Davide Sapienza, La tua opera
letteraria ha come cifra fondamentale il viaggio: cosa significa per te
viaggiare?
In realtà, ci stavo riflettendo proprio in questi mesi, il
tema del viaggio era per me una sorta di copertura per quello che è per me il
tema fondamentale, cioè l’appartenenza al mondo della natura. Quando io ho
scritto “I Diari di Rubha Hunish”, scritto nell’arco di sei anni, cercavo di
fare uno studio sul narrare il viaggio sia nei suoi aspetti più superficiali
che in quelli più profondi, ma non mi rendevo conto che in realtà quel libro
era una dichiarazione di intenti, un tentativo di mettere in luce i miei legami
con la natura, come poi ho scoperto quando ne ho curato la riedizione nel 2011.
Credo che essere legati alla natura sia in realtà il vero
“grande viaggio”, l’aspetto che anche inconsciamente ho sempre avvertito, fin
dal periodo in cui scrivevo come critico musicale. Ovviamente il viaggio fisico
è una cosa interessante, ma è ormai diventato talmente “pornografico” negli ultimi
anni che mi scopro a disinteressarmi di gran parte della letteratura attuale riguardante
i viaggi. È brutto da dire, ma ormai tutto si riduce a comprare un biglietto e
andare da qualche parte per più o meno tempo, e poi i resoconti finiscono per
assomigliarsi tutti. Magari faccio anch’io questo effetto, non lo so, poi sta
al lettore valutare, ma io credo di aver sempre raccontato il viaggiare in un
altro modo…
Penso che del viaggio conti soprattutto la preparazione, un
po’ come per lo sport: la partita è il meno, quello che è veramente importante
è tutta la preparazione che si fa prima.
Molte delle tue opere
hanno il tema comune del “Grande Nord”, con il suo freddo e le terre spoglie e
quasi disabitate. Cosa rappresenta per te questo tipo di paesaggio e di natura?
È vero, il nord è un ambiente che mi ha sempre molto
affascinato. Mi sono reso conto dopo che quello che ho cercato a lungo è il
senso di comunità, di piccola comunità che si è perso nelle nostre città e che
è alla base della mia decisione di andare ad abitare in un paese di montagna
sotto la Presolana, ormai 22 anni fa. Questo tipo di comunità l’ho visto
soprattutto quando ho viaggiato in posti quasi disabitati. C’è un passo de “I
Diari di Rubha Hunish” in cui racconto di come, durante il mio viaggio in
Norvegia nel 1997, abbia notato che le case del paese che stavo osservando
tendessero ad essere distanziate tra loro. Venendo dall’Europa del sud questo
mi è sembrato strano, visto che noi tendiamo ad agglomerarci il più possibile,
e mi ha fatto riflettere sul fatto che in questo genere di luoghi (anche nello
Yukon ho potuto vedere lo stesso) il frequentarsi e la socialità sia in realtà
una scelta e non una costrizione come succede in città, dove sei letteralmente
“accatastato”, pressato vicino ai tuoi simili. Lo Yukon ad esempio è grande
quanto l’Italia intera e ha trentamila abitanti, e questo dovrebbe farci
avviare una riflessione sull’occupazione dello spazio e del fatto che la
nevrosi da città dipende dal fatto che noi non abbiamo più un nostro spazio
vitale, un posto in cui ci si possa trovare soli con sé stessi, per riflettere
e poi tornare più leggeri dai nostri simili.
Per me il “Grande Nord” è stato da sempre un amore profondo,
che neanche mia madre si è mai spiegata. Di origine la mia famiglia viene dalla
Sicilia, sulle pendici dell’Etna e quindi teoricamente non dovrebbe esserci
niente di più lontano del freddo e dei ghiacci del nord, ma credo poi ci siano
delle correnti profonde che spingono le persone ad agire. Negli ultimi anni poi
il nord è assurto agli onori delle cronache per l’ormai famigerato
riscaldamento globale e io ho sempre cercato di mescolare nei miei reportage il
lato poetico della natura incontaminata con il lato più cronachistico,
documentando come i poli siano il vero “termometro” della terra e di come in
questi anni questo termometro sia letteralmente impazzito… un altro elemento
che dovrebbe farci riflettere sul nostro stile di vita.
Tu hai iniziato la
tua carriera di giornalista come critico musicale. Che spazio ha adesso la
musica nel tuo viaggiare e nella tua riflessione?
Io ho iniziato a scrivere di musica molto giovane, da quando
avevo vent’anni, curando il primo libro al mondo sugli U2… Se intendiamo la
musica, quella con tutte le lettere maiuscole, ha ancora una parte
importantissima nella mia vita (poi sono anche sposato con una cantautrice), ma
contemporaneamente il mondo della musica attuale è quanto di più lontano ci sia
da quello che mi interessa. Il mondo dello spettacolo in generale è un universo
che sento molto lontano, pur avendolo frequentato per un lungo periodo.
La musica che mi piace è molto presente nella mia vita,
senza dubbio. Quando cammino in montagna non ascolto mai musica, più che altro
perché non ne sento il bisogno. Ho provato un paio di volte ad ascoltare musica
con i primi lettori mp3 o con lettore CD portatile, mentre facevo una salita
sulla neve con le pelli di foca, ma mi è sempre sembrato di privarmi di
qualcosa di immenso. Il silenzio e i rumori della natura non devono essere
coperti, a mio modo di vedere. Quando scrivo, invece, la musica è estremamente
presente. So cosa voglio ascoltare per scrivere determinate cose, e negli
ultimi 6-7 anni è stata prevalentemente musica strumentale, dai dischi di Brian
Eno, piuttosto che Beethoven o Bach, perché la musica cantata è sempre una
distrazione mentre si scrive. La musica mi aiuta ad immedesimarmi in una
situazione, in un contesto, e spesso cerco di trasporre in parole le
suggestioni della musica che in quel momento sto ascoltando, tanto che poi,
rileggendo a distanza quello che ho scritto riesco a ricordarmi immediatamente
che pezzo stavo ascoltando.
Ho notato che London
è uno dei tuoi autori preferiti, di cui hai tradotto libri inediti in Italia e
di cui hai studiato molto la produzione. Cosa vedi di speciale nella sua opera?
E quali sono altri autori che sono una guida e un modello per la tua scrittura?
Partirò dalla fine della domanda. Ho avuto la fortuna che un
mio amico, Renato da Pozzo, mi abbia fatto leggere i “Sogni artici” di Barry Lopez,
nel 1995. In quel periodo stavo maturando la mia decisione di abbandonare il
mondo della critica musicale e quel libro mi ha completamente sconvolto. In
quel periodo scrivevo poesie e avevo deciso di non scriverne più per un intero
anno, come piccolo esperimento antropologico masochista, e mi stavo dedicando ad
un libro su uno dei miei autori preferiti, Melville, incentrato in particolare
su “Moby Dick”. Ho sempre pensato che l’ultimo libro che tradurrò nella mia
vita sarà proprio Moby Dick, perché quando sarò in grado di tradurre la
complessità di quel libro vorrà dire che sarò diventato davvero un bravo
traduttore. Leggere “Sogni artici” mi ha fatto capire come volevo parlare del
viaggiare, della natura e anche del rapporto interiore che noi abbiamo con il
territorio. Successivamente ho letto tutti i libri di Barry e ho avuto la
fortuna di poterlo contattare, di conoscerlo e di essere ospite a casa sua in
Oregon dieci anni dopo. Io metterei proprio lui come mio autore vivente di
riferimento assoluto, anche e soprattutto per il livello altissimo della sua
scrittura.
Jack London invece è stata una riscoperta. Un giorno, quasi
casualmente ho ripreso in mano “Il richiamo della foresta” e leggendolo ho
pensato “macché libro per ragazzi, questo è un capolavoro incredibile!”. C’è
dentro di tutto. Da lì ho cominciato a riscoprire la sua produzione (fino a
quel momento avevo letto i suoi quattro - cinque libri più famosi, “Martin
Eden”, “Zanna Bianca”…) e ho scoperto un mondo incredibile dove ci sono temi,
oltre al grande nord, come la politica, la fanta- politica e molto altro, e ho
iniziato uno di quei rapporti “telepatici” che mi ha portato a studiarlo a
fondo e cercare di tradurlo nella maniera più contemporanea possibile, come merita. Quello che invidio a
Jack London è l’aver inventato questo stile incredibilmente efficace, anche
semplice se si vuole, ma allo stesso tempo completo.
Ti posso dire in anteprima che a breve uscirà per Zanichelli
un libro che abbiamo scritto io e Franco Michieli, che si intitolerà “Scrivere
la natura”, che sarà un manuale di scrittura sulla natura. È un libro che va da
Leopardi a Jack London, da Virginia Woolf a Barry Lopez, per cercare di far
capire al lettore come sia necessario uscire dagli stereotipi. Se si leggono
oggi delle cose di Jack London sono di un’attualità sconcertante. Faccio solo
un esempio: il pluripremiato “La strada” di Cormack McCarthy è totalmente preso
da “La peste scarlatta” di Jack London. Se si leggono questi libri si rimane
sconvolti perché si assomigliano moltissimo, a dimostrazione di quale sia
l’influenza di London in tutta la produzione letteraria americana. A livello di
natura London ha inserito nei suoi libri delle cose davvero straordinarie, così
come molti passaggi di critica sociale molto forti, forse anche senza
accorgersene. Era uno scrittore che veniva dalla strada, che aveva avuto una
vita molto dura, ma che contemporaneamente era senza dubbio un uomo molto
spirituale, come dimostra ad esempio un libro come “Il vagabondo delle stelle”.
Ci sono autori italiani che ritieni una tua fonte di ispirazione o che
ti piacciono particolarmente?
Sì certo. Non voglio fare torto a nessuno e quindi ne citerò
alcuni. Un autore di cui ho letto tutta la produzione e che adoro è Mario
Rigoni Stern, perché ci sono suoi libri che mi hanno dato molto “focus” per la
mia produzione. Ci sono libri di Rigoni Stern veramente incredibili e non a
caso nel manuale di Zanichelli abbiamo inserito molte cose prese da lui. Era
una persona molto semplice, ma che riusciva a dire cose di una profondità
eccezionale, quasi ci fosse una sorta di verità profonda che lo spingeva a
scrivere, che poi è quello che muove tutti gli scrittori, il pensiero di avere
una verità profonda che ti spinge a scriverla e descriverla, che ti utilizza
come “antenna di trasmissione”.
Franco Michieli, poi, oltre che essere un mio grandissimo
amico è un autore cui sto rompendo da anni le scatole perché si decida a
scrivere un libro visto che ha scritto dei racconti eccezionali nei suoi 25
anni di carriera. Secondo me sarà un autore di cui sentiremo molto parlare
quando finalmente pubblicherà i suoi libri di narrativa. Poi stimo moltissimo
Erri De Luca di cui ho letto purtroppo pochissimo e Chicca Gagliardo e Simona
Vinci. Chicca Gagliardo l’ho conosciuta dopo aver letto “Gli occhi degli
alberi” che secondo me è un libro assolutamente geniale. E poi c’è Francesco
Ongaro, un altro dei miei autori
preferiti, che ha pubblicato una stupenda biografia di Tycho Brahe, ma che ha
scritto altri bellissimi libri.
Ora, non voglio sembrare
di parte o cercare di promuovere a tutti i costi un autore emergente o poco
conosciuto, ma per esempio il libro di Michele Pellegrini, edito da Galaad, "Erba di neve" è un libro molto bello, che merita di essere letto secondo me, e che ho consigliato personalmente alla casa editrice. Io credo che in Italia i buoni autori non manchino, bisognerebbe solo dar loro spazio. Molti poi meriterebbero di essere letti o riletti con un occhio differente rispetto al solito.Davide Sapienza sarà a TRA LE ROCCE E IL CIELO venerdì 31 agosto 2012 in un incontro performance, LA MUSICA DELLA NEVE.EXPERIENCE, con il musicista Giuseppe Olivini. Brani da: La musica della neve. Piccole variazioni sulla materia bianca di Davide Sapienza. Come trasporre la Neve in Musica? Giuseppe Olivini e Davide Sapienza tentano l’esperienza attraverso l’uso di antichi strumenti etnici che accompagnano la lettura del testo. E trovano la via per mostrare i colori della neve e svelarne i misteriosi discorsi.
Davide Sapienza parteciperà, sempre venerdì 31 agosto alle 21 al tendone di Riva do Vallarsa, anche a LA GIOIA DELL’ANDAR LENTI: incontro con Margherita Hack, Alessandro De Bertolini, Valentina Musmeci, Davide Sapienza, Gigi Zoppello. Coordina Carlo Martinelli. Il paziente camminare di chi ha per meta il viaggio e non l’arrivare.
Riccardo Rella
Intervista a Davide Sapienza, scrittore, traduttore e viaggiatore lento!
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