a chi vorrebbe aiutare il Nepal?


Gli aiuti vanno benissimo, quindi chiunque vuole aiutare donando a delle associazioni è ben accetto. È anche importante, però, che la gente continui ad andare lì a fare alpinismo, trekking e a visitare quei posti anche come semplice turista. Per esempio la rivista [INSERIRE NOME] ha pubblicato una lista dei percorsi che sono praticabili, e dei nuovi sentieri che sono stati aperti, proprio per incoraggiare la gente a venire a visitare quei posti, per non spaventarla all’idea di venire in Nepal. Nella valle del Langtang è un disastro, ma anche loro stanno lavorando per ricostruire; in più ci sono anche delle zone dove o non è successo niente o dove la ricostruzione è già avvenuta perché i danni erano meno ingenti. Per questo motivo non bisogna solo donare, ma anche non farsi spaventare e andare lì, come si faceva prima, perché senza il contributo dei viaggiatori, lì starebbero ancora peggio.

Per chi volesse donare a Eco Himal per gli interventi di ricostruzione e sostegno alla popolazione, le coordinate bancarie sono le seguenti: Eco Himal ONLUS, Banca popolare di Milano, filiale 180, via Sanvito Silvestro 45. 21100 Varese. IBAN  IT53F0558410801000000000311.

Con Kurt Diemberger, Mario Corradini, Omar Oprandi e Luciano Rocchetti parleremo del terremoto del Nepal, di alpinismo e solidarietà, la sera di sabato 22 agosto, alle ore 21:00, al tendone di Riva di Vallarsa. Coordineranno la serata Roberto Mantovani e Filippo Zolezzi. Arrivederci in Vallarsa.


Pubblicato da Ludovico Rella ludovico_rella@yahoo.it

martedì 18 agosto 2015

Applausi infiniti e commossi per "I SENTIERI RACCONTANO…"


È stato un successo lo spettacolo recital-musical-teatrale promosso e organizzato dall’associazione Pasubio100anni nell'ambito del Festival TRA LE ROCCE E IL CIELO andato in scena lunedi 17 agosto al teatro di S. Anna di Vallarsa.


Il progetto ha coinvolto 16 attori improvvisati sotto la guida del regista teatrale Luigi Orfeo partendo dal copione ricavato dall’antologia di Pasubio100anni, curata da Manuela Broz presentata al pubblico sabato 16 maggio.

Lo spettacolo ha attraversato le varie fasi della guerra in Vallarsa, dalla chiamata alle armi da parte dell'impero austro-ungarico nel 1914, allo scoppio della guerra con l'Italia e quindi l'arrivo dei soldati italiani il 24 maggio 1915 e la convivenza con la popolazione civile per un anno, quindi l'abbandono dei paesi, l'esilio dei profughi e il ritorno alle case distrutte.

Alla teatralità della rappresentazione sono stati abbinati gli intermezzi musicali del TRIO BROZ, dei fratelli Barbara e Klaus e gli intermezzi corali del CORO PASUBIO.

Per i protagonisti, dopo il debutto nella prima messa in scena di sabato 23 maggio è stato un nuovo momento di vera commozione il riuscire a dare voce e dignità a coloro che non ce l’hanno fatta, a coloro che non sono tornati e a coloro che con tenacia e desiderio di sopravvivenza invece ce l’hanno fatta.



Lo spettacolo ha dato voce anche a personaggi illustri quali Sandro Pertini, l’amato amato Presidente della Repubblica che ha combattuto sul Pasubio con il grado di Tenente; Eugenio Montale, premio nobel per la letteratura che ha combattuto nel paese di Valmorbia e che in OSSI DI SEPPIA ha scritto la celebre poesia "Valmorbia"; Piero Calamandrei che è stato uno dei padri della nostra Costituzione e Arnaldo Fraccaroli, inviato di guerra per il Corriere della Sera.

Non si voleva realizzare il solito evento commemorativo di fatti storici, ma un evento che coinvolgesse il pubblico fino al limite della commozione, suscitando riflessioni e interrogativi, sia durante la visione dello spettacolo che in momenti successivi, attraverso dei parallelismi tra i fatti storici di 100 anni fa e i fatti quotidiani che ogni giorno si vedono nella cronaca nazionale e internazionale.

I momenti toccanti sono stati numerosi in ogni scena. Un esempio, tratto dal diario di una ragazza nel quale scrive che all'età di 13-14 anni si trovava a Varazze, in Liguria, come profuga e, assieme ad altri coetanei, per guadagnarsi qualcosa, ogni giorno si recava alla stazione ferroviaria ad attendere l'arrivo dei treni con i passeggeri carichi di valige e quindi offrirsi nel portar loro i bagagli in cambio di qualche soldo. I ragazzi di Varazze che facevano la stessa cosa, gli dicevano: voi tedeschi venite a portarci via il lavoro...!! Ecco, il passato che diviene immediatamente presente; ci si trova di fronte a dei ragazzi coetanei, che parlavano la stessa lingua italiana, seppur in forme dialettali diverse, con accuse e pregiudizi verso il “forestiero”. Tali espressioni, che anche oggi sentiamo spesso, seppure in un contesto economico e sociale diverso, devono far riflettere.


Il teatro con 200 posti a sedere ha visto almeno altre 100 persone in piedi e molte altre non sono potute entrare. Gli applausi durante lo spettacolo e alla fine sono stati infiniti e commossi.



Alpinismo e solidarietà: il Nepal prima e dopo il terremoto

Il 25 aprile 2015 un terremoto scuoteva il Nepal, uccidendo più di 9000 persone, ferendone 23000 e producendo più di 400.000 sfollati. Patrimoni UNESCO sono stati danneggiati o distrutti, in alcuni casi in modo irreparabile. Molti raccolti andranno perduti nei prossimi mesi, e tutto questo porterà a perdite incalcolabili anche nel lungo periodo. Questi eventi spingono ad una riflessione sulla montagna non solo come via di elevazione, sfida e rispetto per la natura: la montagna e l’alpinismo devono diventare anche il luogo della solidarietà e della ricostruzione, del rispetto per le popolazioni locali e le loro sofferenze, e dell’aiuto reciproco di fronte alla forza dirompente della natura. 


All’interno del festival della montagna vissuta con consapevolezza TRA LE ROCCE E IL CIELO - che si svolge in Vallarsa dal 20 al 23 agosto - di tutto questo parleremo con tre amanti della montagna e del Nepal, quattro conoscitori della realtà locale e degli interventi di solidarietà messi in campo:

· Kurt Diemberger, alpinista e scrittore;

· Mario Corradini, alpinista, scrittore cooperatore internazionale attraverso l’associazione   CiaoNamasté;

· Omar Oprandi, guida alpina e scialpinista.

· Luciano Rocchetti, dirigente del Servizio Emigrazione e Solidarietà internazionale della Provincia Autonoma di Trento, membro del comitato tecnico di gestione del fondo a favore delle popolazioni colpite dal terremoto del Nepal.

Coordineranno il dibattito Roberto Mantovani, giornalista, alpinista e studioso, e Filippo Zolezzi, professore, critico letterario e membro accademico del GISM (Gruppo Italiano Scrittori di montagna). 

Con loro discuteremo, sabato 22 agosto alle ore 21 al Tendone di Riva di Vallarsa di come alpinismo e solidarietà possano intrecciarsi e combinarsi; di come l’alpinista sia e debba essere sensibile e partecipe delle vicende sociali, ambientali, economiche e culturali dei luoghi dove avvengono le spedizioni, specialmente in presenza di tragedie come quella nepalese; e di come la solidarietà internazionale abbia influito e stia influendo nel percorso di ritorno alla normalità per una terra dilaniata, un popolo ferito, un’economia in ginocchio.




Sabato 22 agosto - ore 21, Tendone Riva "il Nepal prima e dopo il Terremoto" 
Disponibile sul sito il programma completo di Tra le rocce e il Cielo




lunedì 17 agosto 2015

La sofferenza mentale nella Grande Guerra: "esistenze imbruttite o devastate dal conflitto". Intervista Andrea Scartabellati



Intervista a Andrea Scartabellati

Andrea Scartabellati, di famiglia operaia, ha studiato Storia (Università di Trieste, 1999) e Scienze Antropologiche ed Etnologiche (Università di Milano Bicocca, 2014). Con una borsa pubblica ha svolto un semestre di perfezionamento all’estero (Université Paris X/Nanterre, 2000), conseguendo il dottorato di ricerca in Storia sociale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia (2005). È autore e curatore di saggi e monografie dedicati alla storia della povertà e della follia, tra cui: L’umanità inutile (Angeli 2001), Intellettuali nel conflitto (Goliardica 2003), Prometeo inquieto. Trieste 1855-1937 (Aracne 2006), Dalle trincee al manicomio (Valerio, 2008), Fronti interni (Esi 2014).

Quando ha cominciato a interessarsi della sofferenza mentale dei soldati della Prima Guerra Mondiale?

Ho avuto la fortuna e la possibilità di studiare storia a Trieste, un contesto culturale e cittadino che – è forse superfluo dirlo – grazie all’esperienza basagliana (Franco Basaglia, lo psichiatrico ispiratore della legge 180 che portò alla chiusura dei manicomi, ndr)  ha maturato una straordinaria e peculiare sensibilità per i temi della follia. Sensibilità, grazie alla mia qualità di “forestiero”, avvertita, apprezzata ed interiorizzata con maggior consapevolezza rispetto ai residenti (diciamo così).
L’insegnamento e lo studio con storiche come Simonetta Ortaggi e Bruna Bianchi, prima con la tesi di laurea e poi di dottorato, mi hanno sollecitato ad approfondire le tematiche sociali inerenti la storia della Grande guerra. Da qui, in breve, l’incontro con i temi della follia bellica e, vorrei sottolineare, con gli archivi della follia. Un incontro non solo intellettuale, ma direi soprattutto emozionale, al cospetto di centinaia e centinaia di cartelle cliniche traccia di esistenze imbruttite o devastate dal conflitto. 

Che cos’è lo “shell shock”?

Lo shell shock è il termine medico con cui la medicina psichiatrica anglosassone durante il corso del conflitto intese descrivere ed esplicare – avendo alle spalle una sintomatica epistemologia – una serie di reazioni dei soldati sottoposti al bombardamento continuo di artiglierie micidiali, via via perfezionate nella loro capacità di produrre stragi.
Si tratta di una categoria nosografica sfuggente, che come storici dobbiamo storicizzare e leggere alla luce del know how delle differenti medicine nazionali. Un quadro diagnostico non privo di confusioni o ambiguità più o meno manipolabili, con fini spesso contrastanti, da medici e pazienti proprio in ragione della sua necessità di descrivere un repertorio di situazioni anomale differenti.
Com’è noto, lo shell shock è un po’ la matrice del moderno Post Traumatic Stress Disorder, apparso (scoperto/riscoperto/inventato/reinventato?) con la guerra del Vietnam.
A tacere dello sfuggente contenuto stricto sensu medico, lo shell shock è, tuttavia, tornato grandemente utile a storici e sociologi come sorta di metafora della Prima guerra mondiale nella sua qualità di primo conflitto industriale e dei materiali della storia. Lo shell shock ha rappresentato, se mi si passa lo schematismo, il riflesso e l’incarnazione concreta, nei corpi e nella mente dei soldati, dell’inquietante e nello stesso tempo affascinante erompere della modernità applicata alle tecnologie di morte.

Che entità ha avuto il fenomeno della sofferenza mentale dei soldati impegnati nella Grande Guerra?

In un piccolo libretto pubblicato anni fa, Carlo Cipolla, storico di prima grandezza, commentando alcuni dati statistici, affermò che i soli indici certi erano le date… Ciò premesso, la storiografia ha oggi raggiunto un consenso di massima su queste cifre: si parla di 40.000 individui sofferenti per l’Italia, 300.000 per la Francia, 400.000 per la Germania e tra gli 80.000 ed i 200.000 (sic!) per la Gran Bretagna.
A proposito del caso italiano – modesto nei numeri – vorrei aggiungere due note, la prima di carattere interpretativo, la seconda quantitativa. Innanzi tutto, c’è stata la tendenza anche per ragioni retoriche inerenti la costruzione dei testi storiografici, a far dipendere eccessivamente i disturbi dalle modalità moderne del guerreggiare (bombardamenti, le fatiche da talpa della vita di trincea, tragici eventi rivelatori come i seppellimenti temporanei, l’odore acre dei corpi bruciati, la vista di amici e compagni smembrati, ecc.). Tipologie d’innesco dei disturbi (mi si passi l’espressione) che, in realtà, coprono solo in parte, e forse nemmeno la metà dei casi all’epoca riscontrati. In secondo luogo è utile rammentare, senza per questo voler sminuire le sofferenze e la portata dell’episodio dei folli di guerra – veri e propri mutilati dell’esistenza – la reale dimensione della vicenda. I matti rappresentarono per le autorità mediche, militari e politiche, un problema non particolarmente pressante. La follia non coinvolse che lo 0,73% degli arruolati nelle forze armate, e lo 0,79% degli incorporati nel Regio Esercito. Rispetto ai 517/564.000 morti e dispersi e ai 950/1.050.000 feriti, i 40.000 folli di guerra apparvero una questione secondaria, in Italia gestita dalla psichiatria militare e civile senza il ricorso a misure straordinarie, e prescindendo dalla rivisitazione dei consolidati paradigmi della cultura psichiatrica.


Come fu trattata dai medici militari e come fu considerata dagli ufficiali militari?

Limiterei la risposta al contesto nazionale, che conosco meglio e di cui ho esperienza di ricerca diretta. Le sindromi belliche furono trattate dai medici militari né più né meno che alla stregua delle follie registrabili nella vita civile. Certo non mancarono osservazioni e proposte innovative per un contesto ancora fortemente intriso d’influenze evoluzioniste alla Haeckel e dal lessico antropologico dei vari Enrico Ferri, Cesare Lombroso ed Enrico Morselli. Tuttavia, esse restarono voci isolate e marginali. Individuazione preventiva, controllo e custodia dei folli rimasero gli aspetti dirimenti l’impegno psichiatrico, mentre l’intervento terapeutico, nella cornice di un disegno curativo antecedente gli sviluppi della psicofarmacologia e delle terapie da shock, risultava estemporaneo, affidato a prassi inefficaci quali la forzata tranquillità della segregazione del malato, i bagni prolungati, la somministrazione di olio di ricino, l’utilizzo di unguenti e tinture di origine vegetale, docce di acqua gelata alternate a quella calda…
Da parte degli ufficiali superiori alieni di nozioni psichiatriche, la follia fu vista soprattutto attraverso la lente della simulazione e del disimpegno dai doveri patriottici. Un tentativo del soldato, da reprimere duramente, di fuggire i pericoli del conflitto. Per ironia della storia, questa lettura del fenomeno sembrerebbe dar ragione agli storici di oggi i quali, indagando il tema del dissenso, intravvedono nella follia bellica senz’altra specificazione proprio un rifiuto degli obblighi militari.
Nel quadro complessivo dei rapporti tra ufficialità e truppa, anche la follia di guerra può essere interpretata come l’ennesimo capitolo di quella pervicace estraneità culturale che rese difficoltosi, se non impraticabili, il dialogo e la condivisione del significato bellico tra élite militare e un esercito formato dall’irreggimentazione prevalente di contadini.

Che impatto ebbe quel fenomeno sul successivo sviluppo della psicanalisi e della psichiatria?

Paradossalmente nella guerra la psicoanalisi vide una sorta di conferma ex-post rispetto a quanto da Freud e dai suoi seguaci sostenuto e ribadito fin dal primo Novecento in tema di trauma ed istinti di violenza e morte. Si trattò, naturalmente, di una lettura interessata, non priva di credibilità. Bisognerebbe però riformulare la risposta osservando la fortuna della psicoanalisi nei differenti contesti nazionali, iniziando da quello italiano particolarmente sordo al verbo psicoanalitico.
Per quanto riguarda la psichiatria vale, a grandi linee, lo stesso discorso. Mentre in Gran Bretagna, ed in parte in Francia e Germania, la disciplina seppe con maggior consapevolezza far tesoro delle esperienze belliche, in Italia, ennesima ironia, la fortuna perdurante goduta presso i circoli medici dall’evoluzionismo antropologico e da un rigido biologismo-organicistico, si rivelò un freno solo in parte aggirato dalle nuove leve psichiatriche. Le sindromi belliche vennero lette e liquidate all’interno dei paradigmi prebellici. È sintomatico che il volume di psichiatria sul quale generazioni di medici si formeranno, il “Trattato delle malattie mentali” di Tanzi e Lugaro, potesse affermare nell’edizione del 1923, sulla scorta della letteratura di patologia bellica passata in rassegna, l’inesistenza di psicosi generate dal conflitto.

Nel 1918 Ernst Simmel scrisse “Nevrosi di guerra e trauma psicologico” dove, coerentemente con le interpretazioni psicanalitiche del tempo, la nevrosi di guerra veniva spiegata come una sorta di “diserzione inconsapevole”. Che conseguenze pratiche e terapeutiche ebbe questa interpretazione?

Quella di Ernst Simmel, va ricordato innanzi tutto, fu una figura atipica in Germania, non esemplificativa della psichiatria tedesca. Ciò detto, l’interpretazione di Simmel rammentata, insieme a pagine di Freud, Ferenczi, Abraham (e altri), è genealogicamente a monte di una lettura del fenomeno della patologie di origine bellica tanto trascurata nel dominio medico quanto, probabilmente, sopravvalutata in ambito storiografico italiano sulla scia del volume di Leed, No Man’s Land (1979).
Il tema della diserzione inconsapevole indirizza il focus del discorso verso un territorio minato (è proprio il caso di dire!) dove simulazione, strategie dei soldati di determinare il proprio destino nelle condizioni date, strategie di controllo e custodia della psichiatria, malattia, dissenso alla guerra e desiderio di sfuggirle s’intrecciano in matasse difficilmente sbrogliabili. Matasse interpretative e di significati che solo il confronto cauto e diretto con la documentazione individuale (cartelle e diari clinici in primis) permette di affrontare e sciogliere, al di fuori sia di poietiche del rifiuto collettivo più vive nell’immaginazione degli studiosi che effettive all’epoca, sia di sineddoche trasfiguranti in forme elementari casi originali nella controprova di esperienze esperite massivamente.

A che punto è la ricerca storica in Italia su questo tema rispetto agli altri paesi?
Cosa rimane ancora da studiare del fenomeno?

La ricerca italiana paga lo scotto della lingua, risultando sostanzialmente gregaria a livello di riconoscimento internazionale. Peccato doppio poiché – e lo dico non volendo fare della retorica nazionalista – un confronto tra la saggistica italiana e quella internazionale dimostra come la prima abbia in termini di analisi e disponibilità delle fonti, capacità interpretative e aggiornamento metodologico degli studiosi, ben poco da invidiare alla seconda. Anzi, in qualche modo il clima intellettuale creato da noi dall’esperienza basagliana ha avuto e continua ad avere ancora oggi, specie per quanto riguarda i giovani storici che si affacciano alla ricerca partendo dalla tesi di laurea, un effetto “fertilizzante”.
Cosa rimane da studiare del fenomeno? Molto direi, e non solo a livello quantitativo (detto en passant: le esperienze manicomiali del meridione, durante e dopo la guerra, risultano salvo rare ed ottime eccezioni ancora poco indagate). Più in generale ritengo per la storiografia italiana maturo il tempo per un arricchimento paradigmatico e metodologico, muovendo da un’attenzione non superficiale, estemporanea o esclusivamente terminologica alle riflessioni dell’antropologia (culturale, sociale) contemporanea.
Ritornando alla lettura delle fonti, e lontani da ogni inclinazione romanzata – il tema della follia è tradizionalmente un invito a nozze in questo senso… – credo abbiamo come storici la necessità, a livello di ricerca, di superare il meccanicismo interpretativo che ha guidato la nostra comprensione degli stati patologici, per un confronto più meditato con la dimensione esistenziale degli uomini in guerra impazziti (o creduti tali), recuperandone le vicissitudini, i valori, le conoscenze, le idiosincrasie, le esperienze ed i legami col mondo del di fuori militare.
Decostruire, verificare e riformulare, con una visione più complessa e articolata dei temi del rifiuto e del dissenso alla guerra, le poietiche attraverso le quali gli storici hanno narrato fino ad oggi delle trasformazioni dei mondi mentali collettivi muovendo dalle situazioni individuali rappresentate dalle esperienze borderline vissute dei folli di guerra, è il compito difficile e insieme affascinante che potremmo proporci.


Nicola Spagnolli



Scartabellati interverrà alla conferenza SOPRAVVIVERE AL TRAUMA. LA SOFFERENZA MENTALE DALLA GRANDE GUERRA AI CONFLITTI D’OGGI che si terrà SABATO 22 AGOSTO alle ore 15 AL TEATRO DI S. ANNA.


Alpinismo e solidarietà #3: intervista a Omar Oprandi.

Nato a S. Pellegrino Terme in provincia di Bergamo, Omar è cresciuto con la passione per la montagna trasmessa dalla famiglia, che lo ha portato a diciott'anni ad entrare nel Soccorso Alpino Militare, diventandone istruttore. E' alpinista con Montura, scialpinista e guida alpina. Il suo lavoro e la sua passione lo hanno portato in giro per l'Italia e il mondo, dalle Alpi Orobie al Monte Bianco, fino all'Himalaya.

Omar Oprandi (Fonte: http://www.omaroprandi.it/).
Sul tuo sito internet c’è scritto “solo se faccio imparo”: in che modo questa massima guida la tua attività?
Io mi considero una persona pratica: ho bisogno di mettere le mani in quello che faccio, applicarmi direttamente. Come i nodi: se leggo un manuale di nodi, o se guardo semplicemente qualcuno che mi spiega come farli, io dimenticherò. Solo se mi metto in prima persona, facendo e disfacendo i nodi, sbagliando e rimediando, imparerò veramente. Questo mi piace della montagna: è un incontro diretto, pratico, senza mediazioni o falsità. In montagna si salutano tutti, ma non si parla a sproposito perché bisogna risparmiare il fiato. In montagna il cielo è meraviglioso, ma si deve anche sapere che può mutare in un secondo, e con lui non si deve scherzare. In montagna si deve bastare a se stessi, ma bisogna anche essere presenti a se stessi, sempre, ed essere sempre nel momento e nel luogo in cui ti trovi, senza distrazioni.

Come hai iniziato ad andare in montagna? Com’è nata la passione per la montagna?
è una passione iniziata in famiglia: è stato mio padre il primo a portarmi regolarmente in montagna. Io sono bergamasco di origine quindi le mie montagne sono all’inizio state le Alpi Orobie, al confine con la Valtellina. Seguendo i passi di mio padre mi è venuta la passione e la curiosità della vetta, la voglia di scoprire com’è il mondo da lassù, cosa c’è dall’altro lato. Come molti nel mio caso, ho deciso anche di intraprendere il percorso “accademico” dell’alpinismo, fino a diventare guida alpina. Questo per me è stata una delle massime aspirazioni, essere riconosciuto nel tuo ruolo e nel tuo aiuto di insegnante nei confronti di altri alpinisti, essere la persona che spiega i pericoli e le gioie della spedizione. Da allora quella passione non mi ha più lasciato, anzi: da allora mi sono spinto a cercare montagne sempre più alte, in Italia come il Monte Bianco, fino ad arrivare in Himalaya.

Parlami di come hai scoperto l’Himalaya e di cosa ti lega a quei luoghi.
La mia passione di andare sempre più in alto mi ha spinto quasi naturalmente, a un certo punto, verso l’Himalaya, per visitare quelle montagne imponenti e quelle cime così famose, leggendarie. La mia prima spedizione è stata l’Ama Dablam, una montagna di 6812 nella valle del Khumbu, in Nepal. Non volevo iniziare con un ottomila, e l’Ama Dablam è una montagna che, pur essendo più bassa, è tecnicamente molto difficile, quindi ha rappresentato per me una bella sfida. Più ancora della vetta, però, mi sono rimasti dentro il “prima” e il “dopo” della spedizione: la gente, le persone, la loro cultura.

Ama Dablam (6812 metri).
Cosa ti è rimasto particolarmente impresso?
Prima di tutto un forte senso di spiritualità. Lì ogni persona ha una forte fede, un profondo misticismo riguardo al modo che le circonda, anche se questa fede viene declinata in molti modi diversi: il Nepal, come si sa, è fatto da molte etnie, molte religioni e culture. Poi un grande senso di semplicità e di gioia dalle piccole cose belle e importanti della vita. Cose che da noi si danno ormai per scontate, o a cui non si pensa nemmeno, lì sono ragioni di gioia, festa e condivisione. Per me andare lì è stato come andare indietro nel tempo, in un passato in cui la natura e i suoi movimenti erano parte della nostra vita, parte integrante del nostro quotidiano. Questo mi ha spinto poi a tornare lì tre anni dopo, con la “scusa” di una spedizione sul Cho Oyu. In quel caso mi è andata male: mi è venuto un edema in alta quota e ce l’ho fatta con un po’ di fortuna, diciamo.

Cho Oyu (8201 metri).

Come hai reagito al terremoto del Nepal?
Il terremoto mi ha scosso: mi sono tornate subito in mente le memorie delle spedizioni che ho fatto, le persone che ho incontrato, e le sensazioni che ho raccolto quando sono stato lì, anche se distanti nel tempo. In più, mi hanno colpito le morti di amici che conoscevo ed erano lì: penso a Oskar Piazza, alpinista con Montura come me, con cui abbiamo fatto i corsi guida assieme, con cui eravamo “compagni di banco”, che in Nepal ha anche dato una mano alle popolazioni locali con progetti di solidarietà.

Oskar Piazza (1960-2015) (fonte: http://www.montura.it/it/persone/discipline/alpinismo/oskar-piazza.php).
Che consiglio daresti a chi volesse contribuire alla popolazione del Nepal?
Come ho detto prima, sono una persona pratica, che vuole sporcarsi le mani: potessi, andrei lì a dare una mano in prima persona, andando sul campo, purtroppo il mio lavoro non lo permette. Il consiglio che posso dare è di contribuire sicuramente, con delle donazioni o in altro modo, ma scegliendo realtà che siano già sul campo, che conoscano la situazione locale. Troppo spesso in questi casi le emozioni hanno la meglio e si raccolgono soldi che però non vengono usati efficacemente perché chi li usa non conosce il territorio a sufficienza.

Qual è per te il rapporto fra alpinismo e solidarietà?

Io sento forte la presenza di una “solidarietà di montagna”: è quasi magico come, più si sale in alto, più ci si avvicina alla vetta, e più diventiamo uguali, sullo stesso piano. Dai gesti più semplici, come il saluto, che in alta quota si dà a tutti a prescindere dal fatto che ci si conosca o meno, a gesti più impegnativi come il soccorso. In montagna, specialmente in spedizione, si è sempre “in cordata”, anche con chi non è nella nostra spedizione: se qualcuno cade, se ha difficoltà, se è in pericolo si interviene, non si sta in disparte e non si mettono i propri obiettivi prima della vita e di qualcun altro. Essere in cordata vuol dire riconoscere questo, diventare un tutt’uno, basato sulla fiducia reciproca. Poi, certo, ci sono persone che pagano un sacco di soldi, salgono per fama o tornaconto, e può succedere che tirino dritto e non si curino nemmeno dei loro compagni di spedizione, ma per me quello non è alpinismo. Alpinisti per me sono, ad esempio, Simone Moro o Silvio “Gnaro” Mondinelli, che hanno abbandonato le loro spedizioni senza esitare, quando dei loro compagni erano in difficoltà. Quest’idea della solidarietà di montagna è quella che mi ha portato ad entrare nel soccorso alpino, di cui sono membro da quando avevo diciott’anni.

Con Omar Oprandi, Kurt Diemberger, Mario Corradini e Luciano Rocchetti parleremo del terremoto del Nepal, di alpinismo e solidarietà, la sera di sabato 22 agosto, alle ore 21:00, al tendone di Riva di Vallarsa. Coordineranno la serata Roberto Mantovani e Filippo Zolezzi. Arrivederci in Vallarsa.


Pubblicato da Ludovico Rella ludovico_rella@yahoo.it