Alberto Folgheraiter, da quale idea nasce il libro “I villaggi dei
camini spenti”?
Ormai era una decina di anni che avevamo in
programma di fare un reportage, vedere quale fosse la situazione della
periferia del Trentino, alla luce dei cambiamenti avvenuti negli ultimi
vent’anni. L’ultimo lavoro di questo tipo risaliva al 1966-1967 (Aldo Gorfer,
“Solo il vento bussa alla porta”, con le fotografie di Flavio Faganello). I
cambiamenti nel frattempo sono stati epocali, quindi c’era l’esigenza di
tornare in quei luoghi a verificare la nuova situazione. Questo libro, edito da
Curcu & Genovese, ha esaurito la prima edizione di 3500 copie in sei mesi.
È già uscita la seconda edizione, ed è uno dei tre finalisti del premio
“LEGGIMONTAGNA 2012” di Tolmezzo, la cui premiazione avverrà il 22 settembre.
C’è da dire che questo viaggio ha riservato più
di una sorpresa: ne esce un quadro che talvolta rovescia gli stereotipi, dove
la montagna e le vallate sono il “centro vivo” e la città risulta essere quasi
periferia, meno dinamica, una comunità meno viva e poco partecipata.
In cosa si nota questa vivacità delle valli
rispetto alle città?
Innanzi tutto si nota dal numero di gruppi di
volontariato, che sono numerosi e, soprattutto, vivono di autofinanziamento,
senza dipendere dalle poppe di “mamma Provincia”. A volte, nelle realtà
cittadine il volontariato ha perso proprio questa natura disinteressata e si è
trasformato in “volontariato prezzolato”. Anche nelle piccole cose, invece, le
vallate offrono immagini di un associazionismo molto più genuino.
Che tipo di taglio stilistico ed editoriale
avete deciso di dare a questo libro?
E’ un’inchiesta/reportage sul Trentino fra
giornalismo e storia.
La cosa interessante è che la narrazione si
sdoppia in due percorsi paralleli: quello delle parole, che ho scritto io e
quello delle immagini, indispensabili e fondamentali, di Gianni Zotta. La
stessa impaginazione, affidata a Fabio Monauni, si fa racconto. Abbiamo deciso
di fissare le immagini nel momento stesso in cui raccoglievamo testimonianze e
informazioni per scrivere i vari capitoli. In questo modo abbiamo fotografato
la realtà delle valli nel momento stesso in cui ci si presentava. Anche per
ancorare la ricerca a una data precisa, in modo che in futuro si possa
riguardare a questo materiale essendo consapevoli del momento in cui è stato
raccolto e pubblicato.
Però queste sorprese che avete incontrato
lungo la strada, queste vallate vivaci, cozzano con il titolo che avete dato al
libro: perché i camini sono spenti se le valli sono vive?
Lo spiego nella prefazione: questo titolo è un
po’ ruffiano ma i camini spenti ci sono per davvero. I villaggi hanno tanti
edifici abbandonati, tante stanze vuote, ma ci sono anche talune riscoperte e
nuovi insediamenti.
Ad esempio, c’è una ricomposizione di nuclei
familiari di immigrati che nelle periferie cittadine sarebbero “fuori posto”.
Invece nelle comunità valligiane riescono a trovare una dimensione, una forma,
seppur larvata e da sviluppare, di integrazione.
Questa presenza degli immigrati è un fenomeno
incisivo? C’è effettivamente un ripopolamento dei paesi di montagna da parte di
persone di origine straniera che decidono di andare ad abitare in quelle zone?
Non parlerei di ripopolamento, però certamente
l’afflusso di immigrati stranieri in queste zone ha fornito un argine ad uno
spopolamento che senza di loro sarebbe stato ben più ingente, forse
insostenibile.
L’immagine che si ha comunemente delle zone
di montagna è quella di una crisi basata soprattutto su spopolamento e
abbandono. Quanto è vera e quanto è falsa questa descrizione e questa
prospettiva?
Il fenomeno “Vendesi” è generalizzato e
certamente propone l’immagine di una crisi, non solo di tipo economico. I
cartelli delle agenzie immobiliari sono il paradigma di una crisi che ha radici
lontane. Questo fenomeno ha a che vedere con una polverizzazione
derivante da passaggi ereditari, per cui alla fine i titolari di piccole
porzioni non riescono a ricomporre le proprietà immobili e così si rischia
l’abbandono.
In secondo luogo, il pendolarismo che degli anni
Settanta e Ottanta del secolo scorso è diventato stanziale lungo il corso
dell’Adige. Non c’è stata l’auspicata inversione di rotta, non si è avuto il
ritorno alla montagna. Oggi il ritorno “alla terra dei Padri” è un
percorso che viene compiuto solo da ristretti gruppi di persone, gruppi
sostanzialmente elitari per cultura e reddito. Penso, ad esempio, al libero
professionista che si può stanziare in Vallarsa piuttosto che nella Valle di
Terragnolo e, grazie a internet essere comunque in collegamento con Milano o
con le grandi aziende industriali. Questa è una realtà “privilegiata”, non
siamo ancora nella situazione di tele-working diffuso o cose di questo genere,
per cui non è più la vicinanza al luogo di lavoro ma la qualità della vita a
influenzare tali scelte di residenza. Credo, tuttavia, che arriverà presto il
tempo in cui saranno operative le “autostrade informatiche” su tutto il
Trentino. Questo potrà bloccare la cosiddetta “fuga dei cervelli” o addirittura
facilitarne il ritorno, e potrebbe avere anche un effetto “tampone” sul
deflusso di popolazione dalle aree montane. Tuttavia, sono convinto che questo
fenomeno, se non elitario, rimarrà relegato a percentuali minime, in quanto non
potrà mai riguardare la maggioranza di lavoratori che svolgono mansioni
manuali. Per loro l’esigenza di raggiungere quotidianamente il posto di lavoro
sarà ineludibile.
Quindi a livello di grandi numeri il declino
della montagna è irreversibile?
Assolutamente, anche perché i grandi numeri non
ci sono più: una volta c’era la famiglia allargata, c’erano frotte di bambini.
Oggi con la famiglia mononucleare anche il flusso verso la montagna porta meno
gente.
Tracciando un bilancio di questo vostro
reportage-inchiesta, qual è il quadro?
Diciamo che esce un Trentino migliore di come,
talvolta, è dipinto; un Trentino dinamico, con una società complessa e viva,
solidale. Direi che viene fuori un bel Trentino. Un Trentino dove non hanno
messo radici quei disvalori che negli ultimi vent’anni sembrano aver
ipnotizzato larghe fasce di popolazione nel resto d’Italia.
Quali sono, a suo modo di vedere, le zone
“virtuose” e quelle in crisi? Si possono individuare delle buone pratiche e,
invece, dei modelli da non imitare?
La crisi è più acuta nei luoghi di estrema
periferia, ma anche zone vicine al “centro” non sono in buone condizioni, come
la Valle di Terragnolo. In parte, in alcuni casi, la Provincia ha
paradossalmente messo troppi soldi, anestetizzando quello che può essere lo
spirito del “fai da te”. Peraltro resistono problemi strutturali. Se hai
l’esigenza di recarti ogni giorno sul posto di lavoro è difficile fare la
scelta di essere pendolare a una cinquantina di chilometri di distanza da dove
lavori, abitando in un paese di montagna. Anche la costruzione di un proprio
nucleo familiare, che permetta di mettere radici, è più difficile in montagna
che altrove. Se si sceglie, ad esempio, il mestiere del pastore o
dell’agricoltore è difficile persino trovare una compagna per la vita.
Quindi, pur essendo il Trentino migliore di
come è immaginato o descritto da taluni, resta comunque una prospettiva
pessimista sul futuro delle valli e della montagna?
Sono i numeri che parlano: i centri urbani
crescono, i paesi di montagna, le periferie si stanno spopolando. Comuni che
oggi sono di 100 – 150 abitanti fino a cinquant’anni fa avevano 400-500
residenti. L’esodo non si è fermato. Nelle valli la popolazione diminuisce
anche perché l’invecchiamento non è sufficientemente compensato da nuove
presenze.
Qualche anno fa il Consiglio Comunale di Canal
San Bovo aveva deciso di offrire un “premio di nuzialità” alle coppie che
decidevano di andare ad abitare in quella zona: cinquemila euro, più mille euro
per ogni neonato. Certamente mille euro non risolvono i problemi e cinquemila
non risolvono un matrimonio, ma era un primo passo per incentivare i ritorni o
comunque i nuovi arrivi. Restava e resta il problema che, per arrivare a Canal
San Bovo da Trento c’è un’ora e mezza di automobile, quindi cinquemila euro da
soli non bastano a incentivare l’immigrazione o il ritorno in valle.
Il ruolo della politica, in questo contesto, è
soprattutto quello di far sì che in montagna resti chi ci ha sempre vissuto,
fornendo le stesse garanzie e prospettive, gli stessi diritti, lo stesso
accesso ai servizi di chi vive in città.
Poi una parte di questa crisi ha anche ragioni
di altro genere. Per esempio, alcuni lavori, soprattutto manuali e di fatica,
sono stati abbandonati con l’aumentato livello di istruzione. Probabilmente
l’attuale crisi economica potrebbe spingere i giovani a un recupero di vecchi
mestieri perché in altri campi il lavoro non c’è o si trova con fatica. In
questo forse i ragazzi della montagna saranno avvantaggiati perché ancora
abituati alla fatica, mentre quelli di città lo sono meno o non lo sono affatto.
Ludovico Rella
ludovico_rella@yahoo.it
Alberto Folgheraiter presenterà il suo libro "I villaggi dai camini spenti" giovedì 30 agosto presso il Museo della Civiltà Contadina di Riva di Vallarsa, insieme a Filippo Zolezzi, Maria Antonia (Tona) Sironi, Roberto Mantovani, Spiro Dalla Porta Xydias, Italo Zandonella Callegher
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