Il Festival “Tra le Rocce e il Cielo” ospiterà una rassegna documentari di
Vittorio De Seta, il regista scomparso nel 2011 e di cui ricorre quest’anno il
novantesimo dalla nascita. Questi
documentari sono raccolti da Feltrinelli sotto il titolo “Il mondo perduto”.
Vuoi parlarci un po’ di De Seta, e che cos’è questo mondo perduto di cui parla?
Per
parlare del mondo narrato da De Seta, bisogna prima parlare del personaggio e
della sua biografia. E’ nato nel 1923 e morto nel 2011, quindi possiamo immaginarci
quale spettro di vicende storiche e di mutamenti, quante realtà diverse ha
potuto vedere durante questa lunga vita. Nato in Sicilia, in un contesto urbano
come quello di Palermo, e di “buona famiglia”, ma la sua attività di regista è
tutta mirata a “dare voce” ai pescatori siciliani, sardi e calabresi, ai
minatori sardi, al mondo agro-pastorale del meridione d’Italia. Realtà
marginali, e che erano già marginali quando, nel 1954, inizia a lavorare a
questi documentari.
Lui
per primo, in interviste che ha rilasciato durante la sua vita, ha detto che è
stata la prigionia di guerra l'esperienza che più di tutte lo ha formato nella
sua attività di documentarista, mettendolo in contatto con le persone che poi
sarebbero diventate i protagonisti delle sue opere. Egli ha sempre sottolineato
il “debito di gratitudine” che lo lega a quella gente, perché lo ha messo in
contatto con una cultura così distante da quella metropolitana da cui veniva.
Questo
“debito di gratitudine” si sostanzia in un metodo nuovo, anche rivoluzionario,
di fare documentario: egli abolisce la voce narrante, non parla ma dà voce a
chi ha una storia da raccontare. Non solo abolisce la voce narrante, ma anche
la sceneggiatura: il suo lavoro è quello di mettere assieme le storie dopo
averle ascoltate, non ha binari prefissati su cui far scorrere il lavoro.
I
suoi documentari non sono commentati, hanno solo dei sottotitoli didascalici
che fanno da cornice, ma la storia è fatta delle voci, dei canti, della musica,
dei rumori. L’oggetto che viene filmato è veramente il soggetto del
documentario, senza filtri.
De
Seta affermava che, non sapendo nulla delle culture che andava a documentare,
egli si rifiutava di andare a svolgere il suo lavoro con bagagli pregressi, non
voleva avere questa supponenza, e l’unico modo per farlo era far parlare solo
la cultura locale.
Quindi un cinema che
“parla poco” e invece “fa parlare” molto?
Sì,
lui stesso diceva che non riusciva a svolgere l’attività cinematografica in
modo “classico”, con un team di
specialisti che concorrevano a realizzare un “prodotto”. Ci aveva provato, ma
non era riuscito a farlo. No, lui concepiva per intero la sua opera, e la realizzava
con pochissimi aiuti: non c’era uno sceneggiatore, un tecnico luci, un tecnico
del suono e così via, e questo non per supponenza, ma per il tipo di opera che
vuole mettere in atto.
Torniamo invece
all’oggetto di questi documentari: qual è il “mondo perduto” di cui De Seta
parla, quali sono le sue caratteristiche?
Questi
documentari sono girati fra il 1954 e il 1959, quindi è la realtà dell’Italia
del sud, prevalentemente contadina, progressivamente messa ai margini dal boom
economico che di lì a poco si sarebbe sviluppato.
Il
suo intento non è né agiografico né denigratorio: semplicemente racconta di un
mondo con delle caratteristiche e che ha subito un’evoluzione lunghissima e
lentissima nei secoli, che però viene radicalmente soppiantato nel giro di poco
tempo.
La
lentezza di quel mondo, della sua evoluzione faceva pensare che non sarebbe
finito mai, che quelle tradizioni, quei mestieri, quelle comunità sarebbero
rimasti in eterno, invece De Seta si chiede come sia stato possibile che tutto
sia finito da un momento all’altro.
Quel
mondo non va rimpianto, era un mondo anche di fatica e sofferenza, ma tutta
quella cultura che quel mondo comportava non va buttata a mare, dimenticata,
rimossa. Quel mondo comprendeva anche un modo di lavorare, di stare insieme e
fare comunità che poi è andato perduto assieme alla fatica e alla sofferenza.
Il mondo di cui De
Seta parla è molto distante, nel tempo e nello spazio, dal territorio dove ci
troviamo. C’è un filo rosso che ci unisce, e se sì, quale?
Sì,
la cifra comune può essere trovata nel lavoro: nel lavorare nella natura e con
la natura, e nel modo in cui questo lavoro si svolge, o almeno si svolgeva in
passato.
Oltre
al lavoro stesso, c’è una modalità di svolgere il lavoro che è, o è stato,
un’esperienza in comune: un lavoro
scandito da ricorrenze, feste, dai ritmi e dai cicli della natura, in primo
luogo l’alternarsi delle stagioni. Questi ritmi e cicli si sostanziavano, come
già detto, in una serie di ricorrenze e di ritualità che sono comuni, pur con
modalità diverse, delle realtà agricole e in cui il lavoro si svolge
all’interno dell’ambiente naturale.
Il lavoro nella
natura, che è un po’ anche il filo rosso più in generale di questa edizione del
festival. Una modalità di lavoro con la natura ma soprattutto stando dentro
alla natura, che progressivamente rischia di essere marginalizzato, sostituito
da un lavoro che sta sempre meno nei ritmi e nelle “regole” dell’ambiente
naturale.
Infatti
dai documentari traspare chiaramente quanto sia preponderante il ruolo della
natura per i "protagonisti”, si vede come la presenza della natura sia
così centrale. Intendiamoci: centrale nel bene e nel male. Perché nello
svolgere le proprie attività in un modo così profondamente radicato nella
natura, la vita deve adattarsi ad essa, anche soccombere ad essa quando la
natura mostra più fortemente il suo volto di sofferenza, di fatica e di
privazioni.
In
questo la vita in montagna può avere, ed ha avuto certamente, questi punti in
contatto, questa comune esperienza di una natura centrale nella vita e per la
vita delle persone.
Di
nuovo De Seta ha capito quanto, da un lato, si debba ringraziare di essersi
“salvati” da una vita così aspra, così faticosa come quella che conducevano le
popolazioni che lui riprende. Dall’altro lato, non tutto è andato perduto a
ragion veduta, è scomparsa una sintonia sana con i ritmi della natura, un
rapporto rispettoso per l’ambiente e la vita, che oggi va decisamente
riscoperto, va ripreso in mano un modo di stare nella natura che sia, sì, più
vivibile e sostenibile per l’uomo, ma che sia sostenibile anche per il mondo
che ci circonda.
Pensiamo,
per uscire dall’argomento, a tutto quello che di quel mondo c’era a livello
culturale: a livello linguistico i dialetti, che con il fascismo prima e la
televisione poi sono andati persi, dimenticati.
Ora parliamo delle
altre attività che hai in programma per questa edizione del Festival: partiamo
con il laboratorio di fotografia che tu curi dall’anno scorso. Di cosa si
tratterà quest’anno?
Il
laboratorio di fotografia quest’anno cambia argomento: mentre l’anno scorso era
centrato sulla fotografia naturalistica e di paesaggio, quest’anno avrà come
titolo “fotografia di reportage: storie vissute e storie raccontate”.
Vogliamo
mettere in luce come la figura del fotografo, del reporter, costituisca un
nesso, attraverso l’immagine, con la realtà che documenta. Il modo di porsi con
ciò che si intende fotografare, quindi, è essenziale per questa attività. E’
importante, tornando a De Seta, che all’oggetto sia lasciato spazio, in modo
che diventi a tutti gli effetti soggetto della propria attività di reportage,
il reporter non deve debordare oltre un certo confine.
Come
l’anno scorso, i partecipanti dovranno realizzare un proprio progetto
fotografico, che io suggerirò abbia al centro il territorio dove ci troveremo,
quindi Vallarsa, e la sua gente.
La
trattazione degli argomenti partirà comunque dalla natura come punto di
partenza. In fondo, perché la fotografia e l’immagine sono mezzi così potenti
per veicolare un messaggio e una storia? perché sono immagini che senza la
realtà non esisterebbero. Sono un’impronta del reale, anche se poi possono
essere interpretate, in certo modo “piegate” alle proprie esigenze espressive,
ma è la naturalità, la realtà il punto di partenza obbligato per la fotografia.
Faremo
poi una carrellata sulla storia della fotografia documentaria: si parlerà
quindi delle tecniche e degli strumenti di cui il reporter si serve per
raccontare le sue storie, e che evoluzione hanno subito.
Il
laboratorio si volgerà fra sabato e domenica. La sede la stiamo ancora
decidendo, anche se probabilmente sarà il Museo della Civiltà Contadina.
E’ previsto un
momento a disposizione dei partecipanti per presentare il proprio lavoro?
Certamente.
Una volta assegnato un progetto, ci saranno vari momenti di discussione sulle
fotografie realizzate, fra un giorno e l’altro.
Anche quest’anno il
festival ospiterà una mostra fotografica di tue immagini: parlaci un po’ di
questa mostra.
Guarda,
come al solito le idee sono tante, anche le immagini sono molto numerose, e
quindi fare una scelta è sempre difficile, quindi ancora non so bene che volto prenderà
la mostra, è ancora tutto work in progress. Ti posso dire che molto
probabilmente la mostra avrà al suo centro la Vallarsa, intrecciando però
questa realtà con altri luoghi, ma ancora una forma ben definita non c’è.
Insomma, ci lasci un
po’ di suspense: allora a presto e ci vediamo al festival!
Certamente!
A presto!
La rassegna cinematografica sarà
proiettata giovedì 29 agosto e venerdì 30 agosto alle 19.30 a Riva di Vallarsa.
Ludovico Rella
ludovico_rella@yahoo.it
Complimenti per la bella e densa intervista e auguri di buon lavoro con tutto il cuore, Marco
RispondiEliminaGrazie mille a Marco Romano, autore e regista e caro amico del festival.
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