Annibale Salsa, partiamo da quelle
che saranno le tematiche del convegno “Uomo e montagna, paesaggi intrasformazione”, che si svolgerà a TRA LE ROCCE E IL CIELO venerdì 31 agosto 2012: il popolamento della montagna è stato stabile nel tempo o ha
visto periodicamente flussi e riflussi?
Il popolamento della montagna non ha avuto una sua costanza
stabile, ma ha visto periodi di incremento alternati a periodi di decremento
dovuti a circostanze differenti, di natura economica, politica e climatica. Ci
sono due estremi: la fase medievale che si può definire l’epoca d’oro del
popolamento della montagna alpina e l’epoca moderna- contemporanea che marca il
punto di minimo popolamento da molti secoli.
Durante il medioevo la popolazione venne incentivata a
popolare zone di montagna con tutta una serie di facilitazioni economiche e
grazie ad uno status giuridico particolare, che garantiva contratti d’affitto
ereditari per i terreni e lo status di “uomo libero”. Queste pratiche fanno
parte di quelle che io ho definito le buone pratiche medievali, che hanno
permesso il dissodamento di una enorme quantità di terre, sia nella media
montagna alpina, sia in aree al di sotto del livello del mare come nei Paesi
Bassi. Questa è la fase virtuosa dell’incremento demografico delle popolazioni
alpine.
Vi è poi una fase non virtuosa di questo incremento
demografico, quella fase che crea lo squilibrio tra popolazione e risorse
legata all’impennata demografica del XIX secolo, il vero e proprio canto del
cigno del popolamento delle montagne alpine. Questo processo poi ha innescato
un progressivo spopolamento della montagna, non più a carattere stagionale, ma
definitivo, a favore delle zone urbane più vicine e più in generale alle zone
di pianura.
Dato il trend
negativo che ha caratterizzato le popolazioni montane che si sono trasferite in
città per avere migliori condizioni di vita e più opportunità di lavoro negli
ultimi decenni, come è possibile riportare attività produttive in quota in
grado di garantire un ripopolamento?
Va detto con tutta onestà che negli ultimi anni ci sono
stati già dei segnali di ripresa e di ritorno alla montagna. Oggi ci sono
condizioni di interesse per la vita in montagna che solo 20- 30 anni fa non
c’erano, visto che i modelli economici fordisti che si erano affermati durante
tutti gli anni ’60 e ’70 del ‘900 avevano costretto i montanari a muoversi
verso le città e la pianura per cercare lavoro in quello che è stato
giustamente definito un esodo biblico. Negli ultimi 10 anni le condizioni
generali si sono invertite, nel senso che oggi ci sono molte più opportunità
per chi vive in montagna rispetto a chi vive in città, perché le nuove
tecnologie rendono possibile praticare nelle “terre alte” delle attività che
nella società industriale non erano possibili.
La società fordista era basata sui poli industriali e sul
pendolarismo che hanno drenato risorse e popolazioni dalle zone alpine
portandole nelle periferie urbane. Oggi potenzialmente ci sono condizioni
nuovamente favorevoli al popolamento della montagna, ma il fatto che questo
ancora non avvenga in misura sensibile e costante è dovuto al fatto che mentre
durante il medioevo i decisori politici del tempo avevano assecondato il
movimento di popolazioni verso la montagna grazie ad incentivi, come ho detto
prima, oggi questo non accade perché la politica attuale ancora non coglie
l’importanza che riveste il popolamento della montagna e delle Alpi nella
fattispecie.
Oggi c’è un bisogno di ritornare ad avere, oltre al discorso
sulla qualità della vita superiore che si può trovare in montagna, tutta una
serie di prodotti di qualità, siano essi alimentari o di artigianato che solo
il popolamento montano può garantire. La montagna, quindi, potrebbe ritornare
ad essere popolata, a condizione che i decisori politici di oggi si rendessero
conto dell’importanza e del valore che potrebbe avere una montagna popolata e
vissuta e adottassero misure conseguenti, cosa che al momento non sta
avvendendo.
È possibile mettere
in relazione, pur con tutte le debite differenze, la fuga dai grandi centri
urbani, iniziata nel tardo impero romano e nei primi secoli del medioevo e poi
consolidatasi grazie agli incentivi dopo il 1100, con l’attuale movimento di
fuga dalla città sovrappopolata e percepita come più rischiosa e violenta? La
montagna può rappresentare di nuovo un rifugio per una parte considerevole
delle popolazioni del primo mondo in un futuro non troppo remoto?
È chiaro che sono condizioni completamente diverse, ma
legate sempre ad un disagio di vivere in territori che non sono più in grado di
soddisfare le necessità pratiche. Al tempo della caduta dell’Impero Romano si
trattava di una crisi epocale dovuta a fenomeni migratori massicci, oggi invece
si tratta più di una crisi dell’uomo moderno che, anche alla luce della recente
crisi economica, ha bisogno di fare i conti con l’economia reale e non più con
un’economia fittizia basata sulla finanza e quindi molto più virtuale.
Le basi strutturali dei due fenomeni sono completamente
differenti, ma oggi c’è la stessa esigenza di scappare dalla città. Se però
questa esigenza non viene sostenuta politicamente rischia di diventare solo una
fuga romantica. Quindi bisogna dare a tutta la montagna, soprattutto alle Alpi,
degli strumenti di autogoverno che siano slegati da dinamiche elettoralistiche
che tendono a chiudere una popolazione su se stessa, facendo in modo che siano
le esigenze del territorio con le sue peculiarità il centro focale dell’agire
politico. Misure come l’abolizione dei piccoli comuni montani sono guidate da
logiche demenziali, che portano all’abbandono e all’inselvatichimento delle
terre alte, che è causa di smottamenti, frane e dissesti idro-geologici, come
abbiamo visto altre volte in Italia. La salvaguardia della montagna è una
questione anche di salvaguardia del territorio e non un fatto prettamente economicistico.
Com’è possibile, nel
contesto di scarsità di risorse economiche statali in cui ci troviamo, a
tutelare efficacemente le piccole comunità linguistiche montane?
Il discorso della salvaguardia delle lingue va di pari passo
con la salvaguardia delle comunità alpine. Il discorso generale riguarda la
scuola: se si tolgono dei presidi scolastici nei paesi di montagna ne consegue
giocoforza che si favorisce la fuga dalla montagna. Non è solo un problema di
tutela di una lingua minoritaria, ma più di tutela di un insediamento
minoritario. Queste riforme porterebbero i bambini in scuole più grandi,
generalmente in fondovalle, generando forti spaesamenti e innescando di nuovo
una urbanizzazione della montagna, che diverrebbe il terreno di gioco e di evasione
per i fine settimana e non più uno spazio di vita.
Innanzitutto il presidio territoriale deve essere
rappresentato dalle scuole, è fondamentale. Il cittadino di montagna ha
necessità di essere riconosciuto come tale, non attraverso la ripetizione vuota
di modelli culturali lontani nel tempo, ma attraverso il contatto con un
patrimonio culturale rivisitato e attualizzato. Non un passatismo, quindi, ma
insegnamenti che attraverso la lingua faccia comprendere meglio il territorio.
Lo scopo primario è quello di cercare di mantenere attivi e vissuti i presidi
di montagna, di cui la lingua è un aspetto complementare e dipendente.
Se vediamo quali sono le voci risparmio reali derivanti
dall’eliminazione dei presidi scolastici e sanitari di montagna si scopre che
in realtà sono cifre irrisorie nel breve periodo, ma che rischiano di dare il
colpo di grazia alle comunità di montagna, con un ritorno economico negativo in
termini di mancanza di prodotti di qualità che supererebbe di gran lunga i
vantaggi per i costi correnti dello stato. Per non parlare dei costi morali…
Nell’ottica della
salvaguardia delle lingue un ruolo importante lo può giocare la toponomastica.
Come e quanto la salvaguardia della nomenclatura dei luoghi può aiutare una
cultura minoritaria a sopravvivere?
Anche in questo caso spesso il problema viene travisato, per
ignoranza o per malafede, in termini di sciovinismo linguistico o di etnicismo,
mentre invece il problema reale è quello della toponomastica storica.
Attraverso la sedimentazione dei nomi dei luoghi attraverso i molti secoli di
storia, questi stessi luoghi hanno ottenuto una loro particolarità e
specificità, una loro anima. I nomi dei luoghi narrano la loro destinazione
funzionale e se si sovrappongono a questi dei nomi inventati, come è successo
in Alto Adige, i luoghi non comunicano più niente.
Il toponimo storico dice sempre qualcosa, comunica un
significato. Oggi la gente vive in una sorta di alienazione nella propria
terra, nomina dei luoghi con denominazioni di cui non conosce il significato.
Bisogna uscire dal dualismo etnicismo- sciovinismo linguistico e adottare un
criterio, come ho detto, di toponomastica storica. La toponomastica non è
legata ad un bilinguismo, ma è legata ad un significato che si è depositato in
un luogo attraverso secoli di storia.
Dare un nome alle cose è il primo atto con cui l’umanità si
identifica e si insedia in un luogo. Il toponimo storico ha un valore che va al
di là dell’aspetto etnico- linguistico: è un qualcosa che riflette la storia di
un insediamento. L’identità di un luogo è costruita dalla storia, non da una
etnia o dalla lingua, frutto quindi di trasformazioni, mutazioni e negoziazioni
continue fra popolazioni e territorio.
Che prospettive vedi
per la conservazione della cultura di montagna, intesa nel senso più ampio
possibile, oggi come oggi?
Per prima cosa io distinguo sempre tra le Alpi e le altre
montagne perché le Alpi occupano una posizione strategica all’interno
dell’Europa. Oggi, di fronte all’ondata euroscettica che si sta vivendo, in cui
non si trovano più elementi che accomunino, e in cui si cercano ostinatamente solo
quelli che dividono la storia delle Alpi può rappresentare un modello per il
futuro. Le Alpi oggi possono tornare ad essere quello che molti studiosi hanno
definito “magnifico laboratorio” per la convivenza pacifica di popoli e culture
differenti. Possono diventare il laboratorio per una nuova Europa basata sul
paradigma dell’unità nella diversità.
La crisi dell’Europa e dell’Euro dipende dal fatto che noi
abbiamo una moneta unica, ma non abbiamo una politica monetaria unica, c’è solo
una mera unione economica, ma a livello politico siamo ancora divisi dai
nazionalismi. Le Alpi hanno sempre rappresentato uno spazio in cui differenti
popolazioni hanno dialogato e collaborato tra loro senza che vi fossero confini
fra di loro. Bisogna andare oltre il concetto di nazione, ormai vecchio e
inutile.
Parlando altre volte
hai citato più volte il modello della Confederazione Elvetica come l’equilibrio
ideale tra diversità culturali: è un modello esportabile?
È chiaro che il modello elvetico non può essere esportato
sic et simpliciter. Niente di così complesso può essere esportato. Sono
fortemente contrario a coloro che affermavano che la democrazia potesse essere
esportata. Ogni struttura sociale è figlia della cultura del tempo, quindi non
si può semplicemente prendere il modello svizzero e copiarlo in un altro luogo
tale e quale.
Il modello della Confederazione Elvetica è frutto di una
storia lunga 700 anni di convivenza tra diversi che però avevano ben chiara
l’esigenza di stabilire dei principi unitari di base, come quello della
politica monetaria comune. I Cantoni svizzeri, pur avendo un'ampia capacita' di autogoverno in qualita' di
Stati federati, delegano materie fondamentali come la moneta, le dogane, le
poste alla Confederazione. In tal senso riescono a conciliare l'autonomia e gli
interessi particolari dei territori con l'interesse generale della Comunita'
allargata: un buon esempio di unita' nella diversità.
Il convegno UOMO E MONTAGNA, PAESAGGI IN TRASFORMAZIONE vedrà studiosi del calibro di Annibale Salsa, Roberto Mantovani, Ugo Morelli, Marco Avanzini, Geremia Gios, Giorgio Conti e molti altri, insieme ad amministratori e a persone che hanno deciso di fare ritorno alle attività produttive in montagna, confrontarsi sul tema dello spopolamento progressivo delle nostre valli. Il dibattito esaminerà le profonde trasformazioni che i cambiamenti in atto stanno producendo sulle nostre montagne; e tenterà di delineare possibili vie per invertire la tendenza in atto.
Il programma completo sul sito di TRA LE ROCCE E IL CIELO.
Il convegno UOMO E MONTAGNA, PAESAGGI IN TRASFORMAZIONE vedrà studiosi del calibro di Annibale Salsa, Roberto Mantovani, Ugo Morelli, Marco Avanzini, Geremia Gios, Giorgio Conti e molti altri, insieme ad amministratori e a persone che hanno deciso di fare ritorno alle attività produttive in montagna, confrontarsi sul tema dello spopolamento progressivo delle nostre valli. Il dibattito esaminerà le profonde trasformazioni che i cambiamenti in atto stanno producendo sulle nostre montagne; e tenterà di delineare possibili vie per invertire la tendenza in atto.
Il programma completo sul sito di TRA LE ROCCE E IL CIELO.
Riccardo Rella
riccardo_rella@yahoo.it
Intervista ad Annibale Salsa. Il convegno UOMO E MONTAGNA, PAESAGGI IN TRASFORMAZIONE vedrà studiosi del calibro di Annibale Salsa, Roberto Mantovani, Ugo Morelli, Marco Avanzini, Geremia Gios, Giorgio Conti e molti altri, insieme ad amministratori e a persone che hanno deciso di fare ritorno alle attività produttive in montagna, confrontarsi sul tema dello spopolamento progressivo delle nostre valli. Il dibattito esaminerà le profonde trasformazioni che i cambiamenti in atto stanno producendo sulle nostre montagne; e tenterà di delineare possibili vie per invertire la tendenza in atto.
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