Io inizierei parlando
di te e di quella che è la tua grande passione: l’alpinismo. Come ti sei
avvicinato a questa attività?
Se dobbiamo parlare dei primordi, possiamo dire che mi sono
avvicinato all’alpinismo in maniera un po’ “anomala”: venendo da una famiglia
povera di montagna, la montagna l’ho imparata a vivere molto presto, e
soprattutto attraverso i lavori di fatica, che poi mi hanno formato anche
fisicamente, rendendomi pronto poi all’attività di scalata. La fienagione, la
cura delle bestie, l’attività di sussistenza necessaria per una famiglia
contadina. Si doveva vivere di montagna, tirarne fuori le risorse per vivere.
Diciamo che queste sono le mie origini.
Poi è venuta l’adolescenza, la sete di conoscenza, il gruppo
di amici, tutte cose che mi hanno spinto verso le pareti, l’alta montagna,
l’alpinismo in senso stretto, quindi tutti quegli aspetti della montagna che
vanno oltre la necessità per la sopravvivenza.
Questa sete di conoscenza col tempo mi ha portato a girare
il mondo con la voglia di conoscerlo. Nella prima parte in assenza completa di
soldi, addirittura le mie prime spedizioni in Patagonia le ho fatte aprendo
mutui in banca, tanto forte era il desiderio di conoscere, di vedere. Poi è
iniziata la mia attività imprenditoriale, che mi ha permesso di autofinanziarmi
e di sostenere questa attività di alpinismo.
Ci tengo molto a dire che non ho mai accettato un contratto
con uno sponsor, per me è molto importante vivere la “mia” montagna, dove “mia”
è da intendersi in senso largo, senza condizionamenti di entrate economiche o
di valori.
Mi interessa molto
questo passaggio dalla montagna più “faticosa”, fatta di privazioni di lavoro,
e questa sete di conoscenza che conduce all’alpinismo. Per te la tua attività
alpinistica è una sorta di “altra faccia della medaglia” della montagna, oppure
nasce da un desiderio di evasione dai lati negativi della montagna?
La parola “evasione” mi piace moltissimo, va bene. Anche
oggi spesso vivo l’alpinismo come un’evasione. Evasione dalle responsabilità
legate al lavoro, dalle fatiche quotidiane, dalle incombenze ed impegni burocratici.
Uno dei piaceri legati all’alpinismo è proprio che
attraverso esso posso “staccare la spina”, conoscere il mondo, le tante sfaccettature
della realtà della montagna, ma in più l’alpinismo fornisce anche risorse non
solo fisiche, anche mentali e psicologiche, per affrontare i problemi nella
vita comune.
Hai parlato anche del
tuo lavoro, che ti permette di sostenere economicamente l’attività di
alpinista. Che lavoro fai, e quali problemi di conciliare lavoro e alpinismo?
Io ho sempre voluto dare al mio alpinismo un’impostazione
diversa, “normale”, che quindi non prevedendo sponsor, richiede anche più
impegno nel coniugarla con un’attività che ti dia le risorse per vivere e per
andare in montagna.
In questo ho cercato di darmi anche sotto il profilo
lavorativo un collegamento con la “verticalità”, con la montagna: il mio lavoro
sostanzialmente, oltre alla guida alpina, consiste nella messa in sicurezza
delle pareti rocciose.
Ovviamente per il tipo di lavoro che facciamo, la parte
burocratica è quella che crea più difficoltà, rende più oneroso il lavoro e,
quindi, più difficile coniugarlo con l’alpinismo. La burocrazia si sta facendo
asfissiante e questo non aiuta a tenere assieme lavoro e montagna.
Però la dimensione del lavoro, della responsabilità anche
nei confronti della famiglia, è essenziale, permette di vivere anche le altre
cose appieno: avere una propria professionalità permette di vivere la montagna
senza condizionamenti né morali né materiali poi, per carità, per altri forse è
giusto che accada visto che gli sponsor aiutano, ma se sei una persona
sensibile alla responsabilità il condizionamento è inevitabile, e io questo non
lo voglio.
Ritengo che l’alpinismo sia una delle ultime libertà che ci
sono rimaste di vivere un’esperienza “in solitaria”, in maniera personale, in
un’ottica, come si diceva prima, di “evasione” dal quotidiano. Per questo
motivo credo che questa libertà non vada limitata, che si debba evitare ogni
condizionamento. Poi per carità, si può vivere la montagna in molti modi e
ognuno ha il suo.
Relativamente presto
rispetto all’inizio della tua attività, ti sei avvicinato a destinazioni un po’
più insolite, come le Ande, aprendo fra l’altro molte vie nuove, sperimentando
nuovi percorsi. Definiresti “pionieristico” il tuo alpinismo? La scoperta e la
novità, l’imprevisto, sono ancora vivi nell’alpinismo, o si ha l’impressione
che si sia “scoperto tutto”?
No, non si è scoperto tutto, non si finisce mai con la
scoperta. Io vivo proprio l’alpinismo come fonte inesauribile di novità, di
ricerca. Questo desiderio dell’ignoto credo che sia insito in ogni individuo,
ogni persona che si mette in cerca.
Anche io sono passato e spesso ripasso dalle ripetizioni di
percorsi miei, da scalate sulle orme di chi è venuto prima di me, soprattutto
con grande rispetto perché le vie che conosciamo sono state aperte da chi ci ha
fatto avvicinare all’alpinismo, dai nostri “maestri”. Sono loro che ci hanno
insegnato ad entrare per gradi nella montagna e nell’alpinismo.
Io credo che non si debba mai dare confini o limiti a
fantasia e immaginazione.
A questa edizione del
Festival “Tra le rocce e il cielo” tu presenti la tua ultima “fatica”
letteraria: “Il richiamo dei sogni. La montagna in punta di piedi”. Ecco,
quando ho letto il titolo mi ha colpito soprattutto la seconda frase, perché
sembra quasi un “programma” di un’altra idea di alpinismo. E’ così? Ci vuoi
parlare della tua idea di alpinismo?
Guarda, in questo primo periodo dalla pubblicazione sono
meravigliato da quante telefonate mi arrivano, ogni giorno, di persone che sono
d’accordo su come scrivo di montagna e di alpinismo.
Io nel libro ho cercato di raccogliere vicende e racconti,
ma non ho inteso fare un libro solo sulla vita di montagna o sull’esperienza
della scalata. La più grande fatica e il mio obiettivo in questo libro era
provare a portare a galla la mia interiorità. Le mie emozioni, i miei
sentimenti, cercare di descriverli e di parlare di quelle piccole cose che
fanno grande l’esperienza di montagna.
Intendiamoci, piccole cose che fanno grandi non solo le
grandi scalate, i grandi viaggi, ma anche le esperienze più minute: l’ombra, le
nebbie, le origini, una passeggiata nel bosco, cose umili ma importanti.
Credo e spero di aver creato qualcosa di diverso, di un po’
“fuori dalla norma”. Difatti sono felice quando questo libro viene definito un
“quaderno o diario dell’anima”, come qualcuno ha fatto. Questo conferma l’idea che
animava il libro quando ho pensato di scriverlo, e che è passata a chi lo ha
letto.
Infine parliamo di
un’altra tua attività e passione, che è collegata al tuo libro: quella del
documentarista. Da quanto fai questa attività, come ti ci sei avvicinato e che
cosa vuoi trasmettere con i tuoi documentari?
Diciamo che cerco di evitare di parlare solo dell’atto della
scalata: non voglio descrivere il mio andare in vetta, la grande impresa, i
grandi rischi. Sono cose che, anche nel nostro mondo, ormai sono scontate.
Ci sono anche dei canali televisivi che a volte trattano di
alpinismo e non, ma alla fine non fanno altro che “gossip” o enfatizzazione sull’alpinismo
e la sua storia.
Cerco soprattutto, come ho cercato anche nel libro, di far
emergere le sensazioni, le emozioni, non tanto il grado di difficoltà o la
bravura degli alpinisti.
Vuoi ripercorrere un
po’ la tua attività attraverso qualche titolo che, a tuo parere, esprime meglio
quello che cerchi di fare?
Nei miei documentari voglio ogni volta rappresentare una
faccia diversa della montagna, esplorare tutte le sfaccettature di questo
mondo.
Fra i primi potrei citare “Cuore di Ghiaccio” che cerca di
trasmettere l’umanità, la crescita, la costruzione di valori che possono
derivare anche da un’esperienza negativa, quando non tutto va per il verso
giusto.
Poi c’è il documentario che ho fatto in ricordo di Cesarino
Fava, in cui trasmetto la voglia di vivere e di conoscere di una persona che
aveva già passato la soglia degli ottant’anni e che comunque era in grado di
trascinare con sé altre persone.
Uno degli ultimi lavori che è “Bambini di Hushe”, invece è
un’esortazione alla solidarietà, al fatto che essa può ancora essere un valore,
attraverso questi villaggi del Karakorum che hanno un’incredibile necessità di
aiuto, di sostegno.
Poi ho realizzato anche filmati che si concentrano sulla
salita in vetta vera e propria, ma anche in questi casi dietro la salita c’è il
racconto del rapporto umano e dei veri valori che la montagna è in grado di
trasmettere.
Perfetto, io ti
ringrazio per il tuo tempo, e ci vediamo al Festival!
Certamente, a presto!
Ludovico Rella
ludovico_rella@yahoo.it
Leggo solo ora questa bella intervista! Anch'io sono un appassionato di sport di montagna ed alpinismo, da qualche tempo ho anche aperto un blog. Trovi i contatti nel sito, casomai volessimo sentirci. Ciao, Fabrizio Vago :-)
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